24/2001
Il
presente numero di "Studi di estetica" esce con qualche ritardo sui
tempi previsti, inconveniente non vogliamo dire fisiologico, ma certo
non infrequente nella vita di molte riviste specialistiche che, per
comprensibili ragioni, spesso faticano a mantenere la regolarità delle
scadenze (quella di fine anno, in particolare). Ce ne scusiamo con gli
abbonati vecchi e nuovi, confidando di compensare il difetto di
tempestività con la qualità e l'interesse dei lavori pubblicati. "L'estetica
tra filosofia dell'arte e filosofia della sensibilità": questo il
tema generale dibattuto nel giro d'opinioni che concluse il citato
seminario "banfiano". Dove emersero, com'è naturale, spunti di
riflessione diversamente orientati - segno non minore, fra i tanti,
della perdurante vitalità del campo. Qui riprendiamo il tema nel
tentativo di abbozzare qualche ulteriore considerazione; e con
l'avvertenza che con l'espressione "sintomi dell'estetica",
ricalco parafrastico (forzato quanto suggestivo) della formula
("sintomi dell'estetico") coniata da Nelson Goodman nel suo noto I
linguaggi dell'arte, si vuol alludere al senso non probatorio, bensì
semplicemente indiziario, che la nozione di "sintomo" assume
nell'uso goodmaniano: "Un sintomo non è una condizione necessaria né
sufficiente dell'esperienza estetica [...]. Tuttavia, se i [...]
sintomi enunciati sono singolarmente non sufficienti né necessari
all'esperienza estetica, essi possono essere congiuntamente
sufficienti e disgiuntamente necessari..." (Est 1998: 217-19). In
ambito neofenomenologico, per fare un esempio che ci è prossimo, sembra
accreditato uno slittamento prospettico tale per cui l'estetica tende
a essere intesa, per molti versi, come meta-estetica. "In realtà -
ha scritto Anceschi negli Specchi della poesia esponendo criticamente,
nei modi che gli son propri, le peculiari condizioni di pensabilità
della disciplina - una riflessione estetica (anche autonoma) ha sempre
accompagnato il pensiero umano". La problematizzazione anceschiana del
nesso estetica-filosofia e l'insistita rivendicazione dell'autonomia
disciplinare della prima vanno lette sullo sfondo di una serrata critica
dei "sistemi chiusi". Si comprende meglio, in tal senso, la
singolare recisione di certe pronunce negative: "l'estetica non è
un capitolo della filosofia"; "non è un capitolo particolare di un
prescritto discorso generale". Per converso, l'estetica "ha fame
di esperienza viva, e non può ignorare ormai la complessità in cui le
sue realtà si articolano, vivono, si mettono in contrasto tra loro";
"essa trova in se stessa per sue vie proprie i propri principî, le
proprie strutture, le proprie strategie, rispondendo a precisi stimoli
problematici che si pongono per se stessi nei movimenti della
cultura". Dunque, e conclusivamente: "L'estetica, se è qualche
cosa, ha una propria autonomia teorica; costruisce essa stessa le
proprie procedure, affronta liberamente i propri problemi, questo almeno
si prospetta nella nuova fenomenologia critica, mentre eventualmente il
rapporto tra i due campi (estetica e filosofia) si proporrà come un
movimento logico continuamente en avant di autonomia-relazione, in cui
l'estetica porterà i suoi risultati come un contributo nutriente al
corpo di un discorso generale che si presenterà come una enciclopedia
filosofica sempre aperta nel suo farsi" (Einaudi 1989: 18, 133, 193). In
un diverso ambito, quello di una filosofia critica di marca neokantiana,
si muovono le note tesi di Emilio Garroni secondo cui se è vero che
l'arte non è definibile in senso categoriale o come classe di oggetti
specifici, allora un suo recupero è possibile solo in quanto venga
assunta come "un'esperienza esemplare del senso
dell'esperienza". Ne deriva il convincimento - per alcuni versi già
implicito nei suoi scritti precedenti, ma compiutamente sviluppato in un
volume di alta e partecipata intensità teoretica, Senso e paradosso (Laterza
1986) -, "che l'estetica abbia a che fare sostanzialmente non
tanto con l'arte nella sua contingenza, quanto con una condizione di
possibilità dell'esperienza. - il 'senso' appunto, la
condizione di 'dover far senso' - che ciò che chiamiamo
'arte' esibisce esemplarmente. L'estetica non è una disciplina
specialistica, ma è filosofia senz'altro" [cors. nostri]. Come
riassume lo stesso Garroni in una chiara sintesi colloquiale del suo
percorso di ricerca apparsa una decina di anni fa su "Leggere" (dic.
