32/2005
Con il titolo del suo primo romanzo – Un inetto, poi cambiato, come noto, per volontà dell'editore, in Una vita – Svevo indicava una condizione esistenziale che, a ben guardare, si rivela una efficace chiave interpretativa di tanta letteratura del Novecento, e non solo italiano. Svevo lo nomina alla fine dell'Ottocento ( Una vita è del 1892), ma la figura dell'inetto attraversa, in maniera davvero caratterizzante, tutto il secolo successivo e sta ad indicare, pur nelle diverse forme in cui si presenta, un tipo umano estraneo – appunto, incapace di adattarsi – alla concretezza pragmatica e all'efficienza produttiva della moderna società industriale. Dunque un anti-eroe, i cui precedenti sono senz'altro riconoscibili in certi personaggi del grande romanzo russo dell'Ottocento: in Oblomov, ad esempio, ma anche – e citeremo due autori notoriamente cari a Svevo – nell'“uomo del sottosuolo” di Dostoevskji e nell'“uomo superfluo” di Turgenev. E certo, in questa galleria ideale non può mancare l'albatro che Baudelaire ha cantato in una delle più celebri Fleurs du mal : quel grande uccello marino, re dell'azzurro e principe dei nembi, che, simile al poeta esiliato sulla terra, impacciato dalle sue ali di gigante, appare goffo e ridicolo sulla tolda della nave dove i marinai ne fanno oggetto di scherno, ha connotati che lo rendono dell'inetto sveviano l'antenato più illustre e credibile. Ma se non è sorprendente incrociare, in questa breve ricognizione, un maestro riconosciuto, quale Baudelaire, del Novecento letterario, più sorprendente sarà, risalendo a ritroso, scoprire che già Leopardi aveva individuato la specificità di quella condizione umana e ne aveva effettuato una diagnosi quanto mai precisa. Più sorprendente, ma solo per chi non sappia riconoscere a quel pensatore poetante la straordinaria capacità di vedere, con largo anticipo di tempo, temi e problemi che diventeranno attuali più di un secolo dopo.
I. Leopardi: l'anima Nel Dialogo della Natura e di un'Anima Leopardi ribadisce quell'associazione fra grandezza e infelicità, già enunciata nello Zibaldone [1] e rintracciabile in altre Operette morali : [2] quanto più l'individuo è dotato di intelligenza e sensibilità (quanto più si eleva sopra il torpore degli “animali bruti”), tanto più è destinato all'infelicità, giacché più intensamente avverte la distanza incolmabile fra il desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà. Ma più interessante, in questa Operetta , è lo sviluppo del ragionamento per cui, dalle suddette premesse, la Natura giunge ad indicare per l'anima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita quotidiana: Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell'eseguire. I meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e nell'operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo all'irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per l'eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo. [3] Si dice dunque che le qualità umane più alte (tali sono per Leopardi la “ragione” e l'“immaginativa”) sono fonte di dubbi ed esitazioni sia nel decidere che nell'agire ( creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell'eseguire ) e quindi condannano l'individuo intelligente e sensibile ad una perpetua irresolutezza, laddove invece prontezza nel decidere e determinazione nell'agire sono proprie degli ingegni mediocri ( i meno atti o meno usati a ponderare seco medesimi ); e mentre tali ingegni mediocri (anzi, spregevoli in ogni modo ) saranno sempre capaci di praticare con naturalezza quei comportamenti che risultano apprezzati in società (nel conversare con gli altri uomini ), l'individuo di talento apparirà, al contrario, goffo e impacciato. Insomma, il privilegio della profondità di pensiero e immaginazione si sconta con l'incapacità di decidere e, su un piano più basso, con la mancanza di disinvoltura nella vita sociale. La riflessione sulla prima di queste conseguenze ritorna con chiarezza in alcune pagine dello Zibaldone: È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all'operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell'eccessiva pena