24/2001
Il
sentimento è un tema ambiguo, un orizzonte d'attesa in cui ogni
definizione sembra insoddisfacente, dove le pulsioni del "sentire" e
le sue ombre vagano incerte tra cripte, simulacri, culture
dell'estremo e sentimentalismo kitsch. È per tale motivo che,
quale premessa a un discorso sul significato del sentimento o, meglio,
sulle sue "condizioni di possibilità", si intende delimitarne
l'ambito. Del sentimento si vuole infatti cercare di descrivere
soltanto la direzione formativa, cercare cioè quel che si potrebbe
chiamare il suo "stile", quell'essenza in virtù della quale si
possa comprendere che il sentimento non è la banalità imitativa e
seriale né l'affettazione manieristica né una catalogazione di stati
soggettivi bensì è capacità formativa di cogliere la radice vitale
della conoscenza, essendo anche in grado di riconoscere e di porre tale
senso radicale, come scriveva Goethe, "in figure visibili e
tangibili". È quella forza formativa che si traduce in forme. Il
sentimento è qui, dunque, un modo con cui le cose, le situazioni, gli
atti e le forme si offrono: non è un "fatto", una serie di
esemplificazioni empiriche e situazionali, bensì la manifestazione di
un atteggiamento che si offre non "insieme" alle cose bensì
"nelle" cose, quale loro specifica qualità espressiva, proprio come
cifra stilistica, che il dato rappresentativo non esaurisce e che non si
risolve nella rappresentazione. È proprio perché possiedono tale cifra
(emblema, simbolo, geroglifico, espressione, come è stata variamente
chiamata) che le opere d'arte possono essere il privilegiato esempio
"spaziale" - ed orizzonte "temporale" - del manifestarsi
sensibile del sentimento, del suo percorso formativo e stilistico. Il
problema non è dunque quello, al suo fondo metafisico, di cercare le
"cause" del sentimento o, al contrario, di riguardarlo come
"effetto" bensì di descriverlo nel suo "darsi", nel suo essere,
come i simboli artistici dimostrano, un senso complesso, un'intricata
trama qualitativa, un dialogo storico e spirituale. Si può persino
affermare che, di fronte a questo tema, l'artista e il filosofo hanno
un comune orizzonte di senso: quello di cercare nella vita estetica,
nella sua stessa banalità sensibile, la dimensione veritativa del
sentire, cioè, appunto, le sue condizioni di possibilità, sfuggendo a
quella ripetitività che può trasformare l'uomo e l'artista stesso,
come scriveva Baudelaire, nella "scimmia del sentimento". Bisogna
invece, come il Tonio Kröger di Mann, sapere sospettare dei sentimenti
e porsi "in una situazione stranamente lontana e neutrale", che non
confonda il sentimento con una liricità ambigua in cui viene in ogni
caso, come afferma Kundera, "innalzato al rango di valore e verità".
Il sentimento che si presenta allo sguardo filosofico, e che gli artisti
oggettivano, non è l'elogio acritico dell'immediatezza bensì la
dimostrazione che esiste una forma di sapere che attraversa variati
contenuti rappresentativi ed espressivi incarnandosi in essi senza
esaurirsi, mantenendo in sé un'intelligenza lucidamente critica e
formativa: un sentimento che è "intelligente", che rigetta le
estasi liriche, che cioè, pur nella sua immediatezza ricettiva, ha in sé
stratificazioni di senso che, proprio perché non riducibili a un
generico sensualismo, lirico e sentimentalistico, comportano un giudizio
sull'esperienza fondato in sintesi spiritualmente complesse e
articolato in una serie di temi non riducibili a un orizzonte univoco.
