23/2001
Siamo
circondati di poteri immateriali, che non si limitano a quelli che
chiamiamo valori spirituali, come una dottrina religiosa. È un potere
immateriale anche quello delle radici quadrate, la cui legge severa
sopravvive ai secoli e ai decreti non solo di Stalin, ma persino del
papa. E tra questi poteri annovererei anche quello della tradizione
letteraria, vale a dire del complesso di testi che l'umanità ha
prodotto e produce non per fini pratici (come tenere registri,
annotare leggi e formule scientifiche, verbalizzare sedute o
provvedere orari ferroviari) ma piuttosto gratia
sui, per amore di se stessi - e che si leggono per diletto,
elevazione spirituale, allargamento delle conoscenze, magari per puro
passatempo, senza che nessuno ci obblighi a farlo (se si prescinde
dagli obblighi scolastici). È
vero che gli oggetti letterari sono immateriali solo a metà, perché
si incarnano in veicoli che di solito sono cartacei. Ma un tempo si
incarnavano nella voce di chi ricordava una tradizione orale, oppure
su pietra, e oggi discutiamo sul futuro degli e-books, che dovrebbero
permetterci di leggere sia una raccolta di barzellette che la Divina
Commedia su uno schermo a cristalli liquidi. Avvertirò subito che non
intendo intrattenermi qui sulla vexata
quaestio del libro elettronico. Io appartengo naturalmente a
coloro che un romanzo o un poema preferiscono leggerselo su un volume
cartaceo, di cui mi ricorderò persino le orecchie e la stazzonatura,
ma mi dicono che esiste una generazione digitale di hackers
che, non avendo mai letto un libro in vita propria, ora con l'e-book
hanno avvicinato e gustato per la prima volta il Don
Chisciotte. Tanto di guadagnato per la loro mente e tanto di
perduto per la loro vista. Se le generazioni future arriveranno ad
avere un buon rapporto (psicologico e fisico) con l'e-book, il
potere del Don Chisciotte
non cambierà. A
che cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura?
Basterebbe rispondere, come ho già fatto, che è un bene che si
consuma gratia sui, e
dunque non deve servire a nulla. Ma una visione così disincarnata del
piacere letterario rischia di ridurre la letteratura allo jogging o
alla pratica delle parole crociate - i quali oltretutto servono
entrambi a qualcosa, vuoi alla salute del corpo, vuoi all'educazione
lessicale. Quello di cui intendo parlare è quindi una serie di
funzioni che la letteratura riveste per la nostra vita individuale e
la vita sociale. La
letteratura tiene in esercizio la lingua Tiene
anzitutto in esercizio la lingua come patrimonio collettivo. La
lingua, per definizione, va dove essa vuole, nessun decreto
dall'alto, né da parte della politica, né da parte
dell'accademia, può fermare il suo cammino e farla deviare verso
situazioni che si pretendano ottimali. Il fascismo si è sforzato di
farci dire mescita invece di bar, coda di gallo invece di cocktail,
rete invece di goal, auto pubblica invece di taxi, e la lingua non gli
ha dato retta. Poi ha suggerito una mostruosità lessicale, un
arcaismo inaccettabile come autista in luogo di chauffeur, e la lingua
lo ha accettato. Forse perché evitava un suono che l'italiano non
conosce. Ha mantenuto taxi, ma gradatamente, almeno nel parlato, lo ha
fatto diventare tassì. La
lingua va dove vuole ma è sensibile ai suggerimenti della
letteratura. Senza Dante non ci sarebbe stato un italiano unificato.
