23/2001
Ci sono momenti speciali, veri
"turning points", nei quali la riflessione critica torna a
impegnarsi sui grandi temi della cultura e dell'esistenza. La fine
appena trascorsa del secolo, anzi del millennio, è uno di questi
momenti che ci invita a ripercorrere alcuni secoli di storia del
pensiero per cercare di capire meglio dove ci stiamo dirigendo. Anche
il grande forum del MLA del dicembre 1996 si poneva, insieme a tanti
altri quesiti, un interrogativo di questo genere: "What was the
future? What will the past be? Reading
and writing (at) the Turn of the Century", dove lo at era posto tra parentesi per indicare sia che la riflessione
verteva sulla svolta
epocale, sia che era contestualizzata nella
svolta epocale. Inoltre, se si pone attenzione all'uso dei verbi
nella citazione appena fatta, si può cogliere l'enfasi sul
rovesciamento fra il passato e il futuro, come se ci dovessimo
proiettare sul passato per ricostruirlo da capo, mentre il futuro
sembra essere già stato, o almeno immaginato. Mi viene in mente
un'immagine di inizio Novecento, un famoso disegno di Max Beerbohm,
dove un'esile figura indica un punto non meglio definito in
lontananza dove si staglia, su uno sfondo grigio, un enorme punto
interrogativo. Atteggiamento ben diverso, per esempio, da quello di
Pierre Lévy, che parlando in un convegno recente a Bologna del
cyberspazio esaltava la nuova universalità, senza confini né limiti
di spazio o di tempo, un'universalità viva che si può raggiungere
attraverso questa nuova fase di comunicazione globale. Guardando retrospettivamente anche
solo la riflessione del secolo ventesimo, nel campo delle cosiddette
scienze umane, si può tentare di seguire le varianti di alcune
coordinate costanti, per vedere che cosa stiamo vivendo. Per esempio,
che differenza c'è fra l'attuale dimensione virtuale dell'arte
e della letteratura e quella finzionale della quale si è tanto
parlato, almeno negli ultimi due secoli? E c'è veramente ragione di
temere i nuovi media e l'avvento dell'ipertesto, in questa nuova
versione della querelle fra
apocalittici e integrati? Inoltre, che cosa significa questo passaggio
da letteratura a cultura e storia che si è verificato con il
predominio dei cultural studies,
con notevoli cambiamenti sia interni all'istituzione (cambiamento
dei curricula e del canone), sia esterni, nel rapporto fra letteratura
e società? E infine, che cosa significa il passaggio (da noi
suggerito con il titolo di questo volume The
Why of Literature) al perché
della letteratura, dal focus precedente che era piuttosto sul che cosa
o sul come (what o how is literature)?
Questo punto rimanda a un altro
argomento importante di discussione, cioè la riflessione non solo
sull'utilità (e utilizzo) della letteratura, ma sulla sua
temporalità, la domanda cioè se la letteratura trascende il tempo,
la storia, con un suo nucleo di verità atemporale, oppure se, stando
nel tempo, ne segua le vicende, sia cioè cultura e faccia parte,
senza una speciale posizione di privilegio, delle svariate "cultural
transactions". L'amico Marshall Brown, a Bologna
di recente per una serie di seminari, mi diceva a questo proposito:
"Ci sono due visioni differenti del rapporto fra storia e
letteratura, o meglio due modi diversi di intendere la 'cultura
storica'. Contro l'opinione prevalente nei cultural studies che, per comprendere un testo bisogna comprendere
il contesto che lo ha prodotto (mettendo quindi prima il contesto del
testo), io sostengo che i testi vengono prima, e che le culture sono
modellate, formate, dalle idee, dalle intuizioni dei testi. Anzi, le
opere importanti sono sempre beyond,
oltre il loro momento, underway
toward a new age". La nostra è stata senza dubbio
un'epoca di domande, di continuo questioning,
almeno la fase fra gli anni '70 e gli anni '90 del Novecento,
dominata dalla decostruzione e dall'ermeneutica negativa. Con
ragioni spesso diverse, di tipo ontologico, per esempio, sul mistero
insondabile della creazione artistica, o con ragioni di tipo storico:
è il caso di Geoffrey Hartman, o di George Steiner, e di tutti coloro
che si sono chiesti come è stato possibile l'Olocausto, quale
cultura lo ha prodotto, e se è possibile che ci siano ancora cultura
e poesia dopo Auschwitz. Tante domande senza risposta. Forse, allora, ha avuto ragione
Paul Hernadi - quando ci ha proposto il tema del Simposio congiunto
fra Università di Bologna e University of California, da cui è nato
successivamente questo volume - a volere spostare l'accento dallo what allo why,
chiedendosi, e chiedendo a una serie di colleghi e amici (studiosi non
solo di letteratura, ma di estetica, filosofia, antropologia), quali
sono le ragioni per cui, ancora oggi, si produce, si analizza, si
utilizza, ci si rivolge, insomma, alla letteratura. Ma è il nome che
ancora dobbiamo usare, quello di letteratura, o non è più
sufficiente a coprire il fenomeno contemporaneo? E i generi letterari
esistono ancora come tali? E che modificazioni hanno prodotto le
discussioni sul canone e sul nuovo tipo di interdisciplinarismo? Su
questo tema Geoffrey Hartman ha recentemente parlato, in modo
paradossale e polemico, di "esteticidio", interrogandosi non solo
sulla funzione degli studiosi di letteratura, ma anche sulla
sopravvivenza della letteratura stessa. Harold Bloom, nella sua difesa
ormai disperata, non solo del canone occidentale, ma anche della
"lettura come pratica solitaria anziché come impresa educativa" (Come
