24/2001
Di
Lytton Strachey so quello che sanno più o meno tutti: uno stravagante
intellettuale del secolo ormai trascorso, omosessuale, pacifista,
scrittore elegante, ma cosiddetto minore. Quasi sempre assorto, con un
libro in mano, nei ritratti che ci sono arrivati per la mano di Duncan
Grant, Henri Lamb, o Vanessa Bell, o nelle fotografie con gli amici e le
amiche del gruppo di Bloomsbury, a Rodmell, ospite di Virginia Woolf, o
a Charleston, ospite di Vanessa, con Carrington, la giovane pittrice che
un po' insensatamente a lui aveva deciso di dedicare l'intera vita,
tanto da suicidarsi poco dopo la sua morte, nel gennaio del 1932. Brevi
ma acuti ritratti di Strachey si incontrano numerosi nelle pagine del
diario e nelle lettere della Woolf, cui lo legava un'amicizia intensa,
tenace e sottilmente perfida, per via della somiglianza di carattere,
l'abilità della conversazione e il piacere del pettegolezzo. Per
conoscerlo in modo più approfondito ci si può ovviamente affidare alla
sua opera, alle sue lettere, e alla monumentale biografia di Michael Holroyd.1
Emilio Cecchi lo considerava "uno dei massimi prosatori
contemporanei", lo ricorda anche Praz e un saggio intelligente,
specifico, porta la firma di Giovanni Luciani,2
ma poiché risale al 1987, visti i tempi della presenza in scaffale
nelle nostre librerie, è praticamente un reperto archeologico, molto
utile però per la ricostruzione della parabola di critico e biografo
del nostro autore. Dell'opera
di Strachey mi interessa in particolare Elisabetta e il conte di
Essex,3
biografia che rivela l'estro, il divertimento, il piacere di un grande
scrittore; pubblicata nel 1928, arriva sette anni dopo quella dedicata
alla regina Vittoria.4
L'Inghilterra
ha una magnifica tradizione biografica, che, pur nutrendo indubbiamente
anche Elisabetta, ne viene qui, per molti versi, rovesciata con
sicuro diletto. Tanto da permetterci di discutere anche la decisa
opinione espressa da Virginia Woolf in un famoso saggio del 1939,5
in cui svolge uno dei suoi importanti ragionamenti sull'arte. Il tema
la interessa molto, non a caso lei stessa ha già alle spalle ben tre
testi in cui ha potuto misurarsi con il genere biografico, Orlando,
Flush, e Roger Fry e ha dunque visto da vicino, con
sguardo penetrante e intensa riflessione, il diverso registro di
scrittura da usare quando si devono accostare, mescolare, distinguere
fatti e finzione. Questa è precisamente la lente con la quale giudica
l'opera dell'amico Strachey, tanto da ritenere ben riuscita la
biografia della regina Vittoria (a lei dedicata) e sostanzialmente
fallita quella su Elisabetta I, che vede muoversi "in un mondo
ambiguo", "né corporea né incorporea". Non avendo molti
documenti a disposizione, Strachey sconta fino in fondo quella che per
la Woolf è la differenza fra scrittore e biografo, ovvero tra
l'artista e l'artigiano, tra colui che risponde solo della verità
della sua visione e colui che dovendo lavorare sul "sobrio fatto",
sull'"informazione autentica", è costretto a fare di questo
vincolo, storicamente mutevole, non l'ala per l'invenzione, ma la
leva per "un senso della verità" "vivo e in punta di piedi".
Viene da rispondere subito di sì, in "punta" di teoria, ma
l'esperienza stessa della Woolf ci dice qualcosa di più, se pensiamo
che delle sue tre biografie, quella sicuramente meno riuscita, per lei
stessa più faticosa e ingarbugliata, è proprio quella su Roger Fry,
per la quale i documenti abbondano e l'invenzione è più frenata.
