23/2001
Studi di Estetica
III serie
anno XXVIII, fasc. II


Giovanna Franci

Presentazione  

 

Ci sono momenti speciali, veri "turning points", nei quali la riflessione critica torna a impegnarsi sui grandi temi della cultura e dell'esistenza. La fine appena trascorsa del secolo, anzi del millennio, è uno di questi momenti che ci invita a ripercorrere alcuni secoli di storia del pensiero per cercare di capire meglio dove ci stiamo dirigendo. Anche il grande forum del MLA del dicembre 1996 si poneva, insieme a tanti altri quesiti, un interrogativo di questo genere: "What was the future? What will the past be? Reading and writing (at) the Turn of the Century", dove lo at era posto tra parentesi per indicare sia che la riflessione verteva sulla svolta epocale, sia che era contestualizzata nella svolta epocale. Inoltre, se si pone attenzione all'uso dei verbi nella citazione appena fatta, si può cogliere l'enfasi sul rovesciamento fra il passato e il futuro, come se ci dovessimo proiettare sul passato per ricostruirlo da capo, mentre il futuro sembra essere già stato, o almeno immaginato. Mi viene in mente un'immagine di inizio Novecento, un famoso disegno di Max Beerbohm, dove un'esile figura indica un punto non meglio definito in lontananza dove si staglia, su uno sfondo grigio, un enorme punto interrogativo. Atteggiamento ben diverso, per esempio, da quello di Pierre Lévy, che parlando in un convegno recente a Bologna del cyberspazio esaltava la nuova universalità, senza confini né limiti di spazio o di tempo, un'universalità viva che si può raggiungere attraverso questa nuova fase di comunicazione globale.

Guardando retrospettivamente anche solo la riflessione del secolo ventesimo, nel campo delle cosiddette scienze umane, si può tentare di seguire le varianti di alcune coordinate costanti, per vedere che cosa stiamo vivendo. Per esempio, che differenza c'è fra l'attuale dimensione virtuale dell'arte e della letteratura e quella finzionale della quale si è tanto parlato, almeno negli ultimi due secoli? E c'è veramente ragione di temere i nuovi media e l'avvento dell'ipertesto, in questa nuova versione della querelle fra apocalittici e integrati? Inoltre, che cosa significa questo passaggio da letteratura a cultura e storia che si è verificato con il predominio dei cultural studies, con notevoli cambiamenti sia interni all'istituzione (cambiamento dei curricula e del canone), sia esterni, nel rapporto fra letteratura e società? E infine, che cosa significa il passaggio (da noi suggerito con il titolo di questo volume The Why of Literature) al perché della letteratura, dal focus precedente che era piuttosto sul che cosa o sul come (what o how is literature)?

Questo punto rimanda a un altro argomento importante di discussione, cioè la riflessione non solo sull'utilità (e utilizzo) della letteratura, ma sulla sua temporalità, la domanda cioè se la letteratura trascende il tempo, la storia, con un suo nucleo di verità atemporale, oppure se, stando nel tempo, ne segua le vicende, sia cioè cultura e faccia parte, senza una speciale posizione di privilegio, delle svariate "cultural transactions".

L'amico Marshall Brown, a Bologna di recente per una serie di seminari, mi diceva a questo proposito: "Ci sono due visioni differenti del rapporto fra storia e letteratura, o meglio due modi diversi di intendere la 'cultura storica'. Contro l'opinione prevalente nei cultural studies che, per comprendere un testo bisogna comprendere il contesto che lo ha prodotto (mettendo quindi prima il contesto del testo), io sostengo che i testi vengono prima, e che le culture sono modellate, formate, dalle idee, dalle intuizioni dei testi. Anzi, le opere importanti sono sempre beyond, oltre il loro momento, underway toward a new age".

La nostra è stata senza dubbio un'epoca di domande, di continuo questioning, almeno la fase fra gli anni '70 e gli anni '90 del Novecento, dominata dalla decostruzione e dall'ermeneutica negativa. Con ragioni spesso diverse, di tipo ontologico, per esempio, sul mistero insondabile della creazione artistica, o con ragioni di tipo storico: è il caso di Geoffrey Hartman, o di George Steiner, e di tutti coloro che si sono chiesti come è stato possibile l'Olocausto, quale cultura lo ha prodotto, e se è possibile che ci siano ancora cultura e poesia dopo Auschwitz. Tante domande senza risposta.

