24/2001
Studi di Estetica
III serie
anno XXVIII, fasc. II


Breve avviso,
sui sintomi dell'estetica
di Fernando Bollino


I. Ai Lettori

Il presente numero di "Studi di estetica" esce con qualche ritardo sui tempi previsti, inconveniente non vogliamo dire fisiologico, ma certo non infrequente nella vita di molte riviste specialistiche che, per comprensibili ragioni, spesso faticano a mantenere la regolarità delle scadenze (quella di fine anno, in particolare). Ce ne scusiamo con gli abbonati vecchi e nuovi, confidando di compensare il difetto di tempestività con la qualità e l'interesse dei lavori pubblicati.
Nella prima parte della sezione saggistica, curata da Rita Messori, il lettore potrà trovare un'ampia e articolata serie di contributi variamente convergenti attorno a un nucleo "intricato bene" (per usare un'espressione di sapore anceschiano) di nozioni quali affettività, spazialità, forma. Si tratta, come di seguito viene illustrato nella nota di presentazione, degli esiti assai apprezzabili di un seminario dell'Istituto Banfi tenutosi verso la fine del 2000 nell'austera sala del "Mauriziano", a Reggio Emilia.
Completano la sezione due altri saggi (frutto di interventi tenuti nel 2001 in un seminario promosso dal Centro Warburg) dedicati entrambi, ma con diversa angolazione, a un argomento, quello dell'immagine, di sicura presa teorica e di grande attualità nel dibattito estetologico contemporaneo (fra gli sviluppi più recenti che, diramandosi da questa linea tematica, innescano nuove congiunzioni si segnala il denso volume di Elio Franzini, Fenomenologia dell'invisibile. Al di là dell'immagine, Cortina Ed., 2001, mentre si preannuncia, sul medesimo argomento, un convegno a Milano per la fine di maggio).
Le altre sezioni del nostro SOMMARIo non nascondono l'ambizione di suggerire o provocare, attraverso il gioco degli accostamenti espliciti e degli impliciti rinvii, un circuito di interne risonanze che percorre l'intero fascicolo: nel rilievo, vogliamo intendere, di un'istanza di integrazione che si propone come ricerca di senso proprio attraverso l'insistita apertura al nuovo e al molteplice.


II. Sui sintomi dell'estetica

"L'estetica tra filosofia dell'arte e filosofia della sensibilità": questo il tema generale dibattuto nel giro d'opinioni che concluse il citato seminario "banfiano". Dove emersero, com'è naturale, spunti di riflessione diversamente orientati - segno non minore, fra i tanti, della perdurante vitalità del campo. Qui riprendiamo il tema nel tentativo di abbozzare qualche ulteriore considerazione; e con l'avvertenza che con l'espressione "sintomi dell'estetica", ricalco parafrastico (forzato quanto suggestivo) della formula ("sintomi dell'estetico") coniata da Nelson Goodman nel suo noto I linguaggi dell'arte, si vuol alludere al senso non probatorio, bensì semplicemente indiziario, che la nozione di "sintomo" assume nell'uso goodmaniano: "Un sintomo non è una condizione necessaria né sufficiente dell'esperienza estetica [...]. Tuttavia, se i [...] sintomi enunciati sono singolarmente non sufficienti né necessari all'esperienza estetica, essi possono essere congiuntamente sufficienti e disgiuntamente necessari..." (Est 1998: 217-19).
Dunque, e di nuovo: tentare una ridefinizione dell'estetica optando per un "modello forte" (quale che ne sia il contenuto specifico) oppure ripensarla tenendosi a una sorta di "paradigma indiziario"? La nostra rivista, nella linea che da sempre la caratterizza, intende aprirsi criticamente, anche nei prossimi numeri, a taluni fermenti presenti "in situazione" senza indulgere all'astrattezza delle contrapposizioni aprioristiche e delle ossificanti dicotomie circa quel che si dice lo "statuto" dell'estetica. Non si tratta, dunque, né di prospettare improbabili sintesi fra tesi opposte né di perseguire una sorta di conciliante appeasement che ottunda le diversità dei punti di vista, quanto piuttosto di tentarne una comprensione risignificante entro quell'orizzonte aperto e flessibile esemplarmente legittimato, sul piano del metodo, da Luciano Anceschi.
In via schematica, per la necessaria brevità che qui si esige, si potrebbe ipotizzare, sempre stando su questo piano, una preliminare distinzione fra posizioni (all'apparenza riduttive) che paiono mirare, ma con diverse interne gradazioni, ad una progressiva "delimitazione" dell'estetica (del suo oggetto, del suo campo, della sua storia) via negationis o, diciamo meglio, "per sottrazione", e posizioni che, al contrario, procedendo per gesti tendenzialmente inclusivi e non esclusivi, sembrano voler preservare la (relativa) autonomia e (l'articolata) complessità di una "disciplina" (dominio teorico, ambito di riflessione, ...) sui generis come l'estetica (superfluo sottolineare l'esistenza di dislocazioni intermedie fra questi due ipotetici points de repère). Abbiamo scritto intenzionalmente "disciplina" fra virgolette piegando ai nostri sensi una battuta di Gérard Genette (riferibile in primis alla Poetica), ambiguamente ironica quanto basta, che si trova nel capitolo conclusivo dell'Introduzione all'architesto: "una 'disciplina' (mettiamo delle virgolette contestatrici) non è, o almeno non deve essere, una istituzione, ma solo uno strumento, un mezzo transitorio, presto abolito nella sua fine, la quale può decisamente non essere che un altro mezzo (un'altra 'disciplina') che a sua volta... e così via: l'essenziale è progredire. Ne abbiamo già utilizzate alcune di cui le risparmio il necrologio" (Pratiche 1981: 72).