'90-genn. '91: 70-2), dopo l'abbandono "del mito di
un'estetica scientifica più o meno semiologica" (con relativo
tributo pagato, negli anni dello strutturalismo trionfante, alla
linguistica di Saussure e di Hjelmslev) l'approdo kantiano fu
decisivo: "Come in Kant l'estetica in realtà non è mai stata, come
spesso si è creduto, una cosiddetta 'filosofia speciale', che si
occuperebbe di quel particolare oggetto specifico che sarebbe l''arte'.
Si occupa dell'esperienza in genere - vale a dire: dell'orizzonte
non esperibile delle esperienze determinate - attraverso l'arte".
Che è appunto il motivo di fondo ulteriormente sviluppato in Estetica.
Uno sguardo-attraverso (Garzanti 1992). Un
certo modo di leggere Baumgarten (modo per altro che un'attento
spoglio critico del corpus baumgarteniano, ora disponibile anche in
edizioni italiane curatissime, non pare suffragare - e si veda in
proposito la puntuale chiarificazione di Emilio Mattioli sul n.18 di
"Studi di estetica") - sembrerebbe aver conferito ulteriore
impulso e garanzia storiografica ad approcci fondativi già da qualche
tempo orientati a declinare l'estetica (sostanzialmente se non
addirittura esclusivamente) come teoria generale della "sensibilità",
della corporeità, dell'esperienza in genere (cui non di rado si
associa una più o meno accentuata delegittimazione, sul piano teorico,
non solo della "filosofia dell'arte", ma alla fine
dell'autonomia dell'estetica in quanto tale). Alcuni esiti di tali
approcci hanno portato, infatti, com'è avvenuto più di recente, a
tradurre l'estetica di fatto in percettologia, altri invece a
riscontrarne la tangenzialità con la filosofia dei sentimenti, ecc.
(col che non si vuol per nulla oscurare la peculiarità e diversità dei
rispettivi contesti, sfondi, intenzioni). Tale
percorso fondativo non esclude, dunque, varianti assai argomentate e
anche di notevole impatto suggestivo ma che, a volte, paiono rischiare
l'irrigidimento delle formulazioni assolutizzanti. Per Maurizio
Ferraris (Estetica sperimentale, in L'altra estetica, Einaudi 2001),
l'estetica non è la filosofia dell'arte, (ciò che diciamo
"arte", infatti, è solo un "contenitore informe", e dunque,
"a rigore esistono solo le opere, singole e individuali" [cors.
nostri], oltre naturalmente a "un insieme aperto di tecniche"): ne
deriva, fra l'altro, la proposta "di riconoscere nell'estetica
anzitutto tre caratteristiche fondamentali, la vaghezza, l'esemplarità
e la teleologia, in quanto elementi costitutivi della referenza".
L'estetica ci consente nella vaghezza "il rapporto col mondo", ci
dà qualcosa, come il "senso dell'essere" che la logica non è in
grado di offrirci, fa sì che noi assumiamo l'esemplare non nel senso
della generalità logica, bensì come "una copia qualunque, ma
determinata, capace di giungere a una generalità proprio attraverso la
sua unicità di fatto", attraverso la sua individualità sensibile:
"l'esempio appartiene anzitutto ai sensi, è sensibile, senza per
questo, ovviamente, essere distinto; è un determinato che rende chiara
la rappresentazione di un mero determinato". Circa la terza
caratteristica dell'estetica, la teleologia, essa si fonda sul
riconoscimento che "non ci sono esempi se non per una coscienza
intenzionale [...]. Senza la proiezione di un fine, un gran numero di
cose ci risulterebbero incomprensibili, e questo è il nesso che
congiunge, nella sfera della sensibilità, la vaghezza e l'esemplarità
in quanto ingredienti essenziali della referenza..." (39, 45-7). Se,
invece, l'estetica s'intreccia con una teoria della sensibilità e
una filosofia dei sentimenti, allora avrà a che fare in qualche modo
con un "originario senso espressivo", con una "forza" (Valéry
contro Pascal, ripreso da Franzini in Filosofia dei sentimenti, B.