Il giudizio sul significato dei vari livelli dell'esperienza affettiva
non può dunque, proprio per le sue stratificazioni concrete, venire
ridotto e ricondotto a norme e valori né contingenti né assoluti, né
psicologici né metafisici. Il sentimento inaugura un paradosso
filosofico - ma un paradosso che può rimettere in discussione tutti i
processi della conoscenza: pur essendo totalmente nell'atto che lo
manifesta, richiede uno sguardo che non si esaurisce nell'attualità né
si confonde con essa. A
questo sguardo, il mondo dell'affettività appare non come un caos
disordinato ma in quanto dimensione estetica ricca, come testimoniano le
opere d'arte, di significati conoscitivi che hanno le loro leggi, i
loro percorsi, nessi di senso, stadi successivi e progressivi, la cui
analisi permette una sempre più precisa conoscenza. Il sentimento è
sempre all'interno di una genesi formativa: genesi che l'opera
d'arte, a sua volta fondata su strutture affettive e espressive, può
fondare, esibendo nessi che costituiscono la forma estetico-simbolica
della vita affettiva e della sua dialogica variabilità. Se allora
l'approfondimento della vita estetica non è scissione tragica del
vitale ma ricerca dei suoi stessi momenti fondativi, la sua funzione è
quella di riproblematizzare, e risemantizzare, la ricerca stessa della
filosofia sul senso del sapere e dell'episteme, cogliendo la sua
radice, il suo fondo irriducibile e vivificante, mai tematizzato se non
in modo occasionale e progressivamente affondato nell'autodefinizione
del filosofico. Il
sentimento è simbolo o, meglio, la condizione di possibilità
simbolica, di un senso estetico, vitale, conoscitivo, attivo che non si
lascia mai pienamente afferrare, che manifesta la ricerca stessa non
come sguardo indifferente ma in quanto volontà desiderativa,
problematizzazione del rapporto, dialogico e paradossale, tra esperienza
e comprensione. Analizzare il sentimento significa invertire il processo
gnoseologico descritto da Leibniz (e da Baumgarten) e osservare non i
limiti dell'esperienza sensibile bensì quelli del concetto, che non
è in grado di penetrare nella profondità del sensibile, nel radicale
rapporto veritativo che si instaura là dove il giudizio si fonda. Il
tema del sentimento conduce dunque su un problema centrale nella
filosofia contemporanea, quello del rapporto non solo tra la vita e le
forme ma tra il pensiero e la vita estetica. La confusione non è nel
dato estetico-sensibile bensì nella sua entificazione concettuale: la
sfera intuitiva e precategoriale è assolutamente chiara e giunge
immediatamente alla dimensione del giudizio, cioè alla determinazione
di una evidenza. È nel momento in cui questa evidenza intuitiva
dell'esperienza deve trasformarsi in un concetto normativo (etico,
intellettuale, valutativo, assiologico, ecc.) che la sua chiarezza
svanisce, rivelando l'impossibilità di giungere a una compiuta
rappresentazione concettuale dei contenuti affettivi. La
vita infatti, come è ovvio, non è filosofia: ma la filosofia, di
fronte al mondo del sentimento, e alla vita estetica, non è, e non deve
diventare, se vuole seguire la sua radice estetico-sentimentale, una
scienza come le altre, non è cioè strumento di entificazione e
obiettivizzazione perché non pone mai il sentire in un'assoluta
trascendenza fattuale bensì lo costituisce nell'immanenza vissuta
degli atti soggettivi. Il termine vissuto non ha un significato
psicologico ma indica l'unico modo in cui le cose, gli stati
soggettivi, si danno nella loro specificità esperienziale. In questo
darsi i sentimenti, come osserva Musil, non fluiscono tranquillamente
come un fiume ma ci "occorrono", cioè ci "corrono contro", ci
colpiscono "come sassi che ci vengono lanciati". L'estetica, nel
momento in cui si tematizza all'interno di un discorso su un
sentimento "intelligente" o, meglio, un "sentimento che
giudica", non tende a una nuova perfezione conoscitiva né a un
finalismo etico bensì a illuminare progressivamente, senza che la
progressività si muti in norma, quel "buco nero" (come ancora Musil
lo chiamava) da cui balzano fuori i pensieri. Si può allora pensare che
esista nei concetti una componente affettiva che, anche quando è messa
tra parentesi, vive segreta tra le loro pieghe, pronta a tornare a piena
vita ed azione. È forse proprio il sentimento, la presenza della vita
estetica, a impedire l'entificazione concettuale delle cose nei
processi obiettivanti della conoscenza, in altri termini, a rendere
dialogica ogni forma di sapere, a trasformare in durata l'istante in
cui si interroga il mondo. Illuminare