Dante nel De vulgari eloquentia
analizza e condanna i vari dialetti italiani, si propone di
foggiare un nuovo volgare illustre, nessuno avrebbe scommesso su un
tale atto di superbia, eppure con la Commedia
vince la sua partita. È vero che per diventare lingua parlata da
tutti, il volgare dantesco ha impiegato alcuni secoli, ma se ce l'ha
fatta è perché la comunità di coloro che credevano alla letteratura
ha continuato a ispirarsi a quel modello. E se non ci fosse stato quel
modello non si sarebbe forse neppure fatta strada l'idea di una unità
politica. Forse è per questo che Bossi non parla un volgare illustre. Venti
anni di colli fatali, destini immarcescibili, eventi imprescindibili e
aratri che tracciano il solco non hanno alfine lasciato alcuna traccia
nell'italiano corrente, e ve ne hanno lasciato molta di più certi
ardimenti, all'epoca inaccettabili, della prosa futurista. E se
qualcuno oggi lamenta il trionfo di un italiano medio diffusosi
attraverso la televisione, non dimentichiamo che l'appello a un
italiano medio, nella sua forma più nobile, è passato attraverso la
prosa piana e accettabile di Manzoni e poi di Svevo o di Moravia. La
letteratura, contribuendo a formare la lingua, crea identità e
comunità. Ho parlato prima di Dante, ma pensiamo a cosa sarebbe stata
la civiltà greca senza Omero, l'identità tedesca senza la
traduzione della Bibbia fatta da Lutero, la lingua russa senza Puskin,
la civiltà indiana senza i suoi poemi di fondazione. Ma
la pratica letteraria tiene in esercizio anche la nostra lingua
individuale. Oggi molti piangono la nascita di un linguaggio
neo-telegrafico che si sta imponendo attraverso la posta elettronica e
i messaggini dei cellulari, dove si dice ti amo anche con una sigla;
ma non dimentichiamo che gli stessi giovani che inviano messaggi in
questa nuova stenografia sono, almeno in parte, gli stessi che
affollano quelle nuove cattedrali del libro che sono le grandi
librerie multipiano, e che, anche solo sfogliando senza comperare,
vengono a contatto con stili letterari colti ed elaborati, a cui i
loro genitori, e certamente i loro nonni, non erano stati esposti. Possiamo
certo dire che, maggioranza rispetto ai lettori delle generazioni
precedenti, questi giovani sono minoranza rispetto ai sei miliardi di
abitanti del pianeta; né sono così idealista da pensare che a
immense folle che mancano di pane e medicinali potrà portare sollievo
la letteratura. Ma una osservazione vorrei fare: che gli sciagurati
che, riunendosi in bande senza scopo, uccidono lanciando pietre dal
cavalcavia o danno fuoco a una bambina, chiunque poi essi siano, non
diventano tali perché sono stati corrotti dal Newspeak del computer
(nemmeno al computer hanno accesso) ma perché restano esclusi
dall'universo del libro e da quei luoghi dove, attraverso
l'educazione e la discussione, arriverebbero a loro riverberi di un
mondo di valori che arriva da e rinvia a libri. La
lettura delle opere letterarie ci obbliga a un esercizio della fedeltà
e del rispetto nella libertà dell'interpretazione C'è
una pericolosa eresia critica, tipica dei nostri giorni, per cui di
un'opera letteraria si può fare quello che si vuole, leggendovi
quanto i nostri più incontrollabili impulsi ci suggeriscono. Non è
vero. Le opere letterarie ci invitano alla libertà
dell'interpretazione, perché ci propongono un discorso dai molti
piani di lettura e ci pongono di fronte alle ambiguità e del
linguaggio e della vita. Ma per poter procedere in questo gioco, per
cui ogni generazione legge le opere letterarie in modo diverso,
occorre essere mossi da un profondo rispetto verso quella che io ho