Alla luce di questo problematico scacco, torniamo a Elisabetta e il
conte di Essex, il "fiasco" dietro le cui quinte si può leggere
più di quanto il biografo abbia scritto. Strachey
dichiara di essere interessato a discernere "attraverso le tragiche
vicende della caduta di un personaggio [.] l'agonia spettrale d'un
mondo abolito" e si mette a scrivere una biografia "romanzata",
come è qualsiasi biografia, anche quando non lo dice, ma sapendolo e
sapendo quindi di essere su un piano inclinato, scivoloso, ma non per
questo meno rivelatore. La sua immaginazione è tanto viva, ad esempio,
da farci gustare di più (e non di meno) quelle lettere Ai fidi e
agli infidi,6
in cui la sovrana traccia un suo raffinatissimo e implicito autoritratto
che sbalza, imprevisto e magnifico capolavoro di genere, proprio sullo
sfondo della biografia di Strachey. Mentre
racconta del regno di Elisabetta, della tragica ascesa e caduta (siamo
in un firmamento, con un sole fisso, Elisabetta, e stelle che appunto
ascendono e cadono) di Robert Devereux, bellissimo e giovane conte di
Essex, suo favorito, ci viene raccontato infatti un pezzo vero e
"realistico" di storia d'Inghilterra, ma la forma è quella del più
appassionante dei romanzi, con protagonisti, antagonisti, comparse,
seconde figure: indimenticabile Francesco Bacone, tutto intelligenza e
intrigo e sapienza cortigiana, o William Cecil, il segretario
malinconico che tutto osserva, sempre chino al suo tavolo a scrivere, in
una stanza interna, fino al trionfo finale, o ancora Filippo II,
"ragno tessitore", chiuso nel suo tetro e petroso Escurial, intento
a governare l'impero dal suo scrittoio e a pregare continuamente sul
suo inginocchiatoio. e poi le famiglie e i casati che si combattono e,
appunto, i fidi e gli infidi. Colpi
di teatro continui, in una scrittura limpida e geniale, che attraverserò
camminando sul filo che lega la prima apparizione a corte di Essex a uno
degli ultimi suoi incontri con la regina. Prima
apparizione dunque: "(Elisabetta) Contemplava i piccoli esseri che la
circondavano, e sorrideva pensando che, benché fosse la loro padrona,
non avrebbe mai potuto essere la loro mistress. ma i suoi
pensieri vennero turbati da un silenzio improvviso. Guardandosi attorno,
vide che era entrato Essex. Questi avanzò rapido verso di lei: e la
regina dimenticò tutto, mentre egli le s'inginocchiava ai piedi"
(p. 39). Eccoli
ora, invece, in uno degli ultimi incontri, Essex di ritorno dalla
perduta, e bislacca, campagna d'Irlanda (prima di quell'intrigo che
gli farà letteralmente perdere la testa): "Subito dopo veniva la
camera da letto della regina. Per il lungo viaggio egli era inzaccherato
e in disordine, trascuratamente vestito e con gli stivaloni da cavallo;
ma di tutto ciò era inconscio7
nell'atto di spalancar la porta che gli stava di fronte. Ed ecco là,
a un passo da lui, vide Elisabetta fra le sue dame. Era in vestaglia,
senza truccatura, senza parrucca, coi capelli grigi ricadenti a ciocche
sul viso, e gli occhi più che mai sporgenti dalle orbite" (p. 253).