Forse, allora, ha avuto ragione Paul Hernadi - quando ci ha proposto il tema del Simposio congiunto fra Università di Bologna e University of California, da cui è nato successivamente questo volume - a volere spostare l'accento dallo what allo why, chiedendosi, e chiedendo a una serie di colleghi e amici (studiosi non solo di letteratura, ma di estetica, filosofia, antropologia), quali sono le ragioni per cui, ancora oggi, si produce, si analizza, si utilizza, ci si rivolge, insomma, alla letteratura. Ma è il nome che ancora dobbiamo usare, quello di letteratura, o non è più sufficiente a coprire il fenomeno contemporaneo? E i generi letterari esistono ancora come tali? E che modificazioni hanno prodotto le discussioni sul canone e sul nuovo tipo di interdisciplinarismo? Su questo tema Geoffrey Hartman ha recentemente parlato, in modo paradossale e polemico, di "esteticidio", interrogandosi non solo sulla funzione degli studiosi di letteratura, ma anche sulla sopravvivenza della letteratura stessa. Harold Bloom, nella sua difesa ormai disperata, non solo del canone occidentale, ma anche della "lettura come pratica solitaria anziché come impresa educativa" (Come si legge un libro, e perché, Milano, Rizzoli, 2000, p. 14), sostiene - seguendo Nietzsche e Stevens - che, se la letteratura e la critica hanno una funzione nella nostra epoca, questa consiste "nel rivolgersi al lettore solitario, a chi legge per se stesso e non per presunti interessi che dovrebbero trascendere l'io" (ibidem, p. 16). E, dettando una serie di principi serious-trivial degni del maestro Wilde, per rispondere al suo "Why" ci invita tutti al recupero dell'ironia perché "alla fine del sentiero dell'ironia smarrita vi è un ultimo pollice, oltre il quale il valore letterario sarà irrecuperabile" (ibidem, p. 21). Un altro grande della critica del nostro tempo, Frank Kermode, in un libro appena uscito, Shakespeare's Language, tesse l'elogio della letteratura intesa come l'incanto che l'insieme delle frasi e dei versi del poeta producono sul lettore: una fascinazione che solo la grande lingua creativa può dare. È allora vero che la letteratura è inutile e che "la poesia non fa accadere nulla", come scriveva provocatoriamente W.H. Auden negli anni '40?

Qualche anno fa, parlando di storia della letteratura, Stephen Greenblatt (che con il suo New Historicism ha contribuito alla svolta che stiamo vivendo) sosteneva: "La letteratura ha una sua efficacia funzionale proprio in quanto essa è portatrice delle tracce di coloro i quali non sono più altro che fantasmi; perché ha l'abilità perturbante di dare l'impressione di essere stata scritta, come diceva San Paolo, 'per noi'; perché è sempre riuscita a eludere il confine fra la vita e la morte". Abbiamo chiesto all'amico Greenblatt di far parte della nostra comunità agapica, concedendoci di tradurre il suo saggio, e siamo lieti di averlo inserito in questo volume. Così come abbiamo accolto volentieri il saggio di Remo Ceserani su "Lo stato di salute della letteratura" e quello di Umberto Eco "Su alcune funzioni della letteratura": entrambi fungevano da chair a due sessioni del nostro convegno.

Il dibattito sullo status del "campo della produzione letteraria" si è allargato enormemente negli ultimi tempi, aprendo nuove prospettive a quella che era, in anni passati, la discussione sulla cosiddetta "industria culturale". L'intervento di Ceserani ha provocato un vivace dibattito sulle pagine del Manifesto, ma il suo messaggio, ancora una volta, si risolve in un invito alla presa di coscienza della necessità di una buona, consapevole "lettura" dei testi e del mondo come testo. Anche Eco cerca di rispondere alla domanda: "A che cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura?", ed espone una serie di funzioni che, a suo parere, la letteratura riveste per la nostra vita sociale e individuale. Riprendendo l'analogia libro-mondo, Eco sostiene la necessità di trovare un equilibrio fra la libertà dell'interpretazione e il rispetto che dobbiamo all'intenzione del testo, e ribadisce il ruolo "educativo" della letteratura, ma in un senso diverso da quello di Bloom, individuando attraverso una serie di esempi suggestivi possibili funzioni, sia a livello ipertestuale che tradizionale, correlate e, per certi versi, complementari.

La letteratura, afferma Hernadi, ha costituito in passato - e forse lo può ancora - un modello per la società, attraverso una svariata tipologia di "diversità intrecciate", diversità naturali, culturali e personali. Quindi, più che un inutile reperto fossile, la letteratura può vedersi come una fenice che risorge sempre dalle sue ceneri.

I saggi qui raccolti tentano di rispondere, in modo diverso, alle domande che Paul Hernadi ci ha suggerito: Adriana Cavarero rivive il mito di Sheherazade e del fascino della narrazione proiettandolo in un terzo millennio multimediale e multisensoriale; Armando Pajalich affronta l'argomento proposto dal punto di vista del post-colonialismo; Paolo Bagni amplia il tema del "perché" alle circostanze, intese come gamma di luoghi, della letteratura; Daniela Carpi pone a confronto il soggetto "letteratura" con quelli di cultura e differenza; J. Hillis Miller riprende un tema a lui caro come quello della "responsabilità" nel sistema universitario americano; Vita Fortunati rivisita il dibattito sul canone da una prospettiva italiana; e Paolo Valesio, infine, ritorna all'esperienza della poesia, come esperienza dell'esilio, il luogo 'utopico' dove l'estetico e l'etico si fondono, poesia come trans-poesia, eredità profonda della nostra umanità. Nel suo saggio la domanda sul perché della letteratura si trasforma nella domanda, metafisica ed esistenziale, sul perché della poesia, una domanda che non pretende risposta. E il significato, o la ragione della sua permanenza, rimane affidato a una performance misteriosa o, come commentano alla fine Margaret Brose e Hayden White, scritto sull'acqua.

Tutti affrontano in modo molto intenso il tema generale, ma forse nessuno dà risposte sicure e definitive alle domande fondamentali, o almeno non offre risposte dirette. La ragione sta forse nell'impossibilità stessa del rispondere, insita nello statuto della letteratura; o nel nostro essere sempre, al riguardo, "sulla soglia" - lo ha scritto anche Edmond Jabès. Nel bisogno di scrivere, che hanno certe persone, "senza sapere che cosa" - lo ha ammesso Paul Valéry. Oppure, come aveva suggerito Sergio Givone rispondendo alla nostra domanda con un'altra domanda, potremmo dire: "E se fosse senza perché?".

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