26/2002
Studi di Estetica
III serie
anno XXX, fasc. II

visualizza il documento in formato PDF
Renato Barilli
Il materialismo storico culturale
di fronte all'arte moderna e contemporanea

Una teoria fondata sui media

Da almeno trent'anni seguo con convinzione il pensiero espresso dallo scrittore (saggista, filosofo) canadese Marshall McLuhan in due volumi fondamentali, usciti nei primi anni '60 del secolo scorso, The Gutenberg Galaxy e Understanding Media. Chi conosce questi due libri, sa che sono stesi con un tono discorsivo, a brevi capitoletti, appoggiati a slogan, con una conduzione in cui già risulta l'impostazione stessa del McLuhan-pensiero e la sua critica ai metodi di un ragionamento analitico formalizzato, da lui considerato come tipico frutto di una cultura "tipografica", e dunque legato a una stagione ormai lontana da noi. Tuttavia devo confessare che qualche residuo attaccamento a modalità di esposizione di carattere analitico e ben ordinato sopravvivono in me, per cui, fin dai primi tempi della mia adesione al McLuhan-pensiero, mi sono dato il compito di presentarlo con un certo ordine, cominciando a pormi, per esempio, il problema di come denominarlo, cosa di cui l'autore canadese non si è mai preoccupato troppo. Potremmo dargli l'etichetta di materialismo storico culturale, pur di precisare, appunto, che invano cercheremmo una simile definizione nelle pagine stese da lui, mentre è possibile trovare un'espressione del genere presso alcuni antropologi culturali statunitensi, come per esempio Marvin Harris. Ma evidentemente conta la sostanza di un pensiero, e non il termine preciso con cui viene presentato. Parlare di materialismo culturale vuol dire anche portare l'accento in prima battuta sulla cosiddetta cultura materiale, che poi, a ben vedere, è quasi una tautologia, in quanto il termine stesso di cultura, se ne consideriamo l'origine dalla lingua latina, contiene già in sé un insopprimibile aggancio a una dimensione materiale. La radice verbale latina cult, infatti, fa tutt'uno con l'attività del colere, del coltivare la terra, e dunque chiama in causa una delle attività più pesantemente fisiche dell'essere umano, da realizzarsi adoprando mani, piedi, tutta la presenza muscolare dell'apparato somatico. Del resto, ogni seguace dell'antropologia culturale ci dice che l'inizio di ogni attività culturale sta nell'assunzione di uno strumento per incidere con esso sull'ambiente, trasformarlo, trarne le risorse per vivere. Passando a definire uno di quei postulati di cui McLuhan si è preoccupato così poco, si può asserire appunto che la cultura consiste nella capacità propria dell'uomo, e solo sua, di aggiungere alla dotazione somatica, fisiologica, ricevuta da madre natura, qualche strumento materiale capace di potenziarne l'intervento. L'uomo arma la mano con la falce e il martello, i piedi con le ruote così adatte alla locomozione, gli occhi e le orecchie con varie protesi che ne acuiscono i poteri, e così via. Naturalmente è subito opportuno rientrare nel mcluhanismo e chiamare questi strumenti o protesi o utensili con un termine estremamente indefinito ma anche tanto largo e popolare come quello di medium, plurale media, un vocabolo in cui due lingue di vastissima applicazione si incontrano felicemente: il latino, ovvero la koinè espressiva usata dai popoli occidentali nel corso di un abbondante millennio, che ha coniato quella parola, a sua volta adottata dalla lingua che è subentrata in un tale compito di comunicazione universale, l'inglese. Diciamo insomma che quello di McLuhan è un materialismo "mediale". Col che siamo a un passo dalla formula capitale del mcluhanismo, tanto elementare da apparire come un facile slogan, così da alimentare un sospetto di semplicismo, di mancanza di rigore intellettuale: il medium è il messaggio. E invece, a monte di questa formula, è possibile mettere in evidenza una saggezza speculativa che consente di risalire fino al pensiero di Kant. Il medium, o meglio - visto che non ha senso parlare al singolare, è vocazione profonda dei media quella di stringersi tra loro a costituire un sistema - i media non sono corpi estranei e inanimati, ma si saldano prontamente ai nostri organi naturali prolungandoli, arricchendoli: funzionano insomma da "forme" kantiane, al modo dello spazio e del tempo, per plasmare i dati provenienti dal mondo esterno. Non c'è un messaggio, un contenuto che possa prescindere dal modo come è raggiunto e trattato dal soggetto umano, esattamente come lo spazio e il tempo kantiani, che sono "nostri", appartengono alla condizione umana (Kant dice espressamente che non possiamo sapere con quali forme un cane o un gatto plasmano i loro mondi rispettivi). Con ciò è decisamente superato, proprio come ha voluto il kantismo, il logoro e defatigante conflitto tra un momento individuale-soggettivo, e uno collettivo, generale. I media usati in un determinato periodo storico appartengono all'intera fascia umana che ne fa uso, assumono dunque un carattere che potremmo qualificare col termine dotto voluto dal filosofo di Koenigberg, "trascendentale".