il buco nero senza dimenticarne la potenzialità e l'oscurità
creativa, rivelare il senso senza occultarne l'affettività, formulare
giudizi senza costruire norme sono allora alcuni problemi aperti da una
tematizzazione del sentimento, problemi che ne illuminano il senso
trascendentale. Senso che induce a interrogarsi sulla presenza,
nell'attività conoscitiva, di una forma di relazione con il mondo che
non si esaurisce nella chiarezza e nella distinzione e che, soprattutto,
non limita il senso stesso dell'evidenza esperienziale a questi
parametri cartesiani e alla loro traduzione in discorsività
concettuale. Non c'è infatti soltanto, sostengono Husserl e
Merleau-Ponty, una intenzionalità d'atto, quella di una conoscenza
che tematizza e separa, ma anche e soprattutto, alla sua base, una
intenzionalità fungente (potremmo anche dire
"sentimentale"), che opera sempre, anche al di qua della chiarezza,
distinzione ed evidenza dell'atto conoscitivo, e che, quasi come la
leibniziana percezione inconscia costituisce, come scrive Merleau-Ponty, l'unità naturale e antepredicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri, nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio più chiaramente che nella conoscenza oggettiva, e che fornisce il testo di cui le nostre conoscenze cercano di essere la traduzione in linguaggio esatto. Ebbene,
i sentimenti sono l'orizzonte di tale testo, cioè il tessuto primario
della nostra stessa vita, delle sue potenzialità conoscitive. Le
conoscenze specifiche altro non sono che la traduzione, in altrettanti
linguaggi specifici, di questo testo originario, di un'originaria
relazione sensibile con il mondo. La filosofia, nel suo essere estetico,
nel momento cioè in cui rivela il fungere dell'intenzionalità
conoscitiva, non è allora una scienza tra le altre perché, se ancora
si vuole usare il termine scienza, è in primo luogo la scienza del
mondo della vita, cioè l'esibizione dell'originario, la descrizione
della relazione genetica tra esperienza e giudizio, cioè appunto del
testo non discorsivo di ogni specifico e disciplinare orizzonte di
sapere. Orizzonte che, di per sé, è un terreno intenzionale
attraversato dall'affettività e dalla sua originarietà espressiva e
desiderativa. Riconoscere
l'operatività vitale dell'intenzionalità fungente significa così
anche comprendere che tra il testo estetico, originario, affettivo,
espressivo, che è la vita stessa dell'esperienza, che è l'originarietà
del mondo della vita, e le sue "traduzioni" scientifico-disciplinari
esiste sempre una differenza e uno scarto. Se tale scarto viene
"colmato", se si ritiene possibile poterlo colmare (dalla ricerca,
dalla scienza, dal concetto, dalla storia, ecc.), oltre a presentare un
modello non "critico" di filosofia, la conoscenza del testo
(estetico e vitale) risulta stravolta attraverso una modalità che, per
usare il linguaggio heideggeriano, è meramente "tecnica". Ma se si
riconosce che lo scarto non può mai essere colmato, non si va verso una
deriva irrazionalista bensì ci si pone nella consapevolezza che il
nostro rapporto esperienziale con il mondo comporta sempre - e
sottolineo sempre - due attività, tra loro continue: l'attività
del fungere, del sentire originario, che è sempre presente e sempre
nascosta, e l'attività che rivela l'operatività dell'atto
conoscitivo, le sue sfere affettive, senza mai, appunto, poterne
obiettivare, per la presenza di quell'altra forza segreta, il senso,
la vitalità, l'evidenza stessa in cui il processo conoscitivo si
mette alla prova e rivela le sue articolazioni. La
differenza tra questi due piani non è ontologica né si risolve in una
ermeneutica: è piuttosto un dialogo di senso che presenta una continuità
descrittiva e operativa. Non siamo di fronte a una cosa, un ente, o a
una provincia dell'essere o alla sua statica totalità né a una
genesi soggettiva, realistica, volontaristica o psicologica: è invece
un processo in cui le possibilità formali della vita estetica si
realizzano sempre di nuovo in atti soggettivi, presentando la nostra
stessa realtà, facendo comprendere che essa, i suoi oggetti e le
scienze che la codificano, non sono mai del tutto traducibili su un
piano fattuale, pragmatico o, al contrario, di pura ed astratta
concettualizzazione. Esistono peraltro, ed è ancora l'esperienza
delle opere d'arte a ricordarlo, alcuni oggetti "finiti" che
riportano sempre di nuovo all'originarietà del mondo
dell'affettività e del sentimento. E che ricordano anche come, quando
si parla di sentimento, non si navighi passivi in un flusso indistinto,