Due immagini di diverso colore: la prima di piena vanità e potere
assoluto, la seconda di grandissima sapienza: invece di cedere all'ira
per l'affronto di una visita cui non è preparata e che la mette a
nudo, vecchia, la Virgin Queen è indomabile, reagisce con
stupore e felicità, si rifugia "in quella dissimulazione che era la
sua seconda natura" e spedisce l'antico favorito a darsi una
ripulita prima di riammetterlo alla sua presenza e chiedergli conto non
dei suoi sentimenti, ma delle sue azioni (di cui già sospetta, ma lei
sa fare "fulminei calcoli", sa afferrare al volo "ogni più vago
indizio ecc., p. 255). In questo passo, tra la regina dimentica di tutto
e la regina capace di dissimulare, non vedo tanto una regina che è
anche una donna, ma la donna che si sa e si fa regina. Vedremo. Per
ora, tra tutti i ritratti che si inseriscono nella storia con squisita
eleganza, seguiamo solo quello della protagonista, ".esemplare
dominante dell'epoca: mai calpestò questa terra più barocca figura
di quel supremo fenomeno dell'epoca elisabettiana che fu Elisabetta
medesima" (p. 18). Figlia di Enrico VIII e Anna Bolena (graziosamente
decapitata da Enrico quando la bimbetta ha solo due anni e otto mesi),
salita al trono nel 1558, Elisabetta I (1533-1603) sarà regina
incontrastata fino alla morte. Lytton Strachey ne traccia un profilo
denso di opposti, miscuglio apparentemente inestricabile di qualità
maschili e femminee debolezze, ma la questione di fondo è colta,
nonostante tutto: Elisabetta è grande perché è una grande donna, non
perché tiene insieme delle supposte parti femminili e maschili
dell'animo umano. Seguo questo profilo tra le pagine, non
nell'ordine in cui è presentato al lettore, uso quasi sempre le sue
stesse parole, riassumo al volo per arrivare a quanto realmente mi
interessa, e precisamente il rapporto che si intravede tra potere
sovrano e grandezza femminile. Infanta
sballottata tra tripudi di trombe e assassinio della madre, adolescente
cresciuta dalla matrigna, Caterina Parr, tiene testa al secondo marito
di questa, il Lord ammiraglio Somerset, uomo affascinante e leggero, con
la buona abitudine di darle manate sulle natiche condite di motti
ribaldi (caduto poi in disgrazia, e quindi decapitato), affronta il suo
tutore, e per rispondere alle sue calunnie si dichiara disposta a
dimostrare davanti a tutti, in tribunale, la sua verginità. Questa la
lettera che scrive il 28 gennaio 1549, al Lord Protettore Edward Seymour:
".mi hanno informata che circola una voce grandemente offensiva per
il mio onore e la mia onestà (cosa che stimo al di sopra di tutto) e
precisamente questa: che sono stata chiusa nella Torre incinta del Lord
Ammiraglio. Milord, queste sono infami calunnie, e per questo
motivo.richiedo ardentissimamente. il permesso di venire a Corte.
per potermi mostrare a tutti così come sono".8
Ha solo sedici anni e sta crescendo insomma in circostanze orribili e
singolari, già ben consapevole di quello che oggi chiamiamo conflitto
fra i sessi, a partire dal quale una donna si gioca tutto il resto. E
però intanto, tutt'altro che sventata (a differenza di come spesso
agli uomini piace immaginare una donna, soprattutto giovinetta) diventa
padrona di sei lingue oltre alla sua, studia il greco, rifinisce la sua
stupenda calligrafia, suona in modo eccellente, danza, e non si tiene
lontana dalla pittura e dalla poesia; la sua conversazione è raffinata
per umorismo, eleganza, spirito, senso mondano: Elisabetta ha una
padronanza perfetta di ogni risorsa dell'espressione verbale.