Se è giusto e opportuno riportare il mcluhanismo a una linea di riflessione raffinata come il pensiero trascendentale kantiano, è poi importante far notare subito i passi avanti che esso comporta, come del resto è inevitabile, dati i quasi due secoli di distanza che separano tra loro i due filosofi. Il grande torto del kantismo è stato di aver dato alle forme trascendentali dell'estetica (della sensorialità) e alle categorie dell'intelletto un assetto statico, non facendo segnare, per questo aspetto, alcun passo avanti rispetto alle posizioni tradizionali del pensiero antico, come si erano espresse nella geometria euclidea e nell'Organon aristotelico. I media, invece, si trascinano dietro una insopprimibile spinta verso la variazione, verso il pluralismo: non solo e non tanto per il fatto, già osservato, che essi tendono a stringersi tra loro in un sistema armonico, piuttosto che presentarsi "uno alla volta", ma ancor più per il fatto che vanno e vengono: oggi ne compaiono alcuni pronti a mandare in pensione quelli fin qui usati, ma già premono alle porte altri media più aggressivi e funzionali, capaci di sostituire i loro predecessori, nel nome dell'efficacia. Ovvero, una filosofia mediale implica in sé il concetto dell'innovazione, del mutamento incessante. Pronunciamo anche un termine fin qui non apparso, per la solita ragione che McLuhan non ne ha fatto un uso esplicito, quello di tecnica. La pratica dei media altro non è che la dimensione tecnica insita nell'uomo, la tecnologia. Il nostro materialismo culturale, dunque, oltre che esser detto mediale, potrà altrettanto bene esser detto tecnologico.

Il kantismo, con ciò, è messo in movimento, fluisce nella storia, il soggetto trascendentale, l'uomo, non può essere inchiodato a un giro di media fissi e abitudinari, ma al contrario ci appare proteso a mutarli continuamente. Naturalmente, in proposito ci saranno subito da tracciare alcune distinzioni: ci sono stati popoli, o periodi storici, assai lenti nel praticare l'innovazione tecnologica, disposti a valersi degli stessi media per secoli; e invece altri popoli, o altre fasi storiche, in cui l'innovazione tecnologica ha subito un incremento perfino spasmodico. E tuttavia, in proposito sarà opportuno recare qualche freno in entrambe le direzioni, dato che la condizione umana è tale, dovunque si sia mostrata, nel tempo della storia e nello spazio della geografia, da aver implicato pur sempre un qualche coefficiente di innovazione tecnologica, anche se poco vistoso, quasi impercettibile: in fondo, è come parlare di un corso d'acqua che talvolta scorre lento, quasi immobile all'occhio, talatra invece scende tumultuoso con cateratte e rapide, ma poi, a ben vedere, anche in questo caso si possono fissare dei cicli di permanenza, non tutto cambia continuamente. Qualcosa del genere vale anche per i singoli operatori, i più, evidentemente, si adattano alla pigra applicazione dei media ricevuti attraverso una normale educazione, altri invece, più ingegnosi, si studiano di migliorarli, di accrescerne l'efficacia. Col che, se si vuole, ritroviamo anche il canone principale dello strutturalismo: siamo tutti chiamati a parlare una sorta di "lingua" comune, nell'accezione proposta dal Saussure, corrispondente all'assetto mediale che ci è stato trasmesso; ma ciascuno di noi, nell'ambito della propria attività, è pronto a introdurre talune variazioni, che dunque sono come atti di parole, capaci poi di confluire e di organizzarsi tra loro fino alla costituzione di una nuova "lingua" mediale, ovvero di una tecnologia fondata su criteri interamente mutati.

Tutto ciò consente anche di attenuare la brutalità dell'affermazione iniziale di materialismo, come etichetta di questo stile di pensiero: è giusto, è opportuno partire dalla base, quando l'essere umano affronta il compito di procurarsi cibo, riparo, difesa contro le aggressioni esterne; quando cioè è chiamato a lavorare, a infiggere i propri strumenti nella dura scorza del mondo; ma nello stesso tempo egli si apre a una dimensione del progetto, della fuga in avanti, della ideazione di procedure mediali variate rispetto a quelle di cui si sta servendo: che cosa avverrebbe, se invece di usare quel certo strumento in quel modo lo si applicasse diversamente, o lo si sostituisse con altri di altra natura? Il bruto operatore a livello materiale è così capace di esprimere da sé lo sperimentatore, colui che si immagina scenari diversi da quelli presenti e incombenti, pronto cioè a servirsi non più di strumenti materiali di lavoro, ma di strumenti ideali, immateriali, che potremmo definire con un altro termine preso dall'armamentario filosofico, e dunque come tale anch'esso estraneo al McLuhan-pensiero, orgoglioso della sua semplicità a prova di bomba: il simbolo. L'attività culturale, insomma, si articola in due strati, dei quali l'uno è degli strumenti del lavoro materiale, l'altro è di quegli strumenti più sofisticati con cui si manipola ciò che non è ancora presente, qui e ora, ma lo potrà essere in futuro. I media si articolano in utensili pesanti, materiali, e in raffinati, aerei, impalpabili simboli. Oltre agli operatori della prassi quotidiana ci sono coloro che si interessano delle scienze e arti, attraverso un ricorso sistematico al simbolo; e anzi anche in questo ambito è necessario rendere plurale la nozione, in quanto i simboli tendono a organizzarsi tra loro dando luogo a sistemi corenti e integrati.