dell'irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l'utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l'abito di riflettere, e la profondità dell'indole, tanto è maggiore la difficoltà e l'angustia di risolvere. [4] Il secondo motivo, ovvero quello della incapacità “ di rendersi nella conversazione tollerabili ”, si ritrova anche in un'altra Operetta , nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri , nella quale peraltro sembrano confluire le articolate considerazioni svolte nello Zibaldone a proposito della “ invincibile timidità ” di Rousseau e di altri come lui: costoro, si dice, a differenza di un'altra categoria di persone (cui è riconducibile Alfieri), non è che disprezzino le cose piccole e basse che servono per risultare piacevoli in società, ma, al contrario, vi si dedicano con un eccesso di attenzione; il che
Altrove si parla invece di un eccesso di “ amor proprio ”, riconducibile alla “ soprabbondanza della vita interna dell'anima ”:
In conclusione:
II. Svevo: l'inetto Leopardi non figura nell'elenco degli autori che Svevo, nel Profilo autobiografico , indica come significativi per la sua formazione. E tuttavia è difficile non riconoscere nelle idee sopra esposte una sorta di diagnosi ante litteram della malattia patita dai protagonisti dei romanzi dello scrittore triestino. Che si tratti della “inettitudine” di Alfonso, della “senilità” di Emilio o della “malattia” di Zeno, [8] la condizione che accomuna i tre personaggi, al di là delle differenze che ovviamente esistono, sembra essere quella della inadeguatezza alla vita pratica; inadeguatezza determinata da un eccesso di pensiero (una ipertrofia della coscienza) che inibisce (paralizza) la capacità di decidere e di agire. E per loro sembrano appropriati anche i corollari conseguenti cui fa riferimento Leopardi: l'inadatto alla vita pratica (l'inetto) è anche goffo fino al ridicolo nei rapporti interpersonali; gli “adatti”, al contrario, oltre che capaci di decidere e di agire, sono anche brillanti nella vita sociale; ma lo sono, inevitabilmente, a prezzo (o in virtù) della loro mediocrità intellettuale. In Una vita c'è un passo interessante, che consente di mettere meglio a fuoco questa affinità di pensiero fra Svevo e Leopardi. Si tratta del discorso con cui Macario (l'antagonista di Alfonso) intende dare una lezione di vita all'amico-nemico. I due stanno rientrando in porto dopo una gita in cutter , durante la quale Macario ha già avuto modo di mostrare la sua perizia e sicurezza a fronte del disagio, psichico e fisico, di Alfonso. Attorno alla barca volano gabbiani, che ogni tanto si precipitano rapidissimi in mare, ad afferrare la preda. Macario invita Alfonso ad osservarli, quindi così “filosofeggia”:
È evidente che Macario contrappone, servendosi dell'esempio del gabbiano, due tipi umani: l'adatto a vivere (al quale, per afferrare la preda, non occorre cervello) e l'inetto (il quale, invece, non sa afferrare la preda e passa la vita a nutrire un essere inutile , il cervello appunto). Davanti a tanta sicurezza, Alfonso si ritrae intimidito, anzi peggio, con una domanda quanto mai ingenua (“ E io ho le ali? ”), presta il fianco alla battuta conclusiva e liquidatoria di Macario (“ Per fare dei voli pindarici, sì ”). E certo, il “ letterato ozioso ” (così viene chiamato Emilio in Senilità ), che coltiva l'immaginazione e il sentimento, la fantasia e l'intelletto (“ nutre ” il cervello, come dice Macario), sempre fuori fase rispetto alla realtà, non può che apparire un ridicolo sognatore all'uomo di successo, orgogliosamente privo di cervello (entità “ da negligersi ”), ma ben dotato delle qualità necessarie per afferrare la preda: e sono, queste ultime, qualità quasi animalesche (lo dice già il paragone con il gabbiano) che hanno a che fare con la rapidità di decisione e la spietatezza di esecuzione; qualità rispetto a cui il cervello è di ostacolo, in quanto, implicando la facoltà di concepire il possibile, immaginare l'alternativa, pensare l'inesistente, rallenta l'azione fino a bloccarla. Ma ciò che nella filosofia di Macario appare come il negativo, è proprio il positivo indicato da Leopardi. Quel cervello “ essere inutile ”, di cui parla Macario, è la stessa grande anima di cui Leopardi dice che, “ soverchiata dalla grandezza delle proprie facoltà ”, “ per l'abito di riflettere e la profondità dell'indole ”, si rivela d'impaccio quando si tratta di decidere e di agire. E poiché il cervello-anima è proprio ciò che distingue – privilegio e maledizione – l'uomo dagli animali bruti, rinunciarvi vorrebbe dire rinunciare alla essenza dell'umanità. Da questo punto di vista, l'inetto sveviano perde ogni connotazione negativa per acquisire quella positiva, anzi titanica, dell'uomo che, a prezzo di una diversità che lo emargina dal consorzio civile, ma anche lo distingue dalla massa dei mediocri, non rinuncia al pensiero, ovvero non rinuncia all'essenza del proprio essere uomo. Del resto, se leggiamo certi saggi sveviani, quali L'uomo e la teoria darwiniana e La corruzione dell'anima [10] non possiamo che trovare riscontri a questa teoria che fa dell'inadatto a vivere l'uomo per eccellenza. Vi si sostiene anzitutto che la superiorità dell'uomo sull'animale è data dal fatto che, mentre quest'ultimo perde l'anima (e con essa il “malcontento”, ovvero l'insoddisfazione) nel momento in cui adatta il proprio organismo alle necessità ambientali, l'uomo è l'essere che conserva l'anima – e l'inquietudine vitale che le è propria – proprio perché non c'è adattamento che lo soddisfi. L'uomo dunque, pur a prezzo dell'infelicità (è “ torvo e malcontento ”), mantiene integre le potenzialità di sviluppo ed è sempre disponibile ad affrontare il mutamento ambientale, laddove l'animale vive, sì, soddisfatto della funzionalità del proprio organismo, ma rimane “ identico a se stesso, definitivamente cristallizzato ”, “ non accorgendosi di aver perduto la vera vita ” (la “ vera ” vita : non sfugga il giudizio di valore). Ne consegue paradossalmente che, rovesciando l'assunto darwiniano, il vero vincitore nella lotta per la sopravvivenza è l'uomo in quanto animale che non si adatta, e cioè l'uomo in quanto inetto (etimologicamente in-aptus , ovvero “non-atto”, “che non si adatta”); ma, di più, trasponendo questa verità sul piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale, perché si conclude che l'uomo di successo è il mediocre che ha perduto l'anima (e con essa la vera vita ), assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori dominanti (appunto, adattandovisi), [11] laddove l'inetto, in quanto incapace di far propri quei valori (in quanto renitente ad adattarvisi), è l'uomo che vive la vera vita , l'uomo in senso pieno, dotato di anima, dunque eternamente insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni luogo, mai in pace con se stesso e con gli altri. E che questa sia l'ottica giusta con cui guardare i protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo stesso autore quando, nella lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927, parla del “contemplatore” [12] come dell'“ uomo più umano che sia stato creato ”, quindi si chiede:
Per altro, il confronto fra la condizione dell'animale, naturalmente felice, e quella dell'uomo, tormentato dalle contraddizioni del pensiero, torna in altri momenti dell'opera sveviana. Oltre al passo sopra citato, in cui – a contrasto con l'inettitudine di Alfonso – è descritta la perfetta attitudine alla vita del gabbiano, è ben nota la pagina finale de La coscienza di Zeno , dove alla salute della rondine (ma anche della talpa e del cavallo), che non conosce altro progresso che “ quello del proprio organismo ”, si contrappone la malattia dell'“ occhialuto uomo ” che “ inventa ordigni fuori del suo corpo ”, sottraendosi così alla selezione naturale. Il fatto è che la rondine – lo apprendiamo da una delle favole, Rapporti difficili [14] – non ha “spazio nel cervello per contenere due concezioni della vita ”: questa è la sua fortuna, ma anche il suo limite. Viceversa, dobbiamo intendere, la sfortuna (ma anche la superiorità) dell'uomo è proporzionale allo spazio che c'è nel suo cervello, uno spazio che può contenere due (o più, ovviamente) concezioni della vita: è, insomma, lo spazio “ della ragione e della immaginativa ” che condanna i più dotati fra gli uomini alla “ irresoluzione ”, per dirla con parole leopardiane; alla inettitudine (alla senilità, alla malattia) per dirla con Svevo.