 

In ambito neofenomenologico, per fare un esempio che ci è prossimo, sembra accreditato uno slittamento prospettico tale per cui l'estetica tende a essere intesa, per molti versi, come meta-estetica. "In realtà - ha scritto Anceschi negli Specchi della poesia esponendo criticamente, nei modi che gli son propri, le peculiari condizioni di pensabilità della disciplina - una riflessione estetica (anche autonoma) ha sempre accompagnato il pensiero umano". La problematizzazione anceschiana del nesso estetica-filosofia e l'insistita rivendicazione dell'autonomia disciplinare della prima vanno lette sullo sfondo di una serrata critica dei "sistemi chiusi". Si comprende meglio, in tal senso, la singolare recisione di certe pronunce negative: "l'estetica non è un capitolo della filosofia"; "non è un capitolo particolare di un prescritto discorso generale". Per converso, l'estetica "ha fame di esperienza viva, e non può ignorare ormai la complessità in cui le sue realtà si articolano, vivono, si mettono in contrasto tra loro"; "essa trova in se stessa per sue vie proprie i propri principî, le proprie strutture, le proprie strategie, rispondendo a precisi stimoli problematici che si pongono per se stessi nei movimenti della cultura". Dunque, e conclusivamente: "L'estetica, se è qualche cosa, ha una propria autonomia teorica; costruisce essa stessa le proprie procedure, affronta liberamente i propri problemi, questo almeno si prospetta nella nuova fenomenologia critica, mentre eventualmente il rapporto tra i due campi (estetica e filosofia) si proporrà come un movimento logico continuamente en avant di autonomia-relazione, in cui l'estetica porterà i suoi risultati come un contributo nutriente al corpo di un discorso generale che si presenterà come una enciclopedia filosofica sempre aperta nel suo farsi" (Einaudi 1989: 18, 133, 193).

 

In un diverso ambito, quello di una filosofia critica di marca neokantiana, si muovono le note tesi di Emilio Garroni secondo cui se è vero che l'arte non è definibile in senso categoriale o come classe di oggetti specifici, allora un suo recupero è possibile solo in quanto venga assunta come "un'esperienza esemplare del senso dell'esperienza". Ne deriva il convincimento - per alcuni versi già implicito nei suoi scritti precedenti, ma compiutamente sviluppato in un volume di alta e partecipata intensità teoretica, Senso e paradosso (Laterza 1986) -, "che l'estetica abbia a che fare sostanzialmente non tanto con l'arte nella sua contingenza, quanto con una condizione di possibilità dell'esperienza. - il 'senso' appunto, la condizione di 'dover far senso' - che ciò che chiamiamo 'arte' esibisce esemplarmente. L'estetica non è una disciplina specialistica, ma è filosofia senz'altro" [cors. nostri]. Come riassume lo stesso Garroni in una chiara sintesi colloquiale del suo percorso di ricerca apparsa una decina di anni fa su "Leggere" (dic. '90-genn. '91: 70-2), dopo l'abbandono "del mito di un'estetica scientifica più o meno semiologica" (con relativo tributo pagato, negli anni dello strutturalismo trionfante, alla linguistica di Saussure e di Hjelmslev) l'approdo kantiano fu decisivo: "Come in Kant l'estetica in realtà non è mai stata, come spesso si è creduto, una cosiddetta 'filosofia speciale', che si occuperebbe di quel particolare oggetto specifico che sarebbe l''arte'. Si occupa dell'esperienza in genere - vale a dire: dell'orizzonte non esperibile delle esperienze determinate - attraverso l'arte". Che è appunto il motivo di fondo ulteriormente sviluppato in Estetica. Uno sguardo-attraverso (Garzanti 1992).