Ma non c'è bisogno di stabilire una pesante gerarchia, un ordine prioritario, tra strumenti materiali e simboli ideali, data la loro comune appartenenza alla natura dei media: qualsivoglia strumento di lavoro materiale non manca mai di rivelare la sua origine culturale, di esser frutto di un'invenzione avvenuta in un certo momento della storia; a loro volta i media appartenenti alla squisita, sofisticata dimensione simbolica sono attesi alla prova del fuoco, devono tornare ad applicarsi alle necessità pratiche con qualche evidente utilità, altrimenti verrebbero respinti dalla società, che li giudicherebbe inutili e gratuiti.

In altre parole, non si dà un rapporto di derivazione causale dai media materiali a quelli ideali-simbolici, gli uni e gli altri godono di uno statuto paritetico, di una "pari dignità", come si direbbe per esempio in termini politici o etnici, quando si intende garantire anche alle minoranze gli stessi diritti che appartengono ai gruppi maggioritari. In fondo, è lecito dire che l'ambito mediale dominante, più esteso, più incisivo e appariscente è costituito dal complesso degli strumenti di lavoro materiale, ossia dalla tecnologia, ma questa non viene prima, non condiziona, non "determina" gli apporti recati dalle attività, pur più sofisticate, delle scienze e arti. Il mcluhanismo permette in particolare di respingere, di cancellare quella fastidiosa subordinazione che gli ambiti artistici e letterari, in un materalismo storico quale il marxismo, dovevano accusare rispetto alle strutture economiche, di cui era dichiarata una precedenza, non solo cronologica ma anche in linea di diritto. Sicuramente Marx, nello stabilire questa pesante gerarchia, era mosso dall'intento lodevole di sconfiggere ancor più risolutamente il primato che fino ai suoi giorni si usava attribuire alle attività culturali intese in senso alto e nobile, spostando con forza l'accento sul basso, sui piedi, come prima di lui aveva già fatto il materialismo di Feuerbach. Ma oggi questa precauzione metodologica non ha più bisogno di essere adottata, si può ben confermare la "pari dignità" di qualsivoglia innovazione tecnologica, ovvero ogni ambito dell'attività culturale può recate un suo contributo originale alla causa del nuovo.

Nella tradizione del pensiero marxista più o meno ortodosso c'è stato un pensatore, il francese Lucien Goldmann, che più di ogni altro si è preoccupato di emendarlo dalla piaga del determinismo, ponendo fine alla dipendenza delle sovrastrutture artistico-letterarie dal piano-base di pesanti strutture economiche. A tale scopo egli ha introdotto la nozione preziosa di omologia, intendendola come identità di funzionamento, tra settori di attività che pure sembrerebbero in apparenza assai distanti tra loro. Ecco appunto uno di quei preziosi apporti speculativi che vale la pena di adattare al mcluhanismo, proprio per migliorarne le condizioni di esercizio. Diciamo insomma che, all'interno di un sistema mediale assunto come forma trascendentale adottata da un'intera epoca storica, ovvero al tempo della pratica di una tecnologia generale, si può riscontrare un'omologia, un'identità tra parte e parte, i vari operatori risultano impegnati a procedere nell'innovazione, nella costituzione della nuova "lingua", ciascuno mettendola in atto nel proprio settore di appartenenza. Starà a noi, che interveniamo a esaminare questi fenomeni a distanza di tempo, scorgere come i singoli percorsi, pur ignorandosi tra loro, marcino verso mete comuni, corroborandosi a vicenda. I vari operatori collaborano solidarmente magari senza saperlo, i loro singoli apporti si adattano a un unico mosaico ben contesto.

 

