26/2002
Uscito
per la prima volta nel 1980 a Ginevra, per i tipi della benemerita
Librairie Droz, e ripubblicato nel 1994 a Parigi presso Albin Michel, in
un'edizione economica e tuttavia impreziosita da una nuova Préface
dell'Autore, L'âge de l'éloquence, il libro che rivelò al
pubblico dei letterati lo straordinario ingegno interpretativo e
storiografico di Marc Fumaroli, fu scritto nel corso degli anni
Settanta, quando in Francia il panorama delle cosiddette "scienze
umane" era dominato dallo strutturalismo. In un clima culturale di
esasperato formalismo, il sistema precettistico della retorica antica
non mancava di sollecitare l'interesse delle discipline "qui étaient
alors à la mode au Quartier Latin": tant'è che, in un suo agile e
fortunato saggio (intitolato per l'appunto L'ancienne rhétorique),
Roland Barthes non esitò a estrarre un impianto semiostrutturalista
anche dall'ars bene dicendi. Costrette ad adeguarsi al modello
della linguistica saussuriana, le strutture dell'antica retorica
rischiavano però di essere ridotte a "un grande ammasso di rovine da
cui di tanto in tanto era possibile recuperare qualche reperto per poi
riutilizzarlo nella lugubre teoria della scrittura e della lettura
moderne". Seguendo un percorso metodologico che agli occhi degli
intellettuali à la page poteva magari apparire come uno sfoggio di
erudizione passatista ma che di fatto era il sigillo di un ingegno
indipendente e anticonformista, Fumaroli non ambiva ad "aggiornare" il
messaggio dei classici: voleva invece che gli antichi retori e i loro
eredi rinascimentali e barocchi ci riparlassero con la loro voce,
sì da dimostrarci che le "strutture d'intellegibilità"
dell'antica manualistica, radicate com'erano nella vivente e storica
dialogicità dell'uomo, riuscivano più efficaci delle strutture -
spesso asettiche e metastoriche - della linguistica contemporanea. Ne
risultava il mirabile edificio dell'Âge de l'éloquence. Una
miniera erudita, certo: ma d'una erudizione che è illuminazione e gioia
del pensiero. Illuminazione: perché ogni notizia, anche la più dotta o
peregrina, getta una luce imprevista sul senso di una tradizione oggi
sempre più insidiata da quelli che Chateaubriand chiamava i "barbari
della civiltà". Gioia: perché tra le pagine dell'Âge de l'éloquence
noi lettori ci sentiamo proiettati in una sorta di ideale locus amoenus,
in cui tutti i libri che, dalla fine del Cinquecento agli inizî del
Settecento (il periodo che segna appunto l'"età dell'eloquenza"),
accesero il fermento di idee donde si generò la modernità vengono a
dialogare liberamente tra loro e ci permettono di riscoprire, con quella
meraviglia e con quello stupore che fecero la felicità mentale del
giovane Fumaroli, il valore dell'eredità classica e il gusto della
nostra umanità. Dobbiamo dunque plaudire alle edizioni Adelphi che
oggi ci dànno una splendida (ancorché - stranamente - mutila
dell'Introduzione, del ricco elenco bibliografico e della Prefazione
alla seconda edizione francese) versione italiana di un libro capitale per
comprendere una fase decisiva della storia della cultura europea (le
traduttrici sono Emma Bas, Margherita Botto e Graziella Cillaro). Questa
fase coincide con le vicende dell'eloquenza tra i secoli XVI e XVII ed
è organizzata da Fumaroli in tre corpose sezioni (1. Roma e la disputa
del ciceronianismo, 2. Dal molteplice all'uno: gli "stili gesuitici",
3. Lo "stile di parlamento"), tutte accomunate dal motivo conduttore
di quella lezione ciceroniana da cui appunto l'indagine del libro prende
le mosse. La prima sezione ci mostra come il ciceronianismo, matrice
feconda del dialogo eloquente, animasse i dibatti nelle due principali
regioni culturali dell'Europa secentesca: l'Italia letteraria e
cattolica, la Francia erudita e gallicana. Quei dibattiti (talvolta
infiammati da un fanatismo ottuso e spietato contro i martiri
dell'umanesimo ciceroniano: si pensi a Étienne Dolet che, nel 1546,
pagò con la vita la sua traduzione, non certo ossequiosa
dell'ortodossia cattolica, dell'antiochus di Platone)
produssero alla fine una sintesi stilistica composita ma necessaria: così
l'enfasi asiana e pittoresca del barocco mediterraneo venne a fondersi
intimamente con la severità atticista del pensiero francese educato al
rigore giansenista di Port Royal. Dai tempi di Giulio II e di Leone X fino
all'era di Urbano VIII Barberini, l'umanesimo cattolico aveva fatto