si legge un libro, e perché, Milano, Rizzoli, 2000, p. 14),
sostiene - seguendo Nietzsche e Stevens - che, se la letteratura e
la critica hanno una funzione nella nostra epoca, questa consiste
"nel rivolgersi al lettore solitario, a chi legge per se stesso e
non per presunti interessi che dovrebbero trascendere l'io" (ibidem, p. 16). E, dettando una serie di principi serious-trivial
degni del maestro Wilde, per rispondere al suo "Why"
ci invita tutti al recupero dell'ironia perché "alla fine del
sentiero dell'ironia smarrita vi è un ultimo pollice, oltre il
quale il valore letterario sarà irrecuperabile" (ibidem,
p. 21). Un altro grande della critica del nostro tempo, Frank Kermode,
in un libro appena uscito,
Shakespeare's Language, tesse l'elogio della letteratura
intesa come l'incanto che l'insieme delle frasi e dei versi del
poeta producono sul lettore: una fascinazione che solo la grande
lingua creativa può dare. È allora vero che la letteratura è
inutile e che "la poesia non fa accadere nulla", come scriveva
provocatoriamente W.H. Auden negli anni '40? Qualche anno fa, parlando di storia
della letteratura, Stephen Greenblatt (che con il suo New
Historicism ha contribuito alla svolta che stiamo vivendo)
sosteneva: "La letteratura ha una sua efficacia funzionale proprio
in quanto essa è portatrice delle tracce di coloro i quali non sono
più altro che fantasmi; perché ha l'abilità perturbante di dare
l'impressione di essere stata scritta, come diceva San Paolo, 'per
noi'; perché è sempre riuscita a eludere il confine fra la vita e
la morte". Abbiamo chiesto all'amico Greenblatt di far parte della
nostra comunità agapica, concedendoci di tradurre il suo saggio, e
siamo lieti di averlo inserito in questo volume. Così come abbiamo
accolto volentieri il saggio di Remo Ceserani su "Lo stato di salute
della letteratura" e quello di Umberto Eco "Su alcune funzioni
della letteratura": entrambi fungevano da chair
a due sessioni del nostro convegno. Il dibattito sullo status del
"campo della produzione letteraria" si è allargato enormemente
negli ultimi tempi, aprendo nuove prospettive a quella che era, in
anni passati, la discussione sulla cosiddetta "industria
culturale". L'intervento di Ceserani ha provocato un vivace
dibattito sulle pagine del Manifesto, ma il suo messaggio, ancora una volta, si risolve in un
invito alla presa di coscienza della necessità di una buona,
consapevole "lettura" dei testi e del mondo come testo. Anche Eco
cerca di rispondere alla domanda: "A che cosa serve questo bene
immateriale che è la letteratura?", ed espone una serie di funzioni
che, a suo parere, la letteratura riveste per la nostra vita sociale e
individuale. Riprendendo l'analogia libro-mondo, Eco sostiene la
necessità di trovare un equilibrio fra la libertà
dell'interpretazione e il rispetto che dobbiamo all'intenzione del
testo, e ribadisce il ruolo "educativo" della letteratura, ma in
un senso diverso da quello di Bloom, individuando attraverso una serie
di esempi suggestivi possibili funzioni, sia a livello ipertestuale
che tradizionale, correlate e, per certi versi, complementari. La letteratura, afferma Hernadi, ha
costituito in passato - e forse lo può ancora - un modello per la
società, attraverso una svariata tipologia di "diversità
intrecciate", diversità naturali, culturali e personali. Quindi, più
che un inutile reperto fossile, la letteratura può vedersi come una
fenice che risorge sempre dalle sue ceneri. I saggi qui raccolti tentano di
rispondere, in modo diverso, alle domande che Paul Hernadi ci ha
suggerito: Adriana Cavarero rivive il mito di Sheherazade e del
fascino della narrazione proiettandolo in un terzo millennio
multimediale e multisensoriale; Armando Pajalich affronta
l'argomento proposto dal punto di vista del post-colonialismo; Paolo
Bagni amplia il tema del "perché" alle circostanze, intese come
gamma di luoghi, della letteratura; Daniela Carpi pone a confronto il
soggetto "letteratura" con quelli di cultura e differenza; J.
Hillis Miller riprende un tema a lui caro come quello della
"responsabilità" nel sistema universitario americano; Vita
Fortunati rivisita il dibattito sul canone da una prospettiva
italiana; e Paolo Valesio, infine, ritorna all'esperienza della
poesia, come esperienza dell'esilio, il luogo 'utopico' dove
l'estetico e l'etico si fondono, poesia come trans-poesia, eredità
profonda della nostra umanità. Nel suo saggio la domanda sul perché
della letteratura si trasforma nella domanda, metafisica ed
esistenziale, sul perché della poesia, una domanda che non pretende
risposta. E il significato, o la ragione della sua permanenza, rimane
affidato a una performance
misteriosa o, come commentano alla fine Margaret Brose e Hayden White,
scritto sull'acqua. Tutti affrontano in modo molto
intenso il tema generale, ma forse nessuno dà risposte sicure e
definitive alle domande fondamentali, o almeno non offre risposte
dirette. La ragione sta forse nell'impossibilità stessa del
rispondere, insita nello statuto della letteratura; o nel nostro
essere sempre, al riguardo, "sulla soglia" - lo ha scritto anche
Edmond Jabès. Nel bisogno di scrivere, che hanno certe persone,
"senza sapere che cosa" - lo ha ammesso Paul Valéry. Oppure,
come aveva suggerito Sergio Givone rispondendo alla nostra domanda con
un'altra domanda, potremmo dire: "E se fosse senza perché?". |
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