Modernità e contemporaneità

A questo punto ho definito il pacchetto di ipotesi di lavoro che traggo dal macluhanismo, pur con le rettifiche indicate di volta in volta. È ora di cominciare ad applicarlo ad alcune grandi epoche storiche. In genere, come studioso intervengo sulle epoche che, secondo una certa tradizione di studi occidentale, e in particolare del mio Paese, vengono dette rispettivamente moderna e contemporanea, con etichette invero insulse e stinte, che infatti danno luogo a dibattiti senza fine. Cominciamo da qualche indicazione neutra e puramente cronologica: la modernità sarebbe l'impresa culturale che parte a metà o sul finire del Quattrocento (XV secolo) e si prolunga fino alla fine del Settecento; ad essa seguirebbe una ancor più vaga "contemporaneità", per cui non sono ancora stati fissati confini ultimi. Per delimitare questi due vasti blocchi la tradizione scolastica degli studi sceglie in genere avvenimenti storici di superficie (date di nascita o di morte di grand'uomini, scoperte geografiche, battaglie, fatti dinastici o politico-diplomatici). Così, com'è noto, l'età moderna decorrerebbe dal 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico, scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo) e procederebbe fino al 1789, data d'inizio della Rivoluzione francese. Secondo il metodo McLuhan, conviene invece andare alla ricerca di fattori "forti" da trovarsi nell'innovazione tecnologica, cui corrisponderebbero, per omologia, fatti nuovi a livello simbolico, nelle scienze e arti, appunto con quel rapporto "alla pari", che non implica sottomissione gerarchica degli uni agli altri, come ci ha chiarito così bene Goldmann. Troviamo in proposito l'apporto storico-critico più significativo avanzato da McLuhan, secondo cui la modernità si reggerebbe su due pilastri: l'invenzione di Gutenberg, la stampa a caratteri mobili, la tipografia, avvenuta nel 1450, e la rispondenza omologica riscontrabile tra questa procedura tecnica e la prospettiva, teorizzata per le arti visive (pittura, scultura, architettura) da Leon Battista Alberti nel trattato De pictura (1435). Degno di nota il fatto che un operatore dell'ambito simbolico ("sovrastrutturale", si sarebbe detto nella vecchia terminologia marxista ortodossa) sia giunto al grande incontro qualche anno prima di un operatore tecnologico qual era Gutenberg, a definitiva cancellazione di ogni possibile sospetto di determinismo, nel nome di un "post hoc ergo propter hoc": anche se risulta pienamente comprensibile e corretto che questo uomo nuovo moderno si debba chiamare "tipografico", gutenberghiano, piuttosto che "prospettico", visto che il vaso conduttore di un procedimento materiale quale la stampa porta più acqua a una certa causa rispetto al tubo di calibro più limitato praticato dagli artisti e dai loro teorici. Non sto qui a ripetere le magistrali osservazioni con cui McLuhan ha dimostrato l'omologia (pur non usando questo termine) tra le due grandi innovazioni, poste sui due piani essenziali di ogni cultura, quello materiale-strumentale e l'altro, invece, delle formazioni simboliche virtuali. Più utile, al solito, procedere a difendere il tracciato mcluhaniano da possibili accuse, come sarebbe quella formulabile all'insegna di un "molto rumore per nulla", ovvero, la svolta gutenberghiana potrebbe apparire più di ordine quantitativo che qualitativo. In fondo, alla data del 1450 l'Occidente aveva già scelto da più di due millenni un sistema di scrittura fonetica, fondato su un procedimento da sinistra a destra e dall'alto in basso, con attenzione a vergare le lettere (comunque un tale esercizio fosse condotto, con lo scalpello sui marmi epigrafici, con lo stilo su tavolette cosparse di cera, con la penna sulle pagine membranacee dei codici), avendo cura che righe e colonne se ne stessero accuratamente raccolte in blocchi rettangolari. In effetti, a prima vista, non si nota una differenza notevole tra una pagina a stampa, realizzata col nuovo procedimento di Gutenberg, e quella vergata, negli stessi anni, da un paziente amanuense, intento a copiare i testi a mano. Si potrebbe obiettare che l'introduzione della macchina, in questa modalità di scrittura, segna una velocizzazione del procedimento, cioè un miglioramento di ordine quantitativo, piuttosto che una vera e propria rottura col passato: ma a livello di forme virtuali, di "gabbie" compositive, dove starebbe il mutamento? E del resto, allo stesso modo anche la prospettiva albertiana non costituiva a prima vista una innovazione decisiva, tanto è vero che l'Alberti, e poi assai più il Vasari introdussero la nozione di "rinascimento": chi seguiva quelle regole non credeva di essere un innovatore, bensì il protagonista di un atto di restituzione di una capacità già posseduta dalle età non per nulla definite "classiche", e poi andata perduta per la decadenza intervenuta nei secoli bui dell'età di mezzo, quando le invasioni dei barbari, dei "goti", avevano spazzato via le modalità corrette per rappresentare la realtà. In effetti, la visione naturalista, mimetica, circostanziata nel rendere i corpi, nel collocarli nello spazio con illusione di profondità più o meno accentuata, non nasce certo col Quattrocento, ma esiste già, appunto, nella classicità greco-romana. Ma allora, se le due epoche, la greco-romana e quella cosiddetta "rinascimentale", effettuarono quella scelta comune a favore di un'arte mimetica, vorrà dire che esse avevano in comune qualcosa anche a livello di cultura materiale. Furono infatti epoche preoccupate di creare un sistema di comunicazioni complesse e ben ramificate tra le varie parti di un tutto inteso come centralizzato e gerarchizzato: si doveva partire da un centro, o arrivare ad esso ("tutte le strade conducono a Roma") e da lì stabilire delle procedure sicure, misurabili, per raggiungere ogni punto della periferia. L'omologia di fondo, insomma, appare essere quella che collega un sistema di comunicazioni stradali, volte ad assicurare la percorribilità di un vasto territorio, e un reticolo virtuale di rapporti stesi su una qualche superficie, come mappe per andare alla conquista del mondo esterno, dei paesi rappresentati (conquista militare e commerciale nello stesso tempo). E tutto ciò spiega appunto la rassomiglianza esteriore, indubbia, o addirittura il senso di continuità, di ripresa a distanza di secoli, tra i due naturalismi, quello greco-romano e l'altro "rinascimentale", che parte nel Quattrocento (ma già annunciato dai precedenti "rinascimenti" in miniatura forniti dal romanico e dal gotico), per non più arrestarsi fino alla fine del Settecento e anche oltre. È senz'altro giusto parlare di un rapporto di continuità, di conferma, ma assume un peso decisivo anche il coefficiente della quantità, capace a sua volta di introdurre grosse modificazioni di ordine qualitativo. La tipografia conferma, certo, l'impostazione della "pagina" scritturale già adottata, secoli prima, dall'Occidente, ma nello stesso tempo ne segna un enorme incremento quantitativo, e anche sul piano dell'esattezza: quella pagina perde i residui tremori e imperfezioni di mano che pur sussistevano, nell'esercizio anche più agguerrito e professionale di ogni amanuense; e soprattutto permette di moltiplicare il processo di copia: gli esemplari, ora, escono a migliaia, tutti uguali tra loro, tutti dotati della perfezione che sola può essere conferita dalla macchina. Allo stesso modo la prospettiva dell'Alberti diviene una macchina rappresentativa affidata a regole più certe e fisse di quanto essa non fosse nella vaga pratica dei pittori della romanità; basti pensare all'introduzione del punto di fuga, su cui a sua volta si regge il modello della piramide capovolta. Gli anonimi pittori murali di Pompei sapevano di sicuro che, se si vuole suggerire un senso di profondità spaziale, bisogna affidarsi a linee oblique che sembrano "fuggire" davanti a noi e affondare nelle lontananze, ma quelle oblique erano lasciate al buon senso del pittore, privo di indicazioni vincolanti, il che gli consentiva larghi margini di manovra, a livello creativo, ma diminuiva il valore conoscitivo della sua rappresentazione. I "moderni" sono tali perché introducono criteri fissi e certi di rappresentazione, magari a costo di sacrificare notevolmente la libertà immaginativa dell'artista, di imporgli una sorta di camicia di forza, ma d'altra parte così fanno di lui un operatore a pari grado di altri, chiamato come loro a un'enorme impresa cartografica, alla stesura di mappe necessarie per conoscere il mondo esterno e per avviarne la conquista, quella conquista che l'Occidente raggiunge in misura senza precedenti, nell'intera storia dell'umanità e rispetto ad altre culture, forse proprio perché queste non hanno avuto a loro disposizione la sinergia tra la stampa e la prospettiva piramidale. A questa luce, è possibile rimettere in gioco anche il ruolo di Cristoforo Colombo, cui una certa tradizione scolastica riserva non a torto il vanto di aver inaugurato la "modernità": infatti il suo eccezionale merito fu di volgere la prua delle caravelle verso il largo, verso la profondità dell'oceano, in luogo di limitarsi, come si era fatto fin lì per millenni, a bordeggiare lungo le coste. E si può ben dire che un tale gesto è omologo alla baldanzosa conquista prospettica delle lontananze che gli artisti italiani e fiamminghi stavano praticando negli stessi anni.

