24/2001
Studi di Estetica
III serie
anno XXVIII, fasc. II


Elio Franzini
Significato trascendentale 
del sentimento e forma artistica

 

    Il sentimento è un tema ambiguo, un orizzonte d'attesa in cui ogni definizione sembra insoddisfacente, dove le pulsioni del "sentire" e le sue ombre vagano incerte tra cripte, simulacri, culture dell'estremo e sentimentalismo kitsch. È per tale motivo che, quale premessa a un discorso sul significato del sentimento o, meglio, sulle sue "condizioni di possibilità", si intende delimitarne l'ambito. Del sentimento si vuole infatti cercare di descrivere soltanto la direzione formativa, cercare cioè quel che si potrebbe chiamare il suo "stile", quell'essenza in virtù della quale si possa comprendere che il sentimento non è la banalità imitativa e seriale né l'affettazione manieristica né una catalogazione di stati soggettivi bensì è capacità formativa di cogliere la radice vitale della conoscenza, essendo anche in grado di riconoscere e di porre tale senso radicale, come scriveva Goethe, "in figure visibili e tangibili". È quella forza formativa che si traduce in forme. Il sentimento è qui, dunque, un modo con cui le cose, le situazioni, gli atti e le forme si offrono: non è un "fatto", una serie di esemplificazioni empiriche e situazionali, bensì la manifestazione di un atteggiamento che si offre non "insieme" alle cose bensì "nelle" cose, quale loro specifica qualità espressiva, proprio come cifra stilistica, che il dato rappresentativo non esaurisce e che non si risolve nella rappresentazione. È proprio perché possiedono tale cifra (emblema, simbolo, geroglifico, espressione, come è stata variamente chiamata) che le opere d'arte possono essere il privilegiato esempio "spaziale" - ed orizzonte "temporale" - del manifestarsi sensibile del sentimento, del suo percorso formativo e stilistico.

Il problema non è dunque quello, al suo fondo metafisico, di cercare le "cause" del sentimento o, al contrario, di riguardarlo come "effetto" bensì di descriverlo nel suo "darsi", nel suo essere, come i simboli artistici dimostrano, un senso complesso, un'intricata trama qualitativa, un dialogo storico e spirituale. Si può persino affermare che, di fronte a questo tema, l'artista e il filosofo hanno un comune orizzonte di senso: quello di cercare nella vita estetica, nella sua stessa banalità sensibile, la dimensione veritativa del sentire, cioè, appunto, le sue condizioni di possibilità, sfuggendo a quella ripetitività che può trasformare l'uomo e l'artista stesso, come scriveva Baudelaire, nella "scimmia del sentimento". Bisogna invece, come il Tonio Kröger di Mann, sapere sospettare dei sentimenti e porsi "in una situazione stranamente lontana e neutrale", che non confonda il sentimento con una liricità ambigua in cui viene in ogni caso, come afferma Kundera, "innalzato al rango di valore e verità". Il sentimento che si presenta allo sguardo filosofico, e che gli artisti oggettivano, non è l'elogio acritico dell'immediatezza bensì la dimostrazione che esiste una forma di sapere che attraversa variati contenuti rappresentativi ed espressivi incarnandosi in essi senza esaurirsi, mantenendo in sé un'intelligenza lucidamente critica e formativa: un sentimento che è "intelligente", che rigetta le estasi liriche, che cioè, pur nella sua immediatezza ricettiva, ha in sé stratificazioni di senso che, proprio perché non riducibili a un generico sensualismo, lirico e sentimentalistico, comportano un giudizio sull'esperienza fondato in sintesi spiritualmente complesse e articolato in una serie di temi non riducibili a un orizzonte univoco. Il giudizio sul significato dei vari livelli dell'esperienza affettiva non può dunque, proprio per le sue stratificazioni concrete, venire ridotto e ricondotto a norme e valori né contingenti né assoluti, né psicologici né metafisici. Il sentimento inaugura un paradosso filosofico - ma un paradosso che può rimettere in discussione tutti i processi della conoscenza: pur essendo totalmente nell'atto che lo manifesta, richiede uno sguardo che non si esaurisce nell'attualità né si confonde con essa.