Mondadori 1997), anche comunicativa, che sembrerebbe fondare la
conoscenza e la ragione. Sulla linea di uno sviluppo fenomenologico,
troviamo, in prima conclusione, che il sentimento "non è una realtà
fattuale astrattamente unitaria bensì un insieme complesso di atti e
manifestazioni fenomeniche"; (42) troviamo, altresì, un richiamo
insistito alla intenzionalità "fungente", ovvero (sulla scia
dell'ultimo Husserl) sempre attiva nella sua operatività vitale che
si esercita "anche al di qua della chiarezza, distinzione ed evidenza
dell'atto conoscitivo" (con le parole di Merleau-Ponty: "l'unità
naturale antepredicativa del mondo e della nostra vita...") (50). Per
un verso, dunque, si ha qui una franca rivalutazione delle potenzialità
insite nel precategoriale, con annessa "consapevole inversione" del
processo gnoseologico adottato da Baumgarten sulle orme di Leibniz,
cosicché ora andrebbero messi in chiaro "non i limiti
dell'esperienza sensibile", ma al contrario "quelli dell'attività
categoriale", attività la cui strumentazione non è sempre in grado
di "afferrare la profondità del sensibile, il rapporto sintetico
radicato nell'esteticità qualitativa delle cose stesse e in cui anche
il giudizio trova il suo fondamento" (301). Per altri versi, si nega
l'identificazione dell'estetica con la "filosofia dei
sentimenti" e nel contempo si afferma ("quasi come ipotesi") che
"si è avuto, e si ha, estetica soltanto dove il sentimento [...] la
sfera del sentire, l'esperienza delle varie modalità della
sensazione, è divenuto tema e orizzonte della filosofia" (16).
Infine, e per ulteriori aspetti, si ammette che "Quando si parla di
'vita estetica', o, più in generale, di 'estetica', si
sottolinea l'aspetto esperienziale, e al tempo stesso conoscitivo, del
senso comune, in cui il pensiero è radicato nell'intuizione sensibile
e ha in sé possibilità che sono precategoriali ed extraconoscitive.
L'estetica non solo, dunque, non si identifica con la filosofia
dell'arte ma neppure ha un territorio ontologico 'proprio' dal
momento che, anche nei suoi legami storici, e non estemporanei con il
mondo dell'arte, trova la sua specificità nella connessione tra il
mondo intuitivo e il pensiero che esso genera. L'idea estetica di Kant
può divenire il simbolo dell'estetica stessa..." (306). Dunque,
scontando la parzialità di questi cenni scorciati, ci si può chiedere,
sul piano metodologico e meta-estetico, che implicazioni comportino
formulazioni del tipo: l'estetica è solo A o B o C ... (ovvero non è
A ... bensì B...), dove le lettere stanno per: filosofia in generale /
filosofia dell'arte / filosofia dei sentimenti / percettologia / et
cetera), oppure l'estetica è anche A, B, C, ... (ovvero non è solo A
... bensì anche B...). Per Mattioli (ma si presume che l'opinione sia
generalmente condivisa dagli anceschiani) "un'estetica che sia anche
filosofia dell'arte, ma per nulla soltanto filosofia dell'arte, e
aperta pluralità dei rapporti interdisciplinari sembra oggi proponibile
ed anzi richiesta dalla cultura contemporanea. Una estetica sicuramente
non riducibile all'estetismo, ma capace di riflettere sull'arte
nella molteplicità delle sue relazioni, senza peraltro dissolverne la
specificità". Senza che ciò significhi incorrere in un "circolo
vizioso" che comporti una invariante implicita, una definizione non
storica dell'arte, alla quale ricondurre le variabili esplicite, le
definizioni storiche dell'arte (Estetica e arte, in Ripensare
l'Estetica, "Aesthetica Preprint", 58, 2000: 43-4, cors. nostri). Sul
tema delle nuove potenzialità interdisciplinari si veda, è un esempio,
il recente interesse per i rapporti fra Cultural Studies, estetica,
scienze umane (argomento di una fitta giornata di studio organizzata in
marzo, a Torino, da Roberto Salizzoni e dalla SIE) oppure, è un altro
esempio, si considerino le proposizioni di Michael Kelly, Editor dell'Encyclopedia
of Aesthetics, (Oxford U.P. 1998), esposte fin nelle prime righe della
"Preface": "Aesthetics is uniquely situated to serve as a meeting
place for numerous academic disciplines and cultural traditions".