altrove chiamato l'intenzione del testo. Da
un lato ci pare che il mondo sia un libro «chiuso» che consente una
sola lettura, perché se c'è una legge che governa la gravitazione
planetaria, o è quella giusta o è quella sbagliata; rispetto a esso
l'universo di un libro ci appare come un mondo aperto. Ma cerchiamo
di avvicinarci con buon senso a un'opera narrativa e confrontiamo le
proposizioni che possiamo enunciare intorno a essa con quelle che
pronunciamo intorno al mondo. Del mondo, noi diciamo che le leggi
della gravitazione universale sono quelle enunciate da Newton, o che
è vero che Napoleone è morto a Sant'Elena il 5 maggio 1821. E
tuttavia, se abbiamo una mente aperta, saremo sempre disposti a
rivedere le nostre convinzioni, il giorno che la scienza enuncerà una
diversa formulazione delle grandi leggi cosmiche, o uno storico troverà
documenti inediti che provino che Napoleone era morto su di una nave
bonapartista mentre tentava la fuga. Invece, rispetto al mondo dei
libri, proposizioni come Sherlock
Holmes era scapolo, Cappuccetto
Rosso viene divorata dal lupo ma poi è liberata dal cacciatore, Anna
Karenina si uccide, rimarranno vere in eterno e non potranno mai
essere confutate da nessuno. Ci sono persone che negano che Gesù
fosse figlio di Dio, altre che ne mettono addirittura in forse
l'esistenza storica, altri che sostengono che è la Via, la Verità
e la Vita, altri ancora che ritengono che il Messia sia ancora da
venire e noi, comunque la pensiamo, trattiamo con rispetto queste
opinioni. Ma nessuno tratterà con rispetto chi affermi che Amleto ha
sposato Ofelia o che Superman non è Clark Kent. I
testi letterari non solo ci dicono esplicitamente quello che non
potremo mai più revocare in dubbio ma, a differenza del mondo, ci
segnalano con sovrana autorità ciò che in essi va assunto come
rilevante e ciò che non
possiamo prendere come spunto per libere interpretazioni. Alla
fine del capitolo 35 de Il
rosso e il nero è detto che Julien Sorel si reca alla chiesa e
spara su Madame de Rênal. Dopo aver osservato che il suo braccio
tremava, Stendhal ci dice che Julien tira un primo colpo e manca la
sua vittima, poi ne tira un secondo e la signora cade. Ora immaginiamo
di sostenere che il braccio che tremava, e il fatto che il primo colpo
sia andato a vuoto, mostrano che Julien non si fosse recato alla
chiesa con un fermo proposito omicida, bensì trascinato da un
disordinato impulso passionale. A questa interpretazione se ne può
opporre un'altra, che Julien avesse sin dall'inizio il proposito
di uccidere, ma fosse un codardo. La partitura autorizza entrambe le
interpretazioni. Si
dà il caso che qualcuno si sia chiesto dove fosse finita la prima
palla. Interessante quesito per i devoti stendhaliani. Così come i
devoti joyciani vanno a Dublino a ricercare la farmacia dove Bloom
avrebbe comperato una saponetta in forma di limone (e per accontentare
questi pellegrini quella farmacia, che tra l'altro esiste davvero,
si è messa a produrre di nuovo quel tipo di saponette), si può
immaginare dei devoti stendhaliani che cercano di individuare in
questo mondo e Verrières e la chiesa, esplorandone poi ogni colonna
per trovarvi il buco prodotto dalla palla. Si tratterebbe di un
episodio di fanship,
abbastanza divertente. Ma supponiamo ora che un critico voglia basare
tutta la sua interpretazione del romanzo sulla sorte di quella palla
perduta. Coi tempi che corrono non è inverosimile, anche perché c'è
stato chi ha basato tutta la lettura della Lettera
rubata di Poe sulla posizione della lettera rispetto al caminetto.