 

Un certo modo di leggere Baumgarten (modo per altro che un'attento spoglio critico del corpus baumgarteniano, ora disponibile anche in edizioni italiane curatissime, non pare suffragare - e si veda in proposito la puntuale chiarificazione di Emilio Mattioli sul n.18 di "Studi di estetica") - sembrerebbe aver conferito ulteriore impulso e garanzia storiografica ad approcci fondativi già da qualche tempo orientati a declinare l'estetica (sostanzialmente se non addirittura esclusivamente) come teoria generale della "sensibilità", della corporeità, dell'esperienza in genere (cui non di rado si associa una più o meno accentuata delegittimazione, sul piano teorico, non solo della "filosofia dell'arte", ma alla fine dell'autonomia dell'estetica in quanto tale). Alcuni esiti di tali approcci hanno portato, infatti, com'è avvenuto più di recente, a tradurre l'estetica di fatto in percettologia, altri invece a riscontrarne la tangenzialità con la filosofia dei sentimenti, ecc. (col che non si vuol per nulla oscurare la peculiarità e diversità dei rispettivi contesti, sfondi, intenzioni).

 

Tale percorso fondativo non esclude, dunque, varianti assai argomentate e anche di notevole impatto suggestivo ma che, a volte, paiono rischiare l'irrigidimento delle formulazioni assolutizzanti. Per Maurizio Ferraris (Estetica sperimentale, in L'altra estetica, Einaudi 2001), l'estetica non è la filosofia dell'arte, (ciò che diciamo "arte", infatti, è solo un "contenitore informe", e dunque, "a rigore esistono solo le opere, singole e individuali" [cors. nostri], oltre naturalmente a "un insieme aperto di tecniche"): ne deriva, fra l'altro, la proposta "di riconoscere nell'estetica anzitutto tre caratteristiche fondamentali, la vaghezza, l'esemplarità e la teleologia, in quanto elementi costitutivi della referenza". L'estetica ci consente nella vaghezza "il rapporto col mondo", ci dà qualcosa, come il "senso dell'essere" che la logica non è in grado di offrirci, fa sì che noi assumiamo l'esemplare non nel senso della generalità logica, bensì come "una copia qualunque, ma determinata, capace di giungere a una generalità proprio attraverso la sua unicità di fatto", attraverso la sua individualità sensibile: "l'esempio appartiene anzitutto ai sensi, è sensibile, senza per questo, ovviamente, essere distinto; è un determinato che rende chiara la rappresentazione di un mero determinato". Circa la terza caratteristica dell'estetica, la teleologia, essa si fonda sul riconoscimento che "non ci sono esempi se non per una coscienza intenzionale [...]. Senza la proiezione di un fine, un gran numero di cose ci risulterebbero incomprensibili, e questo è il nesso che congiunge, nella sfera della sensibilità, la vaghezza e l'esemplarità in quanto ingredienti essenziali della referenza..." (39, 45-7).

 