del ciceronianismo l'orgoglioso vessillo di un potere pronto a
conquistare il mondo mediante l'acquisizione totale di quei saperi
classici ora risistemati in una grandiosa summa dalla Biblioteca
selecta del padre gesuita Antonio Possevino. Secondo
le dottrine professate dai maestri di retorica che, nel corso di due
secoli, si erano avvicendati nelle due roccaforti della cultura cattolica
(il Palazzo del potere Vaticano e il Collegio Romano dei gesuiti), il Christus
Orator, fattosi Verbo, poteva esprimersi attraverso un'eloquenza
sciolta e fiorita, in cui l'amore per la forma, lungi dal tradire un
peccato di vanità, era un atto di devozione alla bontà di quel Dio che
aveva creato la bellezza del mondo. E appunto di questa risoluzione
seduttiva e cattivante dello stile si avvalse la politica
controriformistica della comunicazione: il cui programma fu quello di persuadere
attraverso il movere, ricorrendo a una serie di grazie formali
abili a conquistare la maggioranza dei cuori nobili d'Europa, rendendoli
sordi al controcanto più composto e più severo della Riforma
protestante. Non a caso Famiano Strada, il più autorevole officiante
della retorica romana primosecentesca, paragonò l'oratore cristiano
al chitarrista che strappa alla platea un plauso incondizionato solo
quando riesce a commuoverla trascinandola in un'acclamazione corale ed
entusiastica. La
tradizione del ciceronianismo romano, avviata da Pietro Bembo, viene
perpetuata da Marc Antoine Muret, che, nel suo commento all'Etica
Nicomachea di Aristotele (1565), sancisce il connubio di filosofia e
retorica. L'esercizio dello stile, l'eloquenza, diviene così un vero
e proprio esercizio dello spirito alla maniera di Sant'Ignazio di Loyola:
una sorta di ascesi estetica cui si ispireranno ancora l'opera del
gesuita Francesco Benci e poi, nel 1612, l'Orator Christianus
di padre Carlo Reggio e le Prolusiones Academicae di Famiano
Strada. Ma già dal 1528 (l'anno della pubblicazione del Ciceronianus
di Erasmo da Rotterdam), all'indomani della discesa dei lanzichenecchi
di Carlo V, si erano creati i presupposti per quell'anticiceronianismo
che riconoscerà i suoi auctores in Seneca, Sallustio e Tacito. La
vecchia accusa rivolta da Platone ai Sofisti (seguaci dell'apparenza
piuttosto che della verità) colpisce ora il cattolicesimo verboso della
Roma Aurea. Per i detrattori dell'eloquenza fiorita promossa dalla Santa
Sede si rende necessaria l'elaborazione di uno stile asciutto, che
chieda la sua bellezza alla sobrietà di un ragionamento trapunto di
guizzanti e sorprendenti acumina. Come aveva insegnato Agostino, il
linguaggio riesce veramente perspicuo solo quando sa aderire alla
concretezza delle res, senza vaneggiare nella speciosa appariscenza
dei verba. E appunto i precetti del De doctrina christiana
nutrono l'atticismo laconico di Giusto Lipsio, attento anche alla
lezione, cristianamente reinterpretata, del Sublime longiniano.
Questo atticismo laconico fa della parsimonia stilistica il
contrassegno spirituale dell'anima mistica che può dichiararsi senza
parole: "nel silenzio, in armonia col divino, la grande anima del saggio
'vive' il Sublime". D'altro canto, al motivo erasmiano del vir
christianus dicendi peritus s'informerà anche la moderazione
formale prescritta dalle numerose artes praedicandi (si pensi al De
praedicatore Verbi Dei di Giovanni Botero) che, secondo il progetto di
Carlo Borromeo, mireranno a stemperare l'enfasi del linguaggio controriformistico
e dunque a facilitare, su un piano spirituale e insieme politico, la
predicazione della fede cattolica nei territorî extraitaliani. La seconda
e la terza sezione dell'Età dell'eloquenza ci trasportano a
Parigi, nel periodo compreso tra il regno di Enrico di Navarra e il regno
di Luigi XIII, e ci introducono in un ambiente culturale complesso e
affascinante. Qui Madonna Eloquenza veste, a seconda dei casi, due diverse
"maschere" stilistiche: una maschera frivola, adeguata alla mondanità
cortigiana della nobiltà cattolica di Spada; e una maschera austera,
rispondente alla severità erudita e quasi sacerdotale della nobiltà di
Toga gallicana, paladina della Verità e della Giustizia. Così, mentre
il Palais du Louvre si compiace delle intemperanze formali di un nuovo
asianesimo, il Parlamento si fa custode dell'alleanza tra
l'eloquenza e l'etica e affida a un atticismo asciutto ed essenziale
l'ufficio di tradurre stilisticamente l'integrità morale del nobiluomo.