Ma se Poe rende esplicitamente pertinente la posizione della lettera,
Stendhal ci dice che di quella prima palla non si sa più nulla e
quindi la esclude persino dal novero delle entità fittizie. Se si
rimane fedeli al testo stendhaliano quella palla è definitivamente
perduta, e dove sia finita è narrativamente irrilevante. Invece il
non-detto di Armance circa
la possibile impotenza del protagonista spinge il lettore a frenetiche
ipotesi per completare quello che il racconto non dice, e ne I
promessi sposi una frase come «la sventurata rispose» non dice
sino a qual punto Gertrude si sia poi spinta nel suo peccato con
Egidio, ma l'alone fosco delle ipotesi indotte nel lettore fa parte
del fascino di questa pagina così pudicamente ellittica. All'inizio
dei Tre moschettieri si
dice che d'Artagnan arriva a Meung su un ronzino di quattordici anni
il primo lunedì di aprile del 1625. Se si ha un buon programma sul
proprio computer si può immediatamente stabilire che quel lunedì era
il 7 aprile. Una squisitezza per trivia
games tra devoti dumasiani. Si può impostare su questo dato una
sovra-interpretazione del romanzo? Direi di no, perché la partitura
non rende rilevante quel dato. Il corso del romanzo non rende neppure
rilevante che l'arrivo di d'Artagnan avvenisse di lunedì -
mentre rende rilevante che fosse di aprile (si ricordi che, per celare
il fatto che la sua splendida tracolla era ricamata solo sul davanti,
Porthos indossava un lungo mantello di velluto cremisi che la stagione
non giustificava - a tal punto che il moschettiere doveva fingere di
essere raffreddato). Queste
potranno sembrare a molti delle ovvietà, ma queste ovvietà (spesso
dimenticate) ci dicono che il mondo della letteratura è tale da
ispirarci la fiducia che ci sono alcune proposizioni che non possono
essere revocate in dubbio, e ci offre quindi un modello, immaginario
sin che volete, di verità. Questa verità letterale si riverbera su
quelle che chiameremo verità ermeneutiche: perché a chi ci dicesse
che d'Artagnan era trascinato da una passione omosessuale nei
confronti di Porthos, che l'Innominato è stato indotto al male da
un irrefrenabile complesso d'Edipo, che la Monaca di Monza, come
certi politici d'oggi potrebbero suggerire, era stata corrotta dal
comunismo, o che Panurge fa quello che fa in odio al nascente
capitalismo, potremo sempre rispondere che nei testi a cui ci si
riferisce non è possibile trovare alcuna affermazione, alcun
suggerimento, alcuna insinuazione che ci permetta di abbandonarci a
queste derive interpretative. Il mondo della letteratura è un
universo nel quale è possibile fare dei test
per stabilire se un lettore ha il senso della realtà o è preda delle
sue allucinazioni. I
personaggi migrano Hanno
migrato da testo a testo (e attraverso adattamenti in sostanze
diverse, da libro a film o a balletto, o dalla tradizione orale al
libro) sia i personaggi del mito che quelli della narrativa «laica»,
Ulisse, Giasone, Artù o Parsifal, Alice, Pinocchio, d'Artagnan.
Ora, quando parliamo di personaggi del genere, ci riferiamo a una
partitura precisa? Prendiamo il caso di Cappuccetto Rosso. Le due
partiture più celebri, quella di Perrault e quella dei Grimm,
differiscono profondamente. Nella prima la bambina viene divorata dal
lupo e la storia finisce lì, ispirando dunque severe riflessioni
moralistiche sui rischi dell'imprudenza. Nella seconda arriva il
cacciatore, che uccide il lupo, e riporta alla vita la fanciulla e la
nonna. Lieto fine. Ora
immaginiamo una mamma che racconti la fiaba ai suoi bambini e si fermi
quando il lupo divora Cappuccetto. I bambini protesterebbero e
vorrebbero la «vera» storia, in cui Cappuccetto risuscita, e poco
varrebbe se la mamma si dichiarasse filologa di stretta osservanza. I
bambini conoscono una «vera» storia in cui veramente Cappuccetto