Questo stretto rapporto omologico tra un sistema centralizzato di comunicazioni viarie, terrestri e marittime, e il suo corrispondente virtuale dato sia dalla gabbia tipografica, sia dalla piramide prospettica, se vale al positivo, se cioè conosce tappe comuni nel processo di ascesa, fino a imporre su entrambi i fronti le proprie leggi vincolanti, vale anche nei momenti di segno contrario, di sfaldamento, di dissoluzione. È ben nota la lunga fase di "autunno della romanità" che con processo secolare, dal III al V secolo dopo Cristo, vede il venir meno della centralità di Roma, fino al punto da consigliare Diocleziano, agli inizi del IV secolo, ad adottare un modello quadripartito, la tetrarchia, impostato non più su un'unica capitale, bensì su quattro, utilmente distribuite nell'enorme estensione dell'Impero, nel tentativo di consentire una capacità di intervento in tempi e spazi più ravvicinati per cercare di tappare i buchi che si stavano creando nella grande tela statuale. Non ci meraviglieremo nel constatare che di pari passo si sfalda il reticolo della prospettiva, i corpi non si graduano più tra loro secondo ben scanditi rapporti numerici, ma galleggiano in uno spazio appiattito; e viene meno anche la pretesa di definirli puntualmente nella loro individualità, visto che cessa la capacità di dominarli, di stendere su di loro un possesso pieno; ora basta accontentarsi di una possibilità di identificazione SOMMARIa; meglio insomma, lasciar perdere le individualità ben definite e accontentarsi di icone spersonalizzate, generiche, ovvero, diciamo pure la parola tecnica, "astratte". Il naturalismo classico cede il posto, con processi lenti, secolari, a forme di stilizzazione-astrazione, nella misura stessa che la costruzione volumetrica delle distanze implode, si affloscia su se stessa. Ora le strade non portano più a Roma, che anzi appare un obiettivo lontano e chimerico, praticamente irraggiungibile. Ora il centro è dappertutto, o meglio, interviene una sostanziale indistinzione tra centro e periferia.