In questo contesto, l'altrimenti indomabile autorità della Compagnia
di Gesù è costretta a fronteggiare l'offensiva congiunta
dell'Università e della Magistratura parigine. Ognora protetti dal
diretto intervento della Corona, i gesuiti sono guardati con sospetto,
quasi come l'esercito intellettuale del colonialismo cattolico. Un
esercito di nuovi sofisti, detentori di un sistema pedagogico
pericolosamente determinato a monopolizzare la formazione della nobiltà
europea. Di qui quell'abile operazione di camaleontismo culturale che
consente a questo eloquentissimo fra gli ordini religiosi di sdoppiare
strategicamente i proprî istituti educativi: la Casa Professa di Rue
Saint Antoine viene delegata a istruire nell'eloquenza francese i grandi
predicatori di corte (tra di essi è il confessore di Luigi XIII, padre
Nicolas Caussin); il Collegio di Clermont (che vanta quale rettore il
celebre antichista Louis de Cressolles) si specializza invece in
un'eloquenza erudita, capace di stare al passo con la dotta tradizione
dell'oratoria parlamentare. In questo campo fertile germina il grande
classicismo francese dei padri Denis Petau e François Vavasseur, che
interpretano la maniera ciceroniana all'insegna di un eclettismo
duttile, che sa far vibrare più liberamente l'ardua ma versatile
tastiera della tripertita varietas. Vengono
così a profilarsi due opposte teorie dello stile: l'una è propugnata
dal Parlamento, l'altra dalla Compagnia di Gesù. Il Parlamento - che
si propone come il più autentico rappresentante della parigina Repubblica
delle Lettere - promuove una eloquenza antisofistica, ispirata alla
figura di Mosè, custode del Logos divino; un'eloquenza che, come si
conviene a un'etica della parola, si invera in uno stile rigorosamente
logico, spoglio di ornamenti e intessuto di citazioni intese a garantire
- giusta l'insegnamento di Guy du Faur de Pibrac - la veridicità
dei contenuti. Questa "retorica delle citazioni" viene presto
riformata in senso moderato da Guillame du Vair (secondo il quale "la
saggezza non sa che farsene di tutte quelle manifestazioni di stima"),
di modo che, alleggerito d'ogni soverchia erudizione, lo stile
parlamentare possa approdare a un più misurato (e politicamente più
funzionale) ciceronianismo espressivo. Dall'altro lato, la Compagnia
di Gesù favorisce un asianesimo "maraviglioso" che, allestendo una
vasta enciclopedia del visibile, esprime il mondo materiale in tutta la
sua flagrante bellezza (si pensi a trattati come Eloquentiae sacrae et
humanae parallela di Nicolas Caussin, 1619, oppure come Essay de
merveilles de nature di Étienne Binet, 1621). Questa silva locorum
deve sostenere l'inventio dei predicatori di corte e deve del pari
nutrirne la memoria: in essa si raccolgono oggetti simbolici (come
la fenice, il pavone, lo specchio deformante etc.) utili a dimostrare che
l'universo è un immenso caleidoscopio dove Dio può essere letto per
speculum in aenigmate. Del resto, il procedimento della compositio
loci, raccomandato dagli Esercizî di Sant'Ignazio, ricorda
che "non esiste soluzione di continuità tra il mondo dei sensi, delle
illusioni, e il mondo spirituale". Risuona qui un'eco neoplatonica:
la forza dello sguardo spirituale nasce infatti dall'educazione dello
sguardo fisico che sa cogliere la presenza del divino in ogni aspetto del
mondo sensibile, anche nelle cose apparentemente insignificanti. Apprendere
dalle pagine dell'Età dell'eloquenza come il sentimento
dello stile sia stato il connettivo culturale di tutte le discipline
intellettuali e di tutte le arti che hanno contribuito a formare
l'Europa moderna; apprendere come quasi ogni innovazione nel pensiero e
nella società passasse attraverso la retorica, potrebbe avere un effetto
estraniante sul lettore di oggi, immerso in quel contesto di
omogeneizzante globalizzazione in cui la parola, abdicando alla sua
prisca vocazione umanistica, si accontenta di "verbalizzare" il
mondo nella forma "notarile" e superficiale dell'informazione: senza
più ambire a capirlo, senza più impegnarsi nella costruzione di un
consorzio sociale veramente umano. Perciò ci piace suggellare questa
breve recensione con un pensiero tratto da un altro grande libro di Marc
Fumaroli, La scuola del silenzio (anch'esso pubblicato in Italia
da Adelphi, Milano 1995): "La retorica, quale io la intendo, e quale
ancora era intesa nel Seicento, è l'arte di far vedere e far
comprendere agli altri, che è cosa affatto diversa dall'informare. È,
nella sua intima essenza, un atto di condivisione e d'amore. È
un'arte, e quest'arte ha un mito: quello di Amore e Psiche".
Anna Li Vigni |
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