risuscita e questa storia è più affine alla versione Grimm che a
quella Perrault. Tuttavia non coincide con la partitura dei Grimm,
perché lascia cadere una serie di fatti minori - su cui tra
l'altro Perrault e i Grimm divergono, come ad esempio che tipo di
doni Cappuccetto reca alla nonna, e su cui i bambini sono ampiamente
disposti a transigere, perché si appellano a un individuo ben più
schematico, fluttuante nella tradizione, instanziato in molteplici
partiture, molte delle quali orali. Così
Cappuccetto Rosso, d'Artagnan, Ulisse o Madame Bovary diventano
individui che vivono al di fuori delle partiture originali, e su di
essi possono pretendere di fare affermazioni vere anche persone che
non hanno mai letto la partitura archetipa. Ancora prima di leggere
l'Edipo Re io avevo
appreso che Edipo sposa Giocasta. Per quanto siano fluttuanti, queste
partiture non sono inverificabili: chiunque dicesse che Madame Bovary
si riconcilia con Charles e vive con lui felice e contenta
incontrerebbe la disapprovazione delle persone di sano buon senso,
come se esse si fossero collettivamente accordate sul personaggio di
Emma. Dove
stanno questi individui fluttuanti? Dipende dal formato della nostra
ontologia, se essa ospiti anche le radici quadrate, la lingua etrusca
e due idee della Santissima Trinità, quella romana per cui (almeno
sino all'altro ieri) lo Spirito Santo procede dal Padre e
dal Figlio (ex patre Filioque
procedit), e quella bizantina, per cui lo Spirito procede solo dal
Padre. Ma questa regione ha statuto molto impreciso ed ospita entità
di diverso spessore, perché anche il Patriarca di Costantinopoli
(disposto ad azzuffarsi col papa sul filioque)
sarebbe d'accordo col papa (almeno spero) nel dire che è vero che
Sherlock Holmes abitava in Baker Street, e che Clark Kent è la stessa
persona di Superman. Tuttavia
è stato scritto in infiniti romanzi o poemi che - invento degli
esempi a caso - Asdrubale uccide Corinna o Teofrasto ama follemente
Teodolinda, eppure nessuno pensa che si possano fare affermazioni vere
al riguardo, perché si tratta di personaggi sfortunati o nati male, i
quali non hanno migrato né sono entrati a far parte della memoria
collettiva. Perché è più vero, in questo mondo, che Amleto non
sposa Ofelia che non il fatto che Teofrasto abbia sposato Teodolinda?
Qual è la porzione di questo mondo in cui abitano Amleto e Ofelia e
non lo sfortunato Teofrasto? Questi
personaggi sono diventati in qualche modo collettivamente veri perché
la comunità ha fatto su di essi, nel corso dei secoli o degli anni,
degli investimenti passionali. Noi facciamo investimenti passionali
individuali su tante fantasie che possiamo elaborare a occhi aperti o
nel dormiveglia. Noi possiamo realmente commuoverci pensando alla
morte di una persona che amiamo, o risentire reazioni fisiche
immaginandoci mentre abbiamo con essa un rapporto erotico, e
parimenti, per processi di identificazione o di proiezione, possiamo
commuoverci sulla sorte di Emma Bovary o, come è avvenuto ad alcune
generazioni, essere trascinati al suicidio dalle sventure di Werther o
di Jacopo Ortis. Ma, quando qualcuno ci chiedesse se veramente la
persona, di cui abbiamo immaginato la morte, è morta, risponderemmo
di no, che si è trattato di una nostra privatissima fantasia. Invece
quando ci si chiede se veramente Werther si è ucciso rispondiamo di sì,
e la fantasia di cui parliamo non è più privata, è una realtà
culturale su cui l'intera comunità dei lettori conviene. Tanto che
giudicheremmo folle chi si uccidesse solo perché ha immaginato (ben
sapendo che si trattava di un parto della sua immaginazione) che la
sua amata è morta, mentre cerchiamo di giustificare in qualche modo
chi si sia ucciso per il suicidio di Werther, pur sapendo che si
trattava di personaggio fittizio. Dovremo