A questo sguardo, il mondo dell'affettività appare non come un caos disordinato ma in quanto dimensione estetica ricca, come testimoniano le opere d'arte, di significati conoscitivi che hanno le loro leggi, i loro percorsi, nessi di senso, stadi successivi e progressivi, la cui analisi permette una sempre più precisa conoscenza. Il sentimento è sempre all'interno di una genesi formativa: genesi che l'opera d'arte, a sua volta fondata su strutture affettive e espressive, può fondare, esibendo nessi che costituiscono la forma estetico-simbolica della vita affettiva e della sua dialogica variabilità. Se allora l'approfondimento della vita estetica non è scissione tragica del vitale ma ricerca dei suoi stessi momenti fondativi, la sua funzione è quella di riproblematizzare, e risemantizzare, la ricerca stessa della filosofia sul senso del sapere e dell'episteme, cogliendo la sua radice, il suo fondo irriducibile e vivificante, mai tematizzato se non in modo occasionale e progressivamente affondato nell'autodefinizione del filosofico.

Il sentimento è simbolo o, meglio, la condizione di possibilità simbolica, di un senso estetico, vitale, conoscitivo, attivo che non si lascia mai pienamente afferrare, che manifesta la ricerca stessa non come sguardo indifferente ma in quanto volontà desiderativa, problematizzazione del rapporto, dialogico e paradossale, tra esperienza e comprensione. Analizzare il sentimento significa invertire il processo gnoseologico descritto da Leibniz (e da Baumgarten) e osservare non i limiti dell'esperienza sensibile bensì quelli del concetto, che non è in grado di penetrare nella profondità del sensibile, nel radicale rapporto veritativo che si instaura là dove il giudizio si fonda.

Il tema del sentimento conduce dunque su un problema centrale nella filosofia contemporanea, quello del rapporto non solo tra la vita e le forme ma tra il pensiero e la vita estetica. La confusione non è nel dato estetico-sensibile bensì nella sua entificazione concettuale: la sfera intuitiva e precategoriale è assolutamente chiara e giunge immediatamente alla dimensione del giudizio, cioè alla determinazione di una evidenza. È nel momento in cui questa evidenza intuitiva dell'esperienza deve trasformarsi in un concetto normativo (etico, intellettuale, valutativo, assiologico, ecc.) che la sua chiarezza svanisce, rivelando l'impossibilità di giungere a una compiuta rappresentazione concettuale dei contenuti affettivi.

La vita infatti, come è ovvio, non è filosofia: ma la filosofia, di fronte al mondo del sentimento, e alla vita estetica, non è, e non deve diventare, se vuole seguire la sua radice estetico-sentimentale, una scienza come le altre, non è cioè strumento di entificazione e obiettivizzazione perché non pone mai il sentire in un'assoluta trascendenza fattuale bensì lo costituisce nell'immanenza vissuta degli atti soggettivi. Il termine vissuto non ha un significato psicologico ma indica l'unico modo in cui le cose, gli stati soggettivi, si danno nella loro specificità esperienziale. In questo darsi i sentimenti, come osserva Musil, non fluiscono tranquillamente come un fiume ma ci "occorrono", cioè ci "corrono contro", ci colpiscono "come sassi che ci vengono lanciati". L'estetica, nel momento in cui si tematizza all'interno di un discorso su un sentimento "intelligente" o, meglio, un "sentimento che giudica", non tende a una nuova perfezione conoscitiva né a un finalismo etico bensì a illuminare progressivamente, senza che la progressività si muti in norma, quel "buco nero" (come ancora Musil lo chiamava) da cui balzano fuori i pensieri. Si può allora pensare che esista nei concetti una componente affettiva che, anche quando è messa tra parentesi, vive segreta tra le loro pieghe, pronta a tornare a piena vita ed azione. È forse proprio il sentimento, la presenza della vita estetica, a impedire l'entificazione concettuale delle cose nei processi obiettivanti della conoscenza, in altri termini, a rendere dialogica ogni forma di sapere, a trasformare in durata l'istante in cui si interroga il mondo.

Illuminare il buco nero senza dimenticarne la potenzialità e l'oscurità creativa, rivelare il senso senza occultarne l'affettività, formulare giudizi senza costruire norme sono allora alcuni problemi aperti da una tematizzazione del sentimento, problemi che ne illuminano il senso trascendentale. Senso che induce a interrogarsi sulla presenza, nell'attività conoscitiva, di una forma di relazione con il mondo che non si esaurisce nella chiarezza e nella distinzione e che, soprattutto, non limita il senso stesso dell'evidenza esperienziale a questi parametri cartesiani e alla loro traduzione in discorsività concettuale. Non c'è infatti soltanto, sostengono Husserl e Merleau-Ponty, una intenzionalità d'atto, quella di una conoscenza che tematizza e separa, ma anche e soprattutto, alla sua base, una intenzionalità fungente (potremmo anche dire "sentimentale"), che opera sempre, anche al di qua della chiarezza, distinzione ed evidenza dell'atto conoscitivo, e che, quasi come la leibniziana percezione inconscia costituisce, come scrive Merleau-Ponty,

 

l'unità naturale e antepredicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri, nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio più chiaramente che nella conoscenza oggettiva, e che fornisce il testo di cui le nostre conoscenze cercano di essere la traduzione in linguaggio esatto.