Se, invece, l'estetica s'intreccia con una teoria della sensibilità e una filosofia dei sentimenti, allora avrà a che fare in qualche modo con un "originario senso espressivo", con una "forza" (Valéry contro Pascal, ripreso da Franzini in Filosofia dei sentimenti, B. Mondadori 1997), anche comunicativa, che sembrerebbe fondare la conoscenza e la ragione. Sulla linea di uno sviluppo fenomenologico, troviamo, in prima conclusione, che il sentimento "non è una realtà fattuale astrattamente unitaria bensì un insieme complesso di atti e manifestazioni fenomeniche"; (42) troviamo, altresì, un richiamo insistito alla intenzionalità "fungente", ovvero (sulla scia dell'ultimo Husserl) sempre attiva nella sua operatività vitale che si esercita "anche al di qua della chiarezza, distinzione ed evidenza dell'atto conoscitivo" (con le parole di Merleau-Ponty: "l'unità naturale antepredicativa del mondo e della nostra vita...") (50). Per un verso, dunque, si ha qui una franca rivalutazione delle potenzialità insite nel precategoriale, con annessa "consapevole inversione" del processo gnoseologico adottato da Baumgarten sulle orme di Leibniz, cosicché ora andrebbero messi in chiaro "non i limiti dell'esperienza sensibile", ma al contrario "quelli dell'attività categoriale", attività la cui strumentazione non è sempre in grado di "afferrare la profondità del sensibile, il rapporto sintetico radicato nell'esteticità qualitativa delle cose stesse e in cui anche il giudizio trova il suo fondamento" (301). Per altri versi, si nega l'identificazione dell'estetica con la "filosofia dei sentimenti" e nel contempo si afferma ("quasi come ipotesi") che "si è avuto, e si ha, estetica soltanto dove il sentimento [...] la sfera del sentire, l'esperienza delle varie modalità della sensazione, è divenuto tema e orizzonte della filosofia" (16). Infine, e per ulteriori aspetti, si ammette che "Quando si parla di 'vita estetica', o, più in generale, di 'estetica', si sottolinea l'aspetto esperienziale, e al tempo stesso conoscitivo, del senso comune, in cui il pensiero è radicato nell'intuizione sensibile e ha in sé possibilità che sono precategoriali ed extraconoscitive. L'estetica non solo, dunque, non si identifica con la filosofia dell'arte ma neppure ha un territorio ontologico 'proprio' dal momento che, anche nei suoi legami storici, e non estemporanei con il mondo dell'arte, trova la sua specificità nella connessione tra il mondo intuitivo e il pensiero che esso genera. L'idea estetica di Kant può divenire il simbolo dell'estetica stessa..." (306).

 

Dunque, scontando la parzialità di questi cenni scorciati, ci si può chiedere, sul piano metodologico e meta-estetico, che implicazioni comportino formulazioni del tipo: l'estetica è solo A o B o C ... (ovvero non è A ... bensì B...), dove le lettere stanno per: filosofia in generale / filosofia dell'arte / filosofia dei sentimenti / percettologia / et cetera), oppure l'estetica è anche A, B, C, ... (ovvero non è solo A ... bensì anche B...). Per Mattioli (ma si presume che l'opinione sia generalmente condivisa dagli anceschiani) "un'estetica che sia anche filosofia dell'arte, ma per nulla soltanto filosofia dell'arte, e aperta pluralità dei rapporti interdisciplinari sembra oggi proponibile ed anzi richiesta dalla cultura contemporanea. Una estetica sicuramente non riducibile all'estetismo, ma capace di riflettere sull'arte nella molteplicità delle sue relazioni, senza peraltro dissolverne la specificità". Senza che ciò significhi incorrere in un "circolo vizioso" che comporti una invariante implicita, una definizione non storica dell'arte, alla quale ricondurre le variabili esplicite, le definizioni storiche dell'arte (Estetica e arte, in Ripensare l'Estetica, "Aesthetica Preprint", 58, 2000: 43-4, cors. nostri).
E certo, a seconda delle diverse prospettive, l'estetica potrà apparire volta a volta (e con intonazioni diverse) come "una nebulosa" (Formaggio), "una costellazione" (Russo), "una rete" (Anceschi), "una disciplinare liminare" (Garroni)... Concezione, quest'ultima, che richiederebbe approfondimenti critici in ordine al concetto di apertura interdisciplinare ("Un'estetica dell'apertura [...] è in ogni caso l'esito di una riflessione ardua, capace di illuminare aspetti salienti della storia del problema, per esempio proprio nella forma di un 'limite nullo', la cui acquisizione critica è tutt'altro che un'ovvietà", Senso è paradosso, cit.: 55).
Se, dunque, l'estetica è da intendersi (anche) come una filosofia dell'arte, allora, e fra l'altro, restano aperte, oltre alle questioni più generali relative al rapporto estetica-filosofia, alcune problematiche fondamentali sul piano teorico-storiografico: la "definibilità" dell'arte, il "sistema delle (belle) arti", la cosiddetta "nascita dell'estetica", l'identità, immanenza e trascendenza dell'opera, e via di seguito. Senza trascurare l'impatto interdisciplinare che tutto ciò comporta.