L'estetica, dunque, è intesa qui come una branca della filosofia che
ha a che fare principalmente con l'arte, ma anche, al tempo stesso,
come una parte di altre discipline che, in diverso modo, riflettono
sull'arte nei suoi contesti naturali e culturali. Significativamente,
nei grossi tomi dell'Encyclopedia, trovano notevole spazio anche le
idee di critici e di artisti, pur scontando, come avverte Kelly, il
disinteresse se non proprio la tradizionale diffidenza di molti fra essi
per l'estetica filosofica (vedi la battuta di Barnett Newman,
protagonista dello Hard edge e della New abstraction, secondo cui
"l'estetica sta agli artisti come l'ornitologia sta agli
uccelli"). Ma, del resto, non è stato Ernst Gombrich a ricordarci fin
dalle prime righe della sua Storia dell'arte che (paradosso solo
apparente) "non esiste l'Arte con la A maiuscola", e che
"esistono solo gli artisti...". Questa
dichiarazione di marca antiessenzialista potrebbe trovare nuovo senso
alla luce delle ulteriori affermazioni di Kelly: per gli estetologi
contemporanei - scrive - "l'estetica è l'analisi filosofica
delle credenze, concetti e teorie implicite nella creazione, esperienza,
interpretazione o critica dell'arte. Sarebbe per loro strano includere
il bello come uno dei loro principali temi di ricerca; essi parlano
molto più spesso di problemi di comprensione o rapprensentazione in
riferimento ad opere d'arte. Tuttavia molti estetologi sia analitici
anglosassoni che continentali (britannici esclusi) sarebbero d'accordo
sul fatto che non esistono principi universali dell'arte e che
l'arte può essere definita alla fin fine soltanto in termini storici
(seppure filosofici). Di fatto sia gli estetici analitici che i
continentali negli ultimi cinquant'anni sono stati dominati
dall'anti-essenzialismo" (xi, cors. nostro). Ci
si può chiedere se un accentuato ridimensionamento o una radicale
negazione dell'autonomia dell'estetica e in parallelo (o in
subordine) anche della filosofia dell'arte non comporti di fatto più
problemi teorici di quanti non riesca a risolverne. E certo la
"questione della questione dell'arte" (Dominique Chateau), ovvero,
per dirla in termini anceschiani, il modo con cui si affronta la
"domanda sulla domanda" (che cosa è l'arte?) implica diversi
scenari teorici e sistemi di riferimento, dando luogo così a molteplici
alternative. E certo, ancora, il porsi domande di questo tipo comporta
poi, secondo certe pronunce degli analitici, l'obbligo di chiarire in
che modo è possibile capire se abbiamo o meno trovato la risposta
giusta. Aggiungiamo: se esiste (o possiamo pretendere che esista) una
risposta giusta in relazione al sistema di riferimenti prescelto. Ad
esempio, a proposito del concetto di (opera d') arte si può parlare
di "concetto aperto" al modo di Weitz e su una linea di apparente
ortodossia in riferimento alla ben note tesi contenute nelle
Philosophische Untersuchungen di Wittgenstein, oppure ci si può
schierare, come fa Genette ne L'Opera dell'arte, tra coloro "che
non si lasciano scoraggiare dalla critica 'wittgeisteiniana', e che,
camminando, pretendono di provare la possibilità del movimento".