 

Ebbene, i sentimenti sono l'orizzonte di tale testo, cioè il tessuto primario della nostra stessa vita, delle sue potenzialità conoscitive.

Le conoscenze specifiche altro non sono che la traduzione, in altrettanti linguaggi specifici, di questo testo originario, di un'originaria relazione sensibile con il mondo. La filosofia, nel suo essere estetico, nel momento cioè in cui rivela il fungere dell'intenzionalità conoscitiva, non è allora una scienza tra le altre perché, se ancora si vuole usare il termine scienza, è in primo luogo la scienza del mondo della vita, cioè l'esibizione dell'originario, la descrizione della relazione genetica tra esperienza e giudizio, cioè appunto del testo non discorsivo di ogni specifico e disciplinare orizzonte di sapere. Orizzonte che, di per sé, è un terreno intenzionale attraversato dall'affettività e dalla sua originarietà espressiva e desiderativa.

Riconoscere l'operatività vitale dell'intenzionalità fungente significa così anche comprendere che tra il testo estetico, originario, affettivo, espressivo, che è la vita stessa dell'esperienza, che è l'originarietà del mondo della vita, e le sue "traduzioni" scientifico-disciplinari esiste sempre una differenza e uno scarto. Se tale scarto viene "colmato", se si ritiene possibile poterlo colmare (dalla ricerca, dalla scienza, dal concetto, dalla storia, ecc.), oltre a presentare un modello non "critico" di filosofia, la conoscenza del testo (estetico e vitale) risulta stravolta attraverso una modalità che, per usare il linguaggio heideggeriano, è meramente "tecnica". Ma se si riconosce che lo scarto non può mai essere colmato, non si va verso una deriva irrazionalista bensì ci si pone nella consapevolezza che il nostro rapporto esperienziale con il mondo comporta sempre - e sottolineo sempre - due attività, tra loro continue: l'attività del fungere, del sentire originario, che è sempre presente e sempre nascosta, e l'attività che rivela l'operatività dell'atto conoscitivo, le sue sfere affettive, senza mai, appunto, poterne obiettivare, per la presenza di quell'altra forza segreta, il senso, la vitalità, l'evidenza stessa in cui il processo conoscitivo si mette alla prova e rivela le sue articolazioni.

La differenza tra questi due piani non è ontologica né si risolve in una ermeneutica: è piuttosto un dialogo di senso che presenta una continuità descrittiva e operativa. Non siamo di fronte a una cosa, un ente, o a una provincia dell'essere o alla sua statica totalità né a una genesi soggettiva, realistica, volontaristica o psicologica: è invece un processo in cui le possibilità formali della vita estetica si realizzano sempre di nuovo in atti soggettivi, presentando la nostra stessa realtà, facendo comprendere che essa, i suoi oggetti e le scienze che la codificano, non sono mai del tutto traducibili su un piano fattuale, pragmatico o, al contrario, di pura ed astratta concettualizzazione. Esistono peraltro, ed è ancora l'esperienza delle opere d'arte a ricordarlo, alcuni oggetti "finiti" che riportano sempre di nuovo all'originarietà del mondo dell'affettività e del sentimento. E che ricordano anche come, quando si parla di sentimento, non si navighi passivi in un flusso indistinto, in un'esteticità indeterminata e indecisa, bensì si scelga una possibilità formativa che, pur scaturendo da un "buco nero", sempre si "prova" e si "limita" in trascendenze, cioè in forme che, nella loro esteticità spazio-temporale, vengono esperite, interpretate, tematizzate.

Si mira così a una filosofia che vuole essere illuminazione del senso totale dell'esperienza: in cui però le cose che ci circondano, che ci "occorrono", hanno sempre un lato "anonimo", che non è segno di oscurità e di disgusti decostruttivi, bensì della loro dinamicità, inseparabile dalla dinamicità estetica del processo che le disvela. La funzione della filosofia è quella di liberare tale orizzonte dalla sua anonimia, ma tale compito è leibnizianamente infinito, si rinnova perché l'anonimia, l'infinità stessa del senso, permane anche nel disvelamento. Lo sguardo descrittivo non è soltanto una grammatica logica, né un discorso apofantico, né la costruzione di ordinate - ed estetistiche - unità gestaltiche: è invece inserito in dinamiche intersoggettive, nelle loro costruzioni storico-spirituali e permette di comprendere non solo il rapporto di senso, anonimo e fungente, con ciò che ci circonda, con il senso delle cose e dei processi conoscitivi ma anche, in queste operazioni, il senso di un sapere che non è chiuso nell'intimità dei soggetti bensì manifesta il senso delle comunità, di una conoscenza intersoggettiva che su basi sentimentali ed empatiche appunto si instaura.