ben trovare uno spazio dell'universo dove questi personaggi vivono e
determinano i nostri comportamenti, così che li eleggiamo a modello
di vita, nostra altrui, e ci comprendiamo benissimo quando diciamo che
qualcuno ha il complesso di Edipo, un appetito gargantuesco, un
comportamento donchisciottesco, ha la gelosia di un otello, un dubbio
amletico, è un dongiovanni inguaribile, una perpetua. E questo, in
letteratura, non accade solo coi personaggi, ma anche con le
situazioni, e gli oggetti. Perché le donne che vanno e vengono per la
stanza parlando di Michelangelo, i cocci aguzzi di bottiglia infissi
nella muraglia, nel sole che abbaglia, le buone cose di pessimo gusto,
la paura che ci viene mostrata in un pugno di polvere, la siepe, le
chiare, fresche e dolci acque, il fiero pasto, diventano metafore
ossessive, pronte a ripeterci a ogni istante chi siamo, cosa vogliamo,
dove andiamo, oppure ciò che non siamo e ciò che non vogliamo? Queste
entità della letteratura sono tra noi. Non erano lì dall'eternità
come (forse) le radici quadrate e il teorema di Pitagora, ma ormai,
dopo che sono state create dalla letteratura e nutrite dai nostri
investimenti passionali, esse ci sono e con esse dobbiamo fare i
conti. Diciamo pure, per evitare discussioni ontologiche e
metafisiche, che esse esistono come abiti culturali, disposizioni
sociali. Ma anche il tabù universale dell'incesto è un abito
culturale, una idea, una disposizione, eppure ha avuto la forza di
muovere i destini delle società umane. Ipertesti
aperti e storie finite Pensate,
voi leggevate con passione Guerra
e Pace, chiedendovi se Natascia avrebbe finalmente ceduto alle
lusinghe di Anatolio, se quel meraviglioso principe Andrea sarebbe
davvero morto, se Pierre avrebbe avuto il coraggio di sparare su
Napoleone, ed ora finalmente potrete rifare il vostro Tolstoj,
conferendo ad Andrea una lunga vita felice, facendo di Pierre il
liberatore dell'Europa, e non solo, riconciliando Emma Bovary col
suo povero Charles, madre felice e pacificata; e potrete decidere che
Cappuccetto Rosso entra nel bosco e v'incontra Pinocchio, oppure
viene rapita dalla matrigna e messa a lavorare col nome di Cenerentola
al servizio di Scarlett O'Hara, o che essa incontra nel bosco un
donatore magico che si chiama Vladimir Ja. Propp, il quale le regala
un anello incantato, grazie al quale essa scoprirà, alle radici del
baniano sacro dei Tughs, l'Aleph, quel punto da cui si vede tutto
l'universo, Anna Karenina che non muore sotto il treno, perché le
ferrovie russe a scartamento ridotto, sotto il governo di Putin,
funzionano peggio dei sommergibili, e, lontano lontano, al di là
dello specchio di Alice, Jorge Luis Borges che ricorda a Funes el
memorioso di non scordarsi di restituire Guerra
e pace alla biblioteca di Babele.... Sarebbe
male? No, perché anche questo la letteratura ha già fatto, e prima
degli ipertesti, con il progetto di Le
Livre di Mallarmé, i cadaveri squisiti dei surrealisti, i
miliardi di poemi di Queneau, i libri mobili della seconda
avanguardia. Ed è questo che ha fatto la jam
session jazz. Ma il fatto che esista la pratica della jam
session, che muta ogni sera il destino di un tema, non ci esenta,
né ci scoraggia, dall'andare nelle sale di concerto dove la Sonata
in Si bemolle minore opera trentacinque finirà ogni sera sempre
nello stesso modo. Qualcuno
ha detto che a giocare con meccanismi ipertestuali si sfugge a due
forme di repressione, l'obbedienza a vicende decise da un altro e la
condanna alla divisione sociale tra coloro che scrivono e coloro che
leggono. Questo mi pare una sciocchezza, ma certamente giocare
creativamente con gli ipertesti, modificando le storie e contribuendo
a crearne delle nuove, può essere un'attività appassionante, un
bell'esercizio da praticare a scuola, una nuova forma di scrittura
molto affine alla jam session.