Dunque, la contestazione dei criteri di definizione concettuale
dell'opera (dell'arte) sostenuti da Weitz diviene condizione
necessaria per riaffermarne la definibilità, ad esempio in questi
termini: "Ancora una volta, la frequente difficoltà di riconoscere
come tale un'opera d'arte singola non implica alcuna impossibilità
di definire l'opera d'arte in generale. Un criterio definitorio non
è necessariamente un criterio di riconoscimento" (Clueb 1998-1999: I,
5; II, 157). Il che, per altri versi, da un lato implica un paradosso di
ordine (onto)logico ammesso da Genette (I, 113), ossia che per
definizione gli oggetti d'immanenza allografici (ad esempio:
l'Infinito di Leopardi) non sono, come i concetti, degli
"universali", bensì degli "individui ideali", ma dall'altro
ci riporta al tema generale della definizione, e delle sue condizioni. Per
altri versi, si pone il problema dei modelli sistematici ("chiusi" o
"aperti") di riferimento. Senza scomodare necessariamente il
"teorema di incompletezza" (1931) di Gödel secondo cui perfino un
sistema assiomatico come la matematica non è un "sistema chiuso" e
autoconsistente (in quanto è sempre possibile trovare una proposizione
appartente al sistema che è vera, ma non dimostrabile né refutabile in
base agli assiomi del sistema stesso) resta che, secondo la
testimonianza di Richard Rorty, molti filosofi analitici contemporanei
concordano con Nelson Goodman, che fu collega di Quine ad Harvard, sul
fatto che "non esiste un unico modo di essere del mondo, ma soltanto
svariate sue descrizioni alternative. Alcune servono ad alcuni scopi,
altre ad altri, ma nessuna è più vicina alla realtà o più lontana di
un'altra. L'idea di Goodman ricorda l'approccio alla filosofia di
John Dewey, in particolare la sua volontà di trascurare il rapporto tra
pensiero e realtà per concentrarsi sull'utilità pragmatica di modi
alternativi di pensare". Quella che potremo chiamare la "questione
estetica" riaffiora qui non solo per il richiamo esterno a un certo
pragmatismo (la rilettura di Art as Experience potrebbe forse essere
ancora ricca di promesse) ma pure in certe posizioni estreme, "iper-quineane":
ad esempio agli occhi di Donald Davidson le cosiddette "scienze
dure" non appaiono poi così "speciali"; Davidson, infatti, - lo
diciamo di nuovo con le parole di Rorty - "è meno sicuro di Quine
che le affermazioni sulle particelle elementari siano più strettamente
correlate alla realtà delle affermazioni sui valori morali ed
estetici" (Quine. La verità non è mai un dogma, Suppl. a "La
Stampa", 17 febbr. 2001). Alla
fine, e tanto più nella prospettiva di metodo che ci caratterizza, non
si avverte proprio la necessità di rinunciare né all'estetica né
alla filosofia dell'arte né al loro inevitabile incrocio. Certo, il
differenziarsi dei vari ambiti e piani della riflessione (speculativo-sistematica,
teorico-prammatica, normativa.) richiede analisi molto fini, ma in
ogni caso la distinzione fra estetica e filosofia dell'arte non può
non tener conto della "porosità" dei due domini. Come sostengono
pianamente gli autori di Questions d'esthétique (Puf 2000: 1),
"non si possono esaminare le questioni della filosofia dell'arte
senza penetrare nel campo dell'estetica; nel contempo, il dominio
artistico rappresenta un campo privilegiato in riferimento alla
comprensione o all'applicazione delle questioni di estetica. Né
l'arte né le opere d'arte costituiscono nondimeno l'oggetto
esclusivo dell'estetica". Aggiungono una specificazione:
"filosofica". Parafrasando
una famosa battuta dell'autore di Due dogmi dell'empirismo,
riferita alla filosofia della scienza, potremmo forse concludere, a
nostra volta, che "la filosofia dell'arte è filosofia quanto
basta". |
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