Sentimento che, al di là della sua apparenza "soggettiva", mostra il venire in luce di un motivo "oggettivante", in base al quale si instaura un piano simbolico, che esibisce attraverso oggetti formalmente compiuti un momento di originaria e costitutiva dialogicità che è al tempo stesso estetica, interpersonale e comunitaria. È evidente che anche in questo caso le opere d'arte potrebbero far risaltare il contesto sensibile, comunicativo, espressivo e giudicativo di questo piano simbolico.

In questo processo, che va dal presentarsi del soggetto al costituirsi di un dialogo comunitario e intersoggettivo, imparare a giudicare con il sentimento, e a porre il sentimento all'origine del giudizio, come l'estetica a partire dal Settecento insegna, indica una strada per la filosofia che si oppone sia a chi ritiene il giudizio un'esclusiva sfera formale ed analitica sia a chi rifiuta il suo valore fondativo per la verità e il senso delle cose e dei soggetti. Vi è un'esteticità originaria, che vive ed opera anche quando non è al centro dell'indagine, significato che è nella relazione sensibile tra i soggetti e con i vari strati del mondo circostante. È su queste basi, sulle basi di un sentimento che vive nei processi del sapere, che ne è l'orizzonte anonimo e fungente, che è un sentimento comune, che vive, come ricorda Vico, nella storia ma che è anche in ogni giudizio logico, che può stabilirsi una sorta di antropologia trascendentale all'interno della quale si fonda un senso-sentimento comune, radicato nel formarsi di una verità intersoggettiva: l'estetica diviene l'orizzonte entro il quale si analizzano i contenuti di un sapere qualitativo e contingente, un sapere legato all'espressione e all'interpretazione, un sapere che non costruisce enti astratti ma segue un percorso vitale, quello che passa attraverso variazioni e modificazioni, che ammette la molteplicità degli sguardi e degli atteggiamenti.

Un'indagine sul significato trascendentale del sentimento, cioè su di esso come condizione di possibilità di un orizzonte conoscitivo, apre però una prospettiva, un orizzonte, che non è affatto autoreferenziale: è invece una apertura estetica al mondo della vita e ai suoi dialoghi di senso che è interrogazione originaria sul senso fondativo della ricerca scientifica e formale, sul suo legame intenzionale con un'indagine su una natura umana e sulla sua capacità di giudicare, sulla sua attività simbolica e fabbrile, dove il sentire stesso è esibito, nella sua presenza, come inesuaribile ricchezza del senso che è in noi. Un senso comune a partire dal quale si possa riconoscere un senso antropologico come possibilità originaria di dialogo e di conoscenza.

Il senso comune, il sentimento è dunque ciò che fa diventare il dialogo "la condizione necessaria dell'universale comunicabilità della nostra conoscenza". Sono, come si sarà notato, parole di Kant, il quale aggiunge, nella Critica del Giudizio, che questo principio deve essere presupposto in ogni logica, appunto come un a priori che vive e funziona anche quando è anonimo, fondo estetico per ogni giudizio, per ogni conoscenza possibile. Questo "sentimento comune" non è l'opinione comune soggetta a pregiudizi, travolta e stravolta dal Kitsch massmediatico, dalla banalizzazione inautentica del sentire, bensì, al contrario, come Kant stesso sottolinea collegandolo alla definizione dell'Illuminismo, la possibilità a priori di decostruire sistemi normativamente unitari attraverso un potere critico, che sia alla base stessa dei decorsi di pensiero, simbolo della loro originaria e fungente esteticità.