Diventata regina, l'aver coltivato tutti questi talenti le permetterà
di sbalordire messi e diplomatici di tutte le corti straniere e di
sviluppare altissime capacità diplomatiche. Non
si sposerà mai, il matrimonio non era di suo gusto, soprattutto una
volta appurato di non poter avere figli (utili alla regale discendenza
protestante): perché dunque avere l'impaccio e il fastidio di un
marito, di un padrone? E comunque, a lungo, la lusinga di un possibile
matrimonio le fu utile per tenere nelle sue mani il destino
dell'Europa. Un difetto fisico (una specie di "membrana" secondo
le chiacchiere dell'epoca, precisamente di Ben Jonson)) glielo
impediva, ma lei lo giocò con astuzia, non occupandosi di quella che
sarà definita la sua isteria, cui tutti i mali vennero ricondotti. Era
profondamente laica e, per fortuito caso di nascita, si trovò a capo
dei protestanti; la grande politica di cui fu protagonista fu la meno
eroica che si possa immaginare; "vinse grazie a tutte le prerogative
di cui ogni eroe dovrebbe essere privo: dissimulazione, pieghevolezza,
indecisione, temporeggiamento, avarizia" (p. 20). Questo, mi pare
evidente, è il profilo di una sovrana capace e necessitata a usare il
potere, ma per via rovesciata, in figura eminentemente antieroica. È
qui che traspare in filigrana qualcosa che Strachey vede ma non può né
sa nominare per quel che è: la forza di Elisabetta è una forza
interiore che si radica non in ciò che il mondo, il fuori di sé, le ha
consegnato per tradizione, cultura e costume, ma piuttosto nell'autoconsapevolezza
femminile del proprio diverso desiderio. L'esercizio del potere (di
vita e di morte, indissolubilmente legato alla sopravvivenza, come aveva
imparato fin da piccola), vira tenacemente verso un'autorità che
Elisabetta scopre in se stessa, che alimenta da sé, che non si fa
disorientare dal mito maschile dell'eroe, né si fida del puro uso
della seduzione femminile. Il
percorso non è lineare, eppure è certo; Elisabetta attraversa tutta
intera la contraddizione che grava sul corpo femminile e la vuole
piegare ai suoi fini, a tutti i costi: "Giovinetta, ella era stata
attraente; rimase per molti anni una bella donna; poi ogni traccia di
bellezza scomparve e sopravvennero lineamenti duri, tinte false, e una
certa intensità grottesca. Ebbene: più le sue grazie fuggivano, più
Elisabetta si ostinava a volerle ritenere. S'era accontentata in
passato del devoto omaggio dei suoi coetanei; ma dai giovani che la
circondarono nei suoi tardi anni pretese, e ottenne, le espressioni
d'una passione romantica. Gli affari di Stato si conducevano in mezzo
a un fandango di sospiri, di estasi e di proteste d'amore.
Gli uomini sentivano, avvicinandola, di trovarsi dinanzi a una presenza
sovraumana" (p. 36). Vanità! Sì, certo, vanità, che però
l'indulgenza alle romanticherie non fa deflettere da ben altre
certezze. Univa
cervello e temperamento senza mezze misure, sì che era preda di
inauditi eccessi, in lei convivevano vigore (maschile) e sinuosità
(femminile), galleggiava tranquillamente in un mare di indecisione
(attributo femminile: si destreggiava senza vergogna, prendeva tempo a
scapito di ogni scrupolo, o dignità, o onore, o decenza pur di non
prendere davvero una decisione); le sue qualità maschili (?), il
coraggio e l'energia, per lei non ebbero altro valore, "e questo
fu il paradosso principe della sua carriera, che il consentirle
d'essere abbastanza forte per voltar le spalle, con tenacia
indomabile, alle soluzioni di forza" (p. 22, c.m.). Sapeva sempre di
essere all'altezza della situazione. La certezza di sé la indirizzò
e orientò al governo di un immenso potere. Il
tempo, per le sue mire, era tutto, ogni minaccia poteva essere,
usando bene il tempo, non affrontata, ma addomesticata, e così,
tergiversando, affermò, senza inutili dichiarazioni pubbliche, un
pacifismo ignoto a qualsiasi grande uomo della storia. Strachey scrive
che Elisabetta odiava la guerra "per la migliore delle ragioni: la
guerra era uno sperpero" (p. 23). Di denari, certo, e lei era avara,
ma la sua avarizia non è spiegazione sufficiente, se la si guarda
dall'interno di un'economia diversa, che sa tenere insieme tempo,
denaro, vita, piacere. Elisabetta sa dare la morte, la darà anche al
suo amatissimo Essex (un solo giorno, brevissimo data la sua natura, di
indecisione), ma non è nella morte e nella guerra che cerca la
dimostrazione della sua grandezza, lei si sa grande e tanto le basta.