Ecco così delinearsi due grandi cicli plurisecolari, quello, interventuto tra il VI secolo dopo Cristo e il XIII-XIV, in cui anche l'Occidente smarrisce la capacità di assicurare un sistema viario ben costrutto, continuo, percorribile, e così al mimetismo classico subentrano fenomeni di astrazione, riconducibili alla cosiddetta arte bizantina e alle sue molte facce e fasi, ma pur sempre poste nel segno dell'astrazione e dell'appiattimento degli spazi. Poi, dal XIV secolo in avanti, prende avvio il grande processo di riconquista del mondo esterno, ossia l'intento di restaurare una grande rete viaria, rendendola possibilmente più sicura, più regolare, più stringente, di quanto non avessero saputo fare gli antichi. Parte insomma il ciclo "rinascimentale", come lo ha ben inteso il Vasari, che si è fatto l'epico cantore della riconquista della terza dimensione, dell'illusione di profondità, della descrizione circostanziata e precisa delle immagini, condannando le aberrazioni dell'arte "greca", cui oggi preferiamo dare il termine più limitato di "bizantina". Si potrebbe costituire una grande tavola di corrispondenze in su e in giù: le tappe attraverso cui l'arte tardoromana perde via via le indicazioni prospettiche e le capacità definitorie nei confronti degli oggetti individuali, vengono ripercorse all'incontrario dall'arte europea, man mano che, dal romanico al gotico al Rinascimento propriamente detto, essa reintroduce i vari accorgimenti illusori per ridare profondità prospettica alle immagini. E giungiamo così alla Galassia Gutenberg esaminata con tanta sicurezza da McLuhan, dove il compito di regolarizzare la griglia comunicativa, al livello già esso stesso in buona misura virtuale, della scrittura, e il suo corrispettivo per quanto riguarda le immagini, la prospettiva, vengono entrambi affidati a "macchine", con un fortissimo balzo quantitativo, a sua volta produttore di effetti qualitativi. Nasce insomma la modernità, ovvero una diffusione dell'informazione senza precedenti, e la capacità di fornire un'arte specularmente mimetica, quali non si erano mai viste nel passato della classicità. Ma allora, altro che Rinascimento, questa è innovazione strepitosa, istituzione di una nuova età, inaugurazione di tempi da dirsi moderni nell'accezione più pregnante.

 

Arriva l'età elettromagnetica

Poi, di nuovo, a partire dalla fine del Settecento, con una pausa di sospensione per ragioni che vedremo, e un'accelerazione a partire dalla fine dell'Ottocento, quel sistema comunicativo centralizzato e ferreamente contesto va in crisi. La storia non si ripete, a differenza dei movimenti naturali, come le maree o le eclissi, che conoscono periodicità certe, ritorni sempre uguali. E dunque, per intendere questa nuova "perdita del centro" si dovrà andare alla ricerca di fattori di altra natura, mantenendo tuttavia la convinzione metodologica che tali nuovi fattori dovranno manifestarsi sia a livello di cultura materiale, di tecnologia, che a livello di forme simboliche. E qui ancora una volta McLuhan ci soccorre con un'intuizione profonda, sicura, fermamente ribadita: l'età nostra, che lui personalmente si guarda bene dal definire col termine vacuo di contemporaneità, è riposta sull'elettromagnetismo e sulle sue varie manifestazioni, anime, tappe di sviluppo. Non si è ripetuta una invasione di barbari, di Goti, il fatto è che l'Occidente, verso la fine del Settecento, ha scoperto che la natura è retta, tenuta insieme, cementata dalla presenza di due energie strettamente collegate tra loro, l'elettricità e il magnetismo. E il carattere di queste energie è diffusivo, tale da respingere la nozione stessa di un centro: certo, si può identificare un centro, un punto in cui trova posto una carica elettromagnetica, ma questa è pronta a emanare attorno a sé un "campo", un'area indeterminata di influssi che si estendono ovunque, e con effetto pressoché istantaneo. Ci vorrà del tempo, dalle prime scoperte degli studiosi di elettrologia alla comparsa del genio di Einstein, per giungere a stabilire due postulati decisivi, come quelli secondo cui la luce è un fenomeno di onde elettromagnetiche, e queste procedono alla altissima velocità di circa trecentomila chilometri al secondo; ma fin dagli inizi, a tutti gli scienziati coinvolti nell'impresa dell'elettrologia (Volta, Galvani, Franklin, Ampère ecc.) è chiaro che queste nuove energie bruciano le distanze, rendono inutile, irrisorio stare a stabilire una gerarchia dei corpi, quale tra essi è in primo piano, quale sta sullo sfondo, e a quale distanza: tutti sono raggiunti in una frazione di secondo, avvolti in un abbraccio contestuale, presi nei lacci di una medesima unità strutturale: la prospettiva diviene un procedimento inutilmente faticoso, destituito di utilità, di credibilità. E così si riaffaccia l'astrazione, ovvero la tendenza a estrarre dagli oggetti del mondo esterno delle sagome generali, tracciate per larghe linee, e soprattutto appoggiate su un piano unidimensionale. Ritornano, in qualche modo, le icone bizantine. Quella che si può definire in senso pregnante arte contemporanea prende inizio esattamente nel momento in cui si dà un'inversione di tendenza, dalla rappresentazione mimetica e prospettica della realtà, a un suo trattamento schematico e appiattito.