 

Sul tema delle nuove potenzialità interdisciplinari si veda, è un esempio, il recente interesse per i rapporti fra Cultural Studies, estetica, scienze umane (argomento di una fitta giornata di studio organizzata in marzo, a Torino, da Roberto Salizzoni e dalla SIE) oppure, è un altro esempio, si considerino le proposizioni di Michael Kelly, Editor dell'Encyclopedia of Aesthetics, (Oxford U.P. 1998), esposte fin nelle prime righe della "Preface": "Aesthetics is uniquely situated to serve as a meeting place for numerous academic disciplines and cultural traditions". L'estetica, dunque, è intesa qui come una branca della filosofia che ha a che fare principalmente con l'arte, ma anche, al tempo stesso, come una parte di altre discipline che, in diverso modo, riflettono sull'arte nei suoi contesti naturali e culturali.

Significativamente, nei grossi tomi dell'Encyclopedia, trovano notevole spazio anche le idee di critici e di artisti, pur scontando, come avverte Kelly, il disinteresse se non proprio la tradizionale diffidenza di molti fra essi per l'estetica filosofica (vedi la battuta di Barnett Newman, protagonista dello Hard edge e della New abstraction, secondo cui "l'estetica sta agli artisti come l'ornitologia sta agli uccelli"). Ma, del resto, non è stato Ernst Gombrich a ricordarci fin dalle prime righe della sua Storia dell'arte che (paradosso solo apparente) "non esiste l'Arte con la A maiuscola", e che "esistono solo gli artisti...".

Questa dichiarazione di marca antiessenzialista potrebbe trovare nuovo senso alla luce delle ulteriori affermazioni di Kelly: per gli estetologi contemporanei - scrive - "l'estetica è l'analisi filosofica delle credenze, concetti e teorie implicite nella creazione, esperienza, interpretazione o critica dell'arte. Sarebbe per loro strano includere il bello come uno dei loro principali temi di ricerca; essi parlano molto più spesso di problemi di comprensione o rapprensentazione in riferimento ad opere d'arte. Tuttavia molti estetologi sia analitici anglosassoni che continentali (britannici esclusi) sarebbero d'accordo sul fatto che non esistono principi universali dell'arte e che l'arte può essere definita alla fin fine soltanto in termini storici (seppure filosofici). Di fatto sia gli estetici analitici che i continentali negli ultimi cinquant'anni sono stati dominati dall'anti-essenzialismo" (xi, cors. nostro).

 

Ci si può chiedere se un accentuato ridimensionamento o una radicale negazione dell'autonomia dell'estetica e in parallelo (o in subordine) anche della filosofia dell'arte non comporti di fatto più problemi teorici di quanti non riesca a risolverne. E certo la "questione della questione dell'arte" (Dominique Chateau), ovvero, per dirla in termini anceschiani, il modo con cui si affronta la "domanda sulla domanda" (che cosa è l'arte?) implica diversi scenari teorici e sistemi di riferimento, dando luogo così a molteplici alternative. E certo, ancora, il porsi domande di questo tipo comporta poi, secondo certe pronunce degli analitici, l'obbligo di chiarire in che modo è possibile capire se abbiamo o meno trovato la risposta giusta. Aggiungiamo: se esiste (o possiamo pretendere che esista) una risposta giusta in relazione al sistema di riferimenti prescelto. Ad esempio, a proposito del concetto di (opera d') arte si può parlare di "concetto aperto" al modo di Weitz e su una linea di apparente ortodossia in riferimento alla ben note tesi contenute nelle Philosophische Untersuchungen di Wittgenstein, oppure ci si può schierare, come fa Genette ne L'Opera dell'arte, tra coloro "che non si lasciano scoraggiare dalla critica 'wittgeisteiniana', e che, camminando, pretendono di provare la possibilità del movimento". Dunque, la contestazione dei criteri di definizione concettuale dell'opera (dell'arte) sostenuti da Weitz diviene condizione necessaria per riaffermarne la definibilità, ad esempio in questi termini: "Ancora una volta, la frequente difficoltà di riconoscere come tale un'opera d'arte singola non implica alcuna impossibilità di definire l'opera d'arte in generale. Un criterio definitorio non è necessariamente un criterio di riconoscimento" (Clueb 1998-1999: I, 5; II, 157). Il che, per altri versi, da un lato implica un paradosso di ordine (onto)logico ammesso da Genette (I, 113), ossia che per definizione gli oggetti d'immanenza allografici (ad esempio: l'Infinito di Leopardi) non sono, come i concetti, degli "universali", bensì degli "individui ideali", ma dall'altro ci riporta al tema generale della definizione, e delle sue condizioni.
Per un nominalista rigoroso come Goodman, su un versante diverso e opposto rispetto alla collocazione vagamente "platonista" di Genette, il "calcolo degli individui" sostituisce il "calcolo delle classi", e ciò comporta importanti conseguenze sul piano logico-matematico - fra cui l'obbligo di non ricorrere al calcolo dei predicati di secondo ordine (alla teoria degli insiemi) limitandosi a un programma finitista - ma anche sul piano della filosofia del linguaggio e, naturalmente, dell'estetica: "La tesi generale di Goodman è che non esistono proprietà simboliche capaci di distinguere le opere d'arte dalle altre espressioni del sistema", esistono caso mai oggetti che esibiscono proprietà, tratti simbolici (sintomi): densità sintattica e semantica, saturazione sintattica, esemplificazionalità. "In breve, non esiste una differentia specifica, definibile in termini linguistici, tra estetico e non-estetico" (cfr. F. Brioschi, Introduzione a Goodman, cit.: xxvi-vii).