Per questo sembra terribile. E geniale: in mezzo a un mare di guai,
Spagna, Irlanda, Scozia, incerta tra guerra e pace, si mette a tradurre
l'Ars poetica in prosa inglese! Fino a che la guerra diventa
una guerra che non è guerra, "proprio la cosa che le andava più a
genio" (p. 229). Ma
passiamo al grande duetto/duello fra Amore e Morte: mentre Essex si
perde per la sua tendenza "a passare dalla simulazione alla realtà"
(sono parole di Bacone), segue l'orgoglio, pessimi consigli, e sarà
accusato di tradimento, Elisabetta, civetta e vanitosa, con un debole
per il sogno amoroso, facile preda di visioni paradisiache, interroga il
suo desiderio e sa stare ai fatti, al presente dei fatti tanto da trarne
la forza per mettere a morte anche l'amante. Non nonostante
fosse donna, ma perché era una donna. Per
capire come il nonostante si rovescia in perché, dobbiamo leggere
attentamente quel che succede tra il momento in cui Essex varca,
inaspettato, la soglia della camera della regina e quello in cui viene
decretata la sua morte. Tra questi due momenti la storia vera, quella
dei fatti, ci racconta il tentativo di insurrezione di un Essex ormai
disperato, che marcia attraverso la City nella speranza di
un'improbabile sollevazione popolare, tale però da mantenere
"intangibile" la regina, azione tipicamente velleitaria di un
debole, piccolo intrigante incapace di strategia e vittima di giochi più
grandi di lui. Dunque anche il bellissimo Essex viene disegnato come un
antieroe, ma ahimè, rispetto al mito dell'eroe, un uomo, a differenza
di una donna, non ha via di scampo, perché il modello dell'Altro è
il modello del suo Simile. Solo
Elisabetta, sovrana assoluta, potrebbe salvarlo dalla morte, e, per un
poco, è vero, come al solito tentenna, ma l'"ondeggiamento" sarà
impercettibile, la occupa per un sol giorno. Non a lungo infatti indulge
al suo immaginario idillio: ".il suo senso dei fatti riaffiorò a
poco a poco, insidioso, possente; con dita inesorabili distrusse i rosei
palagi dell'irreale. Di nuovo ella si eresse, dritta in piedi, su un
nudo scoglio" (p. 302). Dritta in piedi, nella sua struttura d'acciaio, che non lasciava la minima possibilità, a nessuno, di dominarla, ripete a se stessa, nel momento in cui decide di mozzargli la testa, non che Essex ha attentato al suo potere, ma piuttosto che ha osato offendere la sua femminilità: "Un ricordo orribile la colpì: parole tremende, oltraggiose, le riecheggiarono nella mente: 'in malora'.'carcassa'." (p. 303). La carne, la vecchiaia, irrompono con tutto il loro consapevole peso nel campo, sempre volutamente messo in ombra dalla tradizione che ci consegna figure come queste, del conflitto tra i sessi e si prendono una definitiva rivincita contro una virilità che non sa declinarsi se non come volontà di dominio e possesso. Benché debole, vecchia, oltraggiata, Elisabetta trova la giusta risposta e rimane per sempre intangibile per l'uomo. Sapienza di una vergine, indomita fino alla fine, unica autorità di se stessa.
1
M. Holroyd, Lytton
Strachey: a Critical Biography, Londra, 1967-68. 2
G. Luciani, L'arte
della biografia. Saggio su Lytton Strachey, Bulzoni, 1987. 3
L. Strachey, Elisabetta
e il conte di Essex, TEA, 1989. 4
L. Strachey, La regina
Vittoria, Mondadori, 1994. 5
V. Woolf, L'arte
della biografia, in La regina Vittoria, cit. 6
Elisabetta I d'Inghilterra,
Ai fidi e agli infidi, a cura di Nicoletta Gruppi, Archinto, 1998. 7
Tradurrei più volentieri con "inconsapevole". 8
Ai fidi., cit., p. 24. |
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