È bene precisare, qui giunti, che tra le due grandi fasi di arte astratta, quella che si è avuta nella tarda antichità, al momento dello sfacelo del mimetismo classico e dell'avvento delle icone bizantine, e l'altra, venuta un abbondante millennio dopo, quando l'Impressionismo e la sua meticolosa immagine della natura esterna sono stati sostituiti dalle prime astrazioni del Simbolismo, si dà solo una rassomiglianza da lontano. In questo caso, non si può parlare di omologia, cioè di un'identità di funzionamento, a ben vedere le motivazioni che hanno portato in entrambi i casi ai processi astrattivi sono addirittura di segno opposto: nella tarda antichità, il computo delle distanze era divenuto un problema insolubile, meglio rinunciarvi, limitarsi ad allineare le sagome delle cose le une accanto alle altre, inutile stare a preoccuparsi di collegarle tra loro. Viceversa l'astrazione contemporanea nasce quando si intuisce che le distanze sono ormai facilmente percorribili d'un solo balzo, e quindi non costituiscono più un problema assillante. Inoltre non si può mancare di ricordare che, sempre nell'età contemporanea, sopravvive una modalità tecnica assai efficace nel caso che si voglia raggiungere una rappresentazione fedele e misurabile del mondo esteriore, la fotografia. Avviene una sorta di scambio delle deleghe, lo strumento fotografico è chiamato a continuare a "rappresentare" la realtà fisica, secondo canoni non molto diversi da quelli seguiti nel corso di lunghi secoli dediti a un mimetismo pedissequo e prospettico. In fondo, fin dall'inizio i sistemi rappresentativi mimetici prefiguravano, anticipavano l'avvento della fotografia, e per qualche decennio in effetti i pittori ossequienti al vecchio e tradizionale naturalismo della "modernità" sono entrati in gara con gli esiti ottenibili attraverso la macchina fotografica, in una collaborazione che ha dato anche buoni frutti. Ma poi gli artisti hanno compreso che quella tenzone non aveva più senso, meglio lasciare che il mezzo fotografico perpetuasse la modalità di visione fedele e mimetica, mentre a loro competeva ragionare ormai sul metro delle nuove energie insite nell'elettromagnetismo, porsi in rapporto di omologia, di stretta rispondenza formale con le indicazioni che ne scaturivano.

A questo proposito vale la pena di svolgere una riflessione di notevole peso: sarebbe errato credere che le varie fasi tecnologiche si succedano le une alle altre in modo meccanico e lineare, cosicché quando si ha l'avvento di una nuova tecnologia, l'altra ormai sorpassata scompaia quasi automaticamente dalla scena. Al contrario, la storia delle culture ci mostra lunghi periodi di compresenza, di parallelismo, perfino con la possibilità che l'una di queste grandi famiglie mediali continui il suo sviluppo, e anzi tocchi il suo acme, quando già la concorrente, la rivale, si è affacciata alla ribalta. Ho detto, seguendo McLuhan in uno dei suoi apporti più tipici, che la modernità è il frutto dell'azione congiunta di due macchine, la macchina tipografica e quella prospettica; e sappiamo che i manuali fissano un termine per tale epoca moderna ponendolo sul finire del Settecento; ma si sa pure, d'altra parte, che a quella data il macchinismo non cessa per nulla di far valere i suoi effetti, al contrario, la rivoluzione meccanico-industriale sta appena decollando, in quello scorcio di anni. I telai meccano-tessili, con cui le macchine sostituiscono il lavoro muscolare degli operai a livello produttivo, e le locomotive, ovvero le macchine a vapore che sostituiscono la trazione animale come mezzi di comunicazione, vedono la luce in Inghilterra alla fine del Settecento e nei decenni successivi dell'Ottocento. Ma allora, è questo un guazzabuglio di indicazioni, una smentita nei confronti dei postulati che possiamo trarre dalla cultura materiale? La modernità cessa, come vogliono i manuali, al termine del Settecento, in uno coi primi vagiti dell'elettromagnetismo, o invece no, essa conosce una fase successiva di piena potenza? Ebbene, se si ricorda che, come appunto osservavo sopra, talora le famiglie mediali, le tecnologie si affiancano, coesistono, possiamo dare una risposta a questi dilemmi apparentemente insolubili o contradditori. È vero, sul finire del Settecento si annuncia la nuova era "contemporanea" - continuiamo a chiamarla così in mancanza di meglio - grazie ai primi passi nell'elettrologia compiuti ai pionieri della ricerca scientifica sopra ricordati (basti pensare alla Pila di Volta), e immediatamente si hanno taluni significativi riscontri omologici nella prassi degli artisti allora più avanzati. Ho dedicato un intero volume (L'alba del contemporaneo) per dimostrare che artisti geniali come Füssli, Blake, Goya, David, Canova, Flaxman ecc. in quel momento cominciarono a smontare la macchina prospettica reintroducendo l'astrazione e le soluzioni piatte, di superficie. Ma la modernità era tutt'altro che esaurita, e proprio a cominciare dal livello forte, primario dello strato materiale, della tecnologia, tanto è vero che la rivoluzione industrial-meccanica era ancora di là da venire; e questa non avrebbe potuto mancare di rilanciare le "vecchie" soluzioni mimetico-naturaliste. Ecco così spiegata la ragione per cui gli artisti che nascono attorno al 1800, e nelle due generazioni successive, danno luogo a un'impresa di realismo-naturalismo quale non si era mai vista in tutte le epoche precedenti. Insomma, gli stili che normalmente vengono detti realisti-naturalisti, fino all'episodio estremo e culminante dell'Impressionismo, costituiscono un'enorme enclave della modernità in territorio contemporaneo. O viceversa, se si preferisce, si potrà dire che furono i Füssli e Blake e Canova a inserire un timido annuncio di contemporaneità nel bel mezzo del pieno e superbo decorso dell'arte moderna. In altre parole, all'arte contemporanea dobbiamo riconoscere due partenze, una timida e debole sul finire del Settecento, quando del resto la stessa elettrologia si annunciava in punta di piedi, con scarsissimi riscontri di ordine tecnologico, sviluppandosi più che altro a livello di dotte disquisizioni tra scienziati, ma col rischio di non incidere sulla vita quotidiana. Viceversa, quando si affacciano all'orizzonte i casi di Cézanne, e a fianco a lui dei Simbolisti con Gauguin, e dei Divisionisti con Seurat, i tempi sono ben altrimenti maturi per far sì che le frontiere dell'elettromagnetismo ottengano palesi riscontri omologici in ambito stilistico. L'elettromagnetismo, proprio nel decennio 1860-70, fa passi da gigante, sia a livello teorico (le equazioni del campo elettromagnetico stabilite dal matematico inglese Maxwell), sia in ambito tecnologico (l'invenzione dell'anello di Pacinotti, poderoso strumento per trasformare l'energia elettrica in lavoro meccanico, i passi avanti nel ricorso al telegrafo, rudimentale progenitore dell'elettronica). E si potrebbe dimostrare che le varie soluzioni antinaturaliste, antimpressioniste escogitate allora da Cézanne e dai Simbolitsti procedono all'unisono con questi decisivi passi registrabili sul fronte tecnologico.