Per altri versi, si pone il problema dei modelli sistematici ("chiusi" o "aperti") di riferimento. Senza scomodare necessariamente il "teorema di incompletezza" (1931) di Gödel secondo cui perfino un sistema assiomatico come la matematica non è un "sistema chiuso" e autoconsistente (in quanto è sempre possibile trovare una proposizione appartente al sistema che è vera, ma non dimostrabile né refutabile in base agli assiomi del sistema stesso) resta che, secondo la testimonianza di Richard Rorty, molti filosofi analitici contemporanei concordano con Nelson Goodman, che fu collega di Quine ad Harvard, sul fatto che "non esiste un unico modo di essere del mondo, ma soltanto svariate sue descrizioni alternative. Alcune servono ad alcuni scopi, altre ad altri, ma nessuna è più vicina alla realtà o più lontana di un'altra. L'idea di Goodman ricorda l'approccio alla filosofia di John Dewey, in particolare la sua volontà di trascurare il rapporto tra pensiero e realtà per concentrarsi sull'utilità pragmatica di modi alternativi di pensare". Quella che potremo chiamare la "questione estetica" riaffiora qui non solo per il richiamo esterno a un certo pragmatismo (la rilettura di Art as Experience potrebbe forse essere ancora ricca di promesse) ma pure in certe posizioni estreme, "iper-quineane": ad esempio agli occhi di Donald Davidson le cosiddette "scienze dure" non appaiono poi così "speciali"; Davidson, infatti, - lo diciamo di nuovo con le parole di Rorty - "è meno sicuro di Quine che le affermazioni sulle particelle elementari siano più strettamente correlate alla realtà delle affermazioni sui valori morali ed estetici" (Quine. La verità non è mai un dogma, Suppl. a "La Stampa", 17 febbr. 2001).

 

Alla fine, e tanto più nella prospettiva di metodo che ci caratterizza, non si avverte proprio la necessità di rinunciare né all'estetica né alla filosofia dell'arte né al loro inevitabile incrocio. Certo, il differenziarsi dei vari ambiti e piani della riflessione (speculativo-sistematica, teorico-prammatica, normativa.) richiede analisi molto fini, ma in ogni caso la distinzione fra estetica e filosofia dell'arte non può non tener conto della "porosità" dei due domini. Come sostengono pianamente gli autori di Questions d'esthétique (Puf 2000: 1), "non si possono esaminare le questioni della filosofia dell'arte senza penetrare nel campo dell'estetica; nel contempo, il dominio artistico rappresenta un campo privilegiato in riferimento alla comprensione o all'applicazione delle questioni di estetica. Né l'arte né le opere d'arte costituiscono nondimeno l'oggetto esclusivo dell'estetica". Aggiungono una specificazione: "filosofica".

Parafrasando una famosa battuta dell'autore di Due dogmi dell'empirismo, riferita alla filosofia della scienza, potremmo forse concludere, a nostra volta, che "la filosofia dell'arte è filosofia quanto basta".

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