Credo che potrà essere bello, e anche educativo, provare a modificare
le storie che esistono già, così come sarebbe interessante
trascrivere Chopin per mandolino: servirebbe ad aguzzare l'ingegno
musicale, e a capire perché il timbro del pianoforte era così
consustanziale alla sonata in si bemolle minore. Può educare al gusto
visivo e all'esplorazione delle forme tentare dei collages
componendo insieme lacerti del Matrimonio
della Vergine, delle Demoiselles
d'Avignon e dell'ultima storia dei Pokemon. In fondo molti
grandi artisti lo hanno fatto. Ma
questi giochi non sostituiscono la vera funzione educativa della
letteratura, funzione educativa che non si riduce alla trasmissione di
idee morali, buone o cattive che siano, o alla formazione del senso
del bello. Jurij
Lotman, ne La cultura e
l'esplosione riprende la famosa raccomandazione di Cechov, per
cui se in un racconto o in un dramma viene mostrato all'inizio un
fucile appeso alla parete, prima della fine quel fucile dovrà
sparare. Lotman ci lascia capire che il vero problema non è se poi il
fucile sparerà davvero. Proprio il non sapere se sparerà o no,
conferisce significatività all'intreccio. Leggere un racconto vuole
anche dire essere presi da una tensione, da uno spasimo. Scoprire alla
fine che il fucile ha sparato, o meno, non assume il semplice valore
di una notizia. È la scoperta che le cose sono andate, e per sempre,
in un certo modo, al di là dei desideri del lettore. Il lettore deve
accettare questa frustrazione, e attraverso di essa provare il brivido
del Destino. Se si potesse decidere del destino dei personaggi,
sarebbe come andare al banco di una agenzia di viaggi: «Allora dove
vuole trovare la Balena, alle Samoa o alle Aleutine? E quando? E vuole
ucciderla lei, o lascia fare a Quiqueg?» La vera lezione di Moby
Dick è che la Balena va dove vuole. Pensate
alla descrizione che Hugo fa della battaglia di Waterloo ne I
miserabili. A differenza di Stendhal, che descrive la battaglia
con gli occhi di Fabrizio, che ci sta dentro e non capisce che cosa
stia avvenendo, Hugo la descrive con gli occhi di Dio, la vede
dall'alto: sa che se Napoleone avesse saputo che oltre la cresta
dell'altopiano di Mont-Saint-Jean c'era un dirupo (ma la sua guida
non glielo aveva detto), i corazzieri di Milhaud non sarebbero
rovinati ai piedi dell'esercito inglese; che se il pastorello che
faceva da guida a Bülow avesse suggerito un percorso diverso,
l'armata prussiana non sarebbe giunta in tempo a decidere le sorti
della battaglia. Con
una struttura ipertestuale potremmo riscrivere la battaglia di
Waterloo facendo sì che arrivino i francesi di Grouchy invece che i
tedeschi di Blücher, e ci sono dei war
games che permettono di farlo, e con gran divertimento. Ma la
tragica grandezza di quelle pagine di Hugo sta nel fatto che (al di là
dei nostri desideri) le cose vanno invece come vanno. La bellezza di Guerra
e pace è che l'agonia del principe Andrea si conclude con la
morte, per quanto ci dispiaccia. La dolorosa meraviglia che ci procura
ogni rilettura dei grandi tragici è che i loro eroi, che avrebbero
potuto sfuggire a un fato atroce, per debolezza o cecità non
capiscono a cosa vanno incontro, e precipitano nell'abisso che si
sono scavati con le proprie mani. D'altra parte Hugo lo dice, dopo
averci mostrato quali altre opportunità Napoleone a Waterloo avrebbe
potuto cogliere: «Era possibile che Napoleone vincesse quella
battaglia? Rispondiamo di no. Perché? A causa di Wellington? a causa
di Blücher? No. A causa di Dio.» Questo
ci dicono tutte le grandi storie, caso mai sostituendo, a Dio, il
fato, o le leggi inesorabili della vita. La funzione dei racconti «immodificabili»
è proprio questa: contro ogni nostro desiderio di cambiare il
destino, ci fanno toccar con mano l'impossibilità di cambiarlo. E
così facendo, qualsiasi vicenda raccontino, raccontano anche la
nostra, e per questo li leggiamo e li amiamo. Della loro severa
lezione «repressiva» abbiamo bisogno. La narrativa ipertestuale ci
può educare alla libertà e alla creatività. È bene, ma non è
tutto. I racconti «già fatti» ci insegnano anche a morire. Credo
che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni
principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma ora non mi
vengono in mente. * Il
presente saggio è una versione rivista e ampliata dell'intervento
di chiusura della IV edizione
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