Ma la "lingua" del macchinismo e dunque della modernità, è dura a morire, e del resto constatiamo ogni giorno che ancora in questi primi anni di un nuovo millennio le macchine restano tra noi, a cominciare dalle automobili. La sostituzione di una tecnologia all'altra, della "lingua" elettronica a quella moderna-macchinista è tutt'altro che compiuta, forse le due sono costrette a convivere ancora a lungo. Questo spiega la ragione per cui l'arte contemporanea, pur in una vocazione complessiva antinaturalista, a favore quindi dell'astrazione, abbia dato luogo a due grandi sotto-famiglie, l'una delle quali prende ancora ispirazione dall'universo delle macchine e quindi si può chiamare meccanomorfa. Basti pensare al Cubismo, e ai tanti derivati che non hanno cessato di comparire nell'intero Novecento. Però anche in questo caso le unità rigide desunte dal quadrato e dai suoi derivati si considerano ormai del tutto svincolate da un sistema di riferimento obbligato quale era dato, nella modernità, dagli assi cartesiani. Ovvero, la rivoluzione einsteiniana fa sentire i suoi effetti, i cubi, o comunque le forme di osservanza rigida, ad angolo retto, anche quando la contemporaneità sceglie di valersene, si pongono con una loro legittimazione autonoma, si appoggianogli uni agli altri, non esiste più uno spazio esterno che li regola e condiziona. Ma forse in definitiva appaiono più rispondenti allo spirito dell'età elettronica le soluzioni stilistiche morbide, deboli, fluide, lontane dall'uso dell'angolo retto, ispirate piuttosto al prevalere di schemi ondulati.

D'altra parte, così ragionando, sono rimasto ancora troppo legato ai parametri del "vecchio" universo moderno, devoto al culto della rappresentazione: come se compito dell'artista fosse ancora quello di "rappresentare" su una superficie quanto gli si offre nel mondo esterno. Ma questo è un rito di osservanza gutenberghiana, come McLuhan ci ha ben dimostrato. È proprio il concetto di rappresentazione che la contemporaneità tende a cancellare. Non ha più senso procedere in termini dualistici, di là starebbe una realtà, di qua un foglio o un altro apparato di superficie per raccoglierne l'immagine. L'artista, oggi, si può aggirare tra le cose, assumerle, manovrarle, secondo la tecnica del ready-made duchampiano, esattamente come l'energia diffusiva elettromagnetica circola liberamentre, non contenuta entro argini fissi.

 

 

* Conferenza tenuta, in lingua spagnola, al Convegno "Arte e società nel Novecento" organizzato nella prima settimana di ottobre 2002 dall'Università di Antiochia, Medellìn, Colombia (il fatto di rivolgersi a un pubblico estraneo al dibattito culturale quale usualmente si svolge nel nostro Paese giustifica il carattere dell'intervento, necessariamente riassuntivo di tesi che l'Autore ha espresso in più occasioni presso di noi).

Home Page Studi di Estetica