Non si tratta, dunque, come avrebbe detto Valéry, di entrare in questi labirinti ed inebriarsi di smarrimento, naufragando nel mare dell'oscuro, ma di cogliere invece che, come sin da Leibniz la filosofia insegna, già nell'oscurità stessa del sentire si apre un campo in cui si comprendono i processi, le genesi attraverso le quali si entra criticamente nelle complessità ambigue e motivazionalmente intricate della vita estetica. Essere filosofi non significa soltanto camminare sui bordi, sui confini, nelle terre di nessuno, nelle estetizzazioni diffuse, nelle debolezze effimere del quotidiano o nell'effimera esistenza dei quotidiani, ma, in tutta semplicità, voler capire più in profondità, senza l'hybris dell'assolutezza, del fattualismo, delle certezze empiriche e sperimentali, conoscere le pieghe del campo del senso, in particolare là dove la presenza cronotopica dell'oggetto è carica di significati apparentemente confusi ed anonimi. Non si costruisce così un percorso di cause ma un processo di sapere intriso di quel sentimento originario che empaticamente ci lega al mondo e agli altri, in cui soltanto sono radicate le motivazioni che spingono a fondare un tessuto relazionale.

Il sentimento può certo essere il territorio di una psicologia individuale e di situazioni contingenti: ma nel momento in cui se ne afferra il significato simbolico può diventare allora il modello di un percorso formativo, di processi formali, di connessioni interpretative: può, come diceva Kant per le opere d'arte, "far pensare molto", senza che tuttavia tali pensieri siano riducibili a una sola ragione, a un solo concetto, a una sola rappresentazione, bensì mostrino un'essenza che è sempre complessa, genetica, motivazionale, intersoggettiva, che sempre di nuovo forma il senso, cioè attribuisce a esso contenuti e contorni, immagini e figure, senza mai esaurirlo, inserendolo anzi in un vivo processo spirituale. È questo un decorso che non diviene mai un gioco di ripetitive rappresentazioni o la circolarità ermeneutica della rappresentazione o un segno che allude a altri segni: il sentimento è ciò che, come scrive Mann nel Tonio Kröger, non finisce mai di cercare "un mondo non ancora nato, tuttora allo stato di abbozzo, che vuol essere ordinato ed espresso".

In questo modo, attraverso le opere, si opera il passaggio dalla psicologia individuale a quella trascendentale: ma, lo si ripete, nella consapevolezza che questo piano non è quello della definizione di certezze fattuali ma il campo di una ricerca critica e descrittiva, in cui alcuni oggetti - chiamiamoli simboli, se vogliamo, chiamiamoli "opere", cioè oggetti sensibili, spazio-temporali, i cui orizzonti richiedono sempre di nuovo il nostro "girare intorno" ad essi - inducono l'interrogazione su un senso che non si chiude, su un processo che non è appagato dal visibile e dai suoi sosfisticati misticismi. E chissà, forse proprio questo intendeva Paul Klee quando, a margine del suo ultimo disegno, scrisse: "Bisogna che tutto sia conosciuto? Ah, io non credo".

Non è questo un richiamo a un "mistico" che precede e fonda l'estetico: al contrario, e senza dicotomie larvate, è l'affermazione di una sorta di "spiritualità originaria", e di "affettività primordiale", dell'estetico stesso, che le forme artistiche, scientifiche, tecniche, intellettuali, motivazionali in genere, riconoscendone il nucleo invisibile, intendono manifestare, sempre di nuovo, cercandone forme simboliche; ma che, sostanzialmente, rimane inindagabile nella sua irrapresentabilità o, per utilizzare ancora un'espressione di Klee, inafferrabile nella sua immanenza (e proprio di immanenza assoluta si tratta, intraducibile in trascendenze oggettuali). Le "forme" non sono l'unica via per "educare" lo sguardo: vi è un "informe" sensibile, che svelare sarebbe o snaturare o abbandonare passivamente a un'ingenua psicologia empirica o alla raffinatezza verbale delle "teorie". Ma il suo "c'è", che non è uno spazio fisico né il cuore-spazio di cui parlava il giovane Bonnefoy, è l'evidenza, vivente e fungente, dell'origine stessa dell'invisibile.

Una fenomenologia del sentimento, che diviene così una fenomenologia dell'invisibile, cioè una descrizione dei modi attraverso i quali le motivazioni, originarie e simboliche, delle genesi di senso si trasformano in rappresentazioni espressive, comunicative, dialogiche, intersoggettive, non si conclude tuttavia in un acritico "elogio dell'irrapresentabile": al contrario, proprio per rendere più "verosimile" la perorazione della causa dell'invisibile, bisogna essere consapevoli che vi sono piani di evidenza che non possono e non debbono essere rappresentati, per motivi intrinseci alla natura stessa - di vario "genere" - dei contenuti "irrapresentabili". Il senso simbolico delle forme è tale perché la frattura originaria tra il pensare e il sentire si mantiene e si rinnova all'interno di questo "iato", i cui tentativi di "compimento" sciolgono il valore stesso della comunicazione simbolica, cercandone un troppo preciso cronotopo.

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