III. Montale: l'ombra A tale problematica sembrano ricondurci anche alcuni motivi presenti nella poesia di Montale. E non dovremo stupircene: una vicinanza di sensibilità fra i due autori è facilmente presumibile, se si pensa che Montale, come noto, è stato il primo lettore italiano a segnalare la novità e l'importanza di Svevo. Ebbene, quel senso di “ totale disarmonia con la realtà che mi circondava ” (sono parole dello stesso Montale), [15] o “ inadattamento ” (davvero significativo il termine usato), rintracciabile in tanti componimenti delle sue raccolte, non appare diverso dal senso di estraneità al mondo circostante che caratterizza, e tormenta, “colui che non si adatta” nei romanzi sveviani; e simile sembra anche il sentimento contraddittorio, di ammirazione e disprezzo, espresso nei confronti di chi si dimostra adatto alla vita.
È la strofa centrale di uno dei più noti fra gli ossi di seppia , quello in cui il poeta, enunciando i principi della sua poetica, dichiara di non avere parole forti e chiare (splendenti “ come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato ”) che possano comunicare certezze, trasmettere valori, proporre, in positivo, ideali; al contrario, egli può soltanto pronunciare “ qualche storta sillaba e secca come un ramo ” e limitarsi a constatare, in negativo, che siamo costretti ad una condizione di inautenticità (e insoddisfazione), che la vita che viviamo è vuota e falsa, ci è estranea, non è quella che vorremmo (“ Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo ”). Al centro, la strofa sopra citata esprime contemporaneamente, con grande ambiguità, il desiderio e la deprecazione (tale mi sembra il doppio valore dell'esclamativo iniziale) di un atteggiamento esistenziale diverso, quello dell'“ uomo che se ne va sicuro ” perché non avverte, e quindi non patisce, il vuoto e il falso della propria condizione. È un uomo felice, e quindi invidiabile, perché non si guarda vivere, ma vive con immediatezza, è in sintonia con la realtà; ma, proprio perciò, è anche un uomo mediocre, e quindi da commiserarsi, perché incapace di riflettere sul senso del proprio esistere e del proprio rapporto col mondo; proprio perché vive aderendo pienamente alla realtà, al suo sguardo manca la distanza necessaria per vedere e comprendere; l'altra faccia della sua felice immediatezza è appunto questa mancanza di distacco critico, ovvero l'incapacità di guardare dall'esterno, anche solo per un momento, se stesso e la totalità. Ma certo, nel momento in cui si guardasse dall'esterno, si sarebbe già sdoppiato e il dubbio comincerebbe a corrodere le sue sicurezze, prima fra tutte quella sulla compattezza e la unicità del suo stesso io. Proprio questo indica la bella immagine di colui che “ l'ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro ”: non prestare attenzione ad un evento usuale, e naturalissimo, quale la proiezione della propria ombra su un muro sgretolato dal sole, è quanto di più normale ci si possa aspettare; ridicolo, fino al patologico, appare invece l'atteggiamento contrario. Ma quell'uomo ridicolo e malato, nel quale il poeta si rispecchia, è l'uomo che non rinuncia all'intelligenza critica, e paga alla volontà di comprensione il prezzo dello sdoppiamento. Costui, di fronte alla propria ombra, si ferma stupefatto: su quello scalcinato muro non vede un'insignificante macchia scura, ma riconosce se stesso fuori di sé: vede se stesso che vive, ed è una vista indimenticabile. Da quel momento, accanto a un io che vive c'è un io che si interroga sul senso di quel vivere, e per ciò stesso rallenta, fino a paralizzarli, i movimenti della vita: lo sguardo su se stesso, denso di interrogativi ormai ineludibili, è uno sguardo che pietrifica come quello della Medusa. La vita, immediata e irriflessa, non è più possibile, ogni solida certezza si dissolve; resta un uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalità dominante, e da questa non è riconosciuto; è un uomo che non può essere “ agli altri ed a se stesso amico ”, perché fra lui e gli altri c'è una diversità che non consente amicizia, così come non c'è più pace fra lui e se stesso. È un uomo goffo nei rapporti con le persone, impacciato nei comportamenti, ormai incapace di compiere le più semplici azioni della quotidianità: è un inetto.