in un'esteticità indeterminata e indecisa, bensì si scelga una
possibilità formativa che, pur scaturendo da un "buco nero", sempre
si "prova" e si "limita" in trascendenze, cioè in forme che,
nella loro esteticità spazio-temporale, vengono esperite, interpretate,
tematizzate. Si
mira così a una filosofia che vuole essere illuminazione del senso
totale dell'esperienza: in cui però le cose che ci circondano, che ci
"occorrono", hanno sempre un lato "anonimo", che non è segno di
oscurità e di disgusti decostruttivi, bensì della loro dinamicità,
inseparabile dalla dinamicità estetica del processo che le disvela. La
funzione della filosofia è quella di liberare tale orizzonte dalla sua
anonimia, ma tale compito è leibnizianamente infinito, si rinnova perché
l'anonimia, l'infinità stessa del senso, permane anche nel
disvelamento. Lo sguardo descrittivo non è soltanto una grammatica
logica, né un discorso apofantico, né la costruzione di ordinate -
ed estetistiche - unità gestaltiche: è invece inserito in dinamiche
intersoggettive, nelle loro costruzioni storico-spirituali e permette di
comprendere non solo il rapporto di senso, anonimo e fungente, con ciò
che ci circonda, con il senso delle cose e dei processi conoscitivi ma
anche, in queste operazioni, il senso di un sapere che non è chiuso
nell'intimità dei soggetti bensì manifesta il senso delle comunità,
di una conoscenza intersoggettiva che su basi sentimentali ed empatiche
appunto si instaura. Sentimento
che, al di là della sua apparenza "soggettiva", mostra il venire in
luce di un motivo "oggettivante", in base al quale si instaura un
piano simbolico, che esibisce attraverso oggetti formalmente
compiuti un momento di originaria e costitutiva dialogicità che è al
tempo stesso estetica, interpersonale e comunitaria. È evidente che
anche in questo caso le opere d'arte potrebbero far risaltare il
contesto sensibile, comunicativo, espressivo e giudicativo di questo
piano simbolico. In
questo processo, che va dal presentarsi del soggetto al costituirsi di
un dialogo comunitario e intersoggettivo, imparare a giudicare con il
sentimento, e a porre il sentimento all'origine del giudizio, come
l'estetica a partire dal Settecento insegna, indica una strada per la
filosofia che si oppone sia a chi ritiene il giudizio un'esclusiva
sfera formale ed analitica sia a chi rifiuta il suo valore fondativo per
la verità e il senso delle cose e dei soggetti. Vi è un'esteticità
originaria, che vive ed opera anche quando non è al centro
dell'indagine, significato che è nella relazione sensibile tra i
soggetti e con i vari strati del mondo circostante. È su queste basi,
sulle basi di un sentimento che vive nei processi del sapere, che ne è
l'orizzonte anonimo e fungente, che è un sentimento comune, che vive,
come ricorda Vico, nella storia ma che è anche in ogni giudizio logico,
che può stabilirsi una sorta di antropologia trascendentale
all'interno della quale si fonda un senso-sentimento comune, radicato
nel formarsi di una verità intersoggettiva: l'estetica diviene
l'orizzonte entro il quale si analizzano i contenuti di un sapere
qualitativo e contingente, un sapere legato all'espressione e
all'interpretazione, un sapere che non costruisce enti astratti ma
segue un percorso vitale, quello che passa attraverso variazioni e
modificazioni, che ammette la molteplicità degli sguardi e degli
atteggiamenti. Un'indagine
sul significato trascendentale del sentimento, cioè su di esso come
condizione di possibilità di un orizzonte conoscitivo, apre però una
prospettiva, un orizzonte, che non è affatto autoreferenziale: è
invece una apertura estetica al mondo della vita e ai suoi dialoghi di
senso che è interrogazione originaria sul senso fondativo della ricerca
scientifica e formale, sul suo legame intenzionale con un'indagine su
una natura umana e sulla sua capacità di giudicare, sulla sua attività
simbolica e fabbrile, dove il sentire stesso è esibito, nella sua
presenza, come inesuaribile ricchezza del senso che è in noi. Un senso
comune a partire dal quale si possa riconoscere un senso antropologico
come possibilità originaria di dialogo e di conoscenza. Il
senso comune, il sentimento è dunque ciò che fa diventare il dialogo
"la condizione necessaria dell'universale comunicabilità della
nostra conoscenza". Sono, come si sarà notato, parole di Kant, il
quale aggiunge, nella Critica del Giudizio, che questo principio
deve essere presupposto in ogni logica, appunto come un a priori
che vive e funziona anche quando è anonimo, fondo estetico per ogni
giudizio, per ogni conoscenza possibile. Questo "sentimento comune"