IV. Pirandello: il doppio Dunque, “curarsi” della propria ombra, è segno di una più alta umanità, che può appartenere solo a chi ha acquisito la consapevolezza del proprio sdoppiamento; o a chi, per dirla con Svevo, “ ha lo spazio nel proprio cervello per contenere due concezioni della vita ”, e perciò si differenzia – doloroso privilegio – in natura dall'animale, in società dall'“ uomo che se ne va sicuro ”. Ma il motivo dell'ombra come manifestazione concreta (o “correlativo oggettivo”) dello sdoppiamento, ci rimanda ad un altro significativo autore del Novecento, a Pirandello, che del resto ha fatto della crisi d'identità, e della connessa perdita delle certezze, il tema centrale della sua produzione. Si pensi alla condizione patita da Mattia Pascal, il protagonista del più famoso dei romanzi pirandelliani. Costui non solo è sdoppiato per definizione, in quanto titolare di una doppia identità (Mattia Pascal / Adriano Meis), ma emblematicamente si ritrova, a un certo punto della storia, proprio a combattere con la sua stessa ombra (cap. xv , Io e l'ombra mia). Frustrato nella sua aspirazione a vivere pienamente la vita (si accorge di essere stato derubato, ma non può denunciare il ladro, per la stessa ragione per cui non può legalizzare il suo amore: non ha identità anagrafica) esce di casa e passeggia per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se fosse un'entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare, ma da cui non riesce a separarsi (“se mi metto a correre, mi seguirà”):
L'ombra è dunque l'emblema visibile della scissione dell'io, ma è anche il corrispettivo dell'anima. Chi se ne avvede (chi si cura della propria ombra), ha perso l'immediatezza che la vita richiede, è spezzato fra un io che vive e un io che riflette su quel vivere, è dunque irrimediabilmente inibito alla vita. Ma chi non se ne avvede (chi non si cura della propria ombra, o, che è lo stesso, chi per una “storia straordinaria” l'avesse persa), ha perso l'anima. È appunto questo il senso che si ricava da quel racconto di Chamisso ( Storia straordinaria di Peter Schlemihl ), vero e proprio archetipo letterario costruito sul motivo, fantastico e inquietante, della perdita dell'ombra: troppo tardi lo sventurato Peter si rende conto che, cedendo al diavolo la propria ombra in cambio di ricchezza e successo, si è privato della propria umanità (la mancanza dell'ombra è una deformità che lo esclude dal consorzio umano); e troppo tardi riconosce l'equivalenza dell'ombra con l'anima, visto che solo in cambio dell'anima il diavolo è disposto a restituirgliela. Il cerchio si chiude. Se l'ombra è l'anima, non accorgersi della propria ombra “ che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro ” vuol dire non accorgersi della propria anima. E non ci si accorge della propria anima perché la si è persa, adattandosi alla realtà. Chi l'ha persa, “ se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico ”. Ma perdere l'anima significa perdere ciò che le è più proprio, cioè, come avvertiva Leopardi, “ soprabbondanza di vita interna ”, capacità di “ ponderare seco medesimi ”, “ vivacità di immaginazione ”. E solo chi conserva tutto ciò, conserva integra, pur a prezzo del “ malcontento ” e dell'inettitudine, la propria umanità.
Note Zibaldone, 21 gennaio 1821 (pp. 538-9); ma si veda anche 26 luglio 1823 (p. 3040). Ibid ., 18 agosto 1823 (pp. 3188-9). Ibid ., 3 marzo 1824 (pp. 4038-9). G. Leopardi , Detti memorabili di Filippo Ottonieri , in Tutte le opere, cit. , vol. I, p. 942. I. Svevo , Opera omnia, vol. II, Milano 1969, pp. 207-8. I. Svevo , Opera omnia, vol. I, Milano 1966, p. 860. I. Svevo , Opera omnia, vol. III, Milano 1968, pp. 755-9. E. Montale , Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Milano 1996, p. 1592. L. Pirandello , Tutti i romanzi , vol. I, Milano 1990, pp. 523-4. |
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