non è l'opinione comune soggetta a pregiudizi, travolta e stravolta
dal Kitsch massmediatico, dalla banalizzazione inautentica del
sentire, bensì, al contrario, come Kant stesso sottolinea collegandolo
alla definizione dell'Illuminismo, la possibilità a priori di
decostruire sistemi normativamente unitari attraverso un potere critico,
che sia alla base stessa dei decorsi di pensiero, simbolo della loro
originaria e fungente esteticità. Non
si tratta, dunque, come avrebbe detto Valéry, di entrare in questi
labirinti ed inebriarsi di smarrimento, naufragando nel mare
dell'oscuro, ma di cogliere invece che, come sin da Leibniz la
filosofia insegna, già nell'oscurità stessa del sentire si apre un
campo in cui si comprendono i processi, le genesi attraverso le quali si
entra criticamente nelle complessità ambigue e motivazionalmente
intricate della vita estetica. Essere filosofi non significa soltanto
camminare sui bordi, sui confini, nelle terre di nessuno, nelle
estetizzazioni diffuse, nelle debolezze effimere del quotidiano o
nell'effimera esistenza dei quotidiani, ma, in tutta semplicità,
voler capire più in profondità, senza l'hybris
dell'assolutezza, del fattualismo, delle certezze empiriche e
sperimentali, conoscere le pieghe del campo del senso, in particolare là
dove la presenza cronotopica dell'oggetto è carica di significati
apparentemente confusi ed anonimi. Non si costruisce così un percorso
di cause ma un processo di sapere intriso di quel sentimento originario
che empaticamente ci lega al mondo e agli altri, in cui soltanto sono
radicate le motivazioni che spingono a fondare un tessuto relazionale. Il
sentimento può certo essere il territorio di una psicologia individuale
e di situazioni contingenti: ma nel momento in cui se ne afferra il
significato simbolico può diventare allora il modello di un percorso
formativo, di processi formali, di connessioni interpretative: può,
come diceva Kant per le opere d'arte, "far pensare molto", senza
che tuttavia tali pensieri siano riducibili a una sola ragione, a un
solo concetto, a una sola rappresentazione, bensì mostrino un'essenza
che è sempre complessa, genetica, motivazionale, intersoggettiva, che
sempre di nuovo forma il senso, cioè attribuisce a esso contenuti e
contorni, immagini e figure, senza mai esaurirlo, inserendolo anzi in un
vivo processo spirituale. È questo un decorso che non diviene mai un
gioco di ripetitive rappresentazioni o la circolarità ermeneutica della
rappresentazione o un segno che allude a altri segni: il sentimento è
ciò che, come scrive Mann nel Tonio Kröger, non finisce mai di
cercare "un mondo non ancora nato, tuttora allo stato di abbozzo, che
vuol essere ordinato ed espresso". In
questo modo, attraverso le opere, si opera il passaggio dalla psicologia
individuale a quella trascendentale: ma, lo si ripete, nella
consapevolezza che questo piano non è quello della definizione di
certezze fattuali ma il campo di una ricerca critica e descrittiva, in
cui alcuni oggetti - chiamiamoli simboli, se vogliamo, chiamiamoli
"opere", cioè oggetti sensibili, spazio-temporali, i cui orizzonti
richiedono sempre di nuovo il nostro "girare intorno" ad essi -
inducono l'interrogazione su un senso che non si chiude, su un
processo che non è appagato dal visibile e dai suoi sosfisticati
misticismi. E chissà, forse proprio questo intendeva Paul Klee quando,
a margine del suo ultimo disegno, scrisse: "Bisogna che tutto sia
conosciuto? Ah, io non credo". Non
è questo un richiamo a un "mistico" che precede e fonda
l'estetico: al contrario, e senza dicotomie larvate, è
l'affermazione di una sorta di "spiritualità originaria", e di
"affettività primordiale", dell'estetico stesso, che le forme
artistiche, scientifiche, tecniche, intellettuali, motivazionali in
genere, riconoscendone il nucleo invisibile, intendono manifestare,
sempre di nuovo, cercandone forme simboliche; ma che, sostanzialmente,
rimane inindagabile nella sua irrapresentabilità o, per utilizzare
ancora un'espressione di Klee, inafferrabile nella sua immanenza (e
proprio di immanenza assoluta si tratta, intraducibile in trascendenze
oggettuali). Le "forme" non sono l'unica via per "educare" lo
sguardo: vi è un "informe" sensibile, che svelare sarebbe o
snaturare o abbandonare passivamente a un'ingenua psicologia empirica
o alla raffinatezza verbale delle "teorie". Ma il suo "c'è",
che non è uno spazio fisico né il cuore-spazio di cui parlava il
giovane Bonnefoy, è l'evidenza, vivente e fungente, dell'origine
stessa dell'invisibile. |
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