22/2000
Studi di Estetica
III serie
anno XXVIII, fasc. II


Françoise Armengaud

Etica ed estetica nel pensiero di Lévinas:
a proposito delle Obliterazioni di Sacha Sosno*

 

Emmanuel LévinasLa possibilità di leggere una filosofia dell'arte nell'opera di Emmanuel Lévinas sembra che sia stata passata sotto silenzio dalla maggior parte dei commentatori, i quali ne sottolineano soprattutto gli aspetti incontestabilmente maggiori: l'etica e l'ermeneutica. Pertanto la sezione "Estetica", nel numero speciale dei "Cahiers de l'Herne"[1] che venne dedicato a Emmanuel Lévinas nel 1991, è esigua; benché non contenga che un solo studio,[2] essa tuttavia rende noto un bel testo del filosofo sul pittore Jean Atlan.[3] Con piacere si assisteva altresì, nel corso dello stesso anno, alla pubblicazione di una lunga riflessione di Jacques Colléony su questo argomento.[4] Daniel Charles di recente ha attirato l'attenzione sull'influenza esercitata da Maurice Blanchot.[5] Sto pensando qui alle pubblicazioni in lingua francese. Riguardo a questo aspetto del pensiero di Lévinas, i commentatori italiani si sono invece mostrati molto presto più attenti e generosi. È infatti fin dal 1972 che R. de Sanctis si è interessato dell'estetica di Lévinas e a quella di Merleau-Ponty, in quanto estetica di due fenomenologi.[6] Nel 1985, appaiono tre importanti articoli sulla rivista "Aut Aut".[7] Giorgio Comolli si interroga sul "volto delle cose". Giorgio Franck situa il problema dell'arte nel pensiero di Lévinas nell'articolazione tra estetica e ontologia. Per quanto concerne Rosso Ronchi, egli esamina la suggestione levinassiana dell'"interpretazione come salvezza", nonché il discorso di Lévinas su Blanchot. Infine Fabio Ciaramelli si è pure soffermato su questa nozione del richiamo all'interpretazione che sembra caratterizzare la relazione di Lévinas all'arte.[8]

Per quanto mi riguarda anch'io ho cercato di contribuire all'indagine di questo aspetto della filosofia di Emmanuel Lévinas che ritengo importante. È in questa prospettiva che si poneva l'intervista sulle Sculture obliterate di Sacha Sosno.[9] Oggi vorrei evocare innanzitutto quelli che chiamo i "punti di partenza" della meditazione levinassiana sull'arte, a proposito dei quali bisogna precisare subito che costituiscono altrettante "relegazioni" dell'arte. In un secondo tempo, mostrerò come gli incontri con gli artisti - in particolare con lo scultore Sacha Sosno - abbiano avuto un ruolo capitale nell'evoluzione del pensiero di Lévinas a proposito dell'arte, nel senso di una sua rivalutazione e di una sorta di "riabilitazione".

Ecco dunque quelli che considero i tre "punti di partenza" della meditazione levinassiana sull'arte. Si tratta in primo luogo del giudizio dato sugli effetti dell'arte, in particolare l'"esotismo"; in secondo luogo, del ruolo accordato alla nozione di quell'"ombra", che l'immagine porta sull'essere; in terzo luogo infine, della forza esercitata dal rimando al divieto della rappresentazione.

Che cosa poteva distogliere Lévinas da una riflessione "positiva" sull'arte? Si possono già indicare due argomenti: 1) il fatto che l'immagine, secondo lui, provoca lo svuotamento dell'essere e al contempo la sua fissazione; 2) la sufficienza che egli attribuisce tanto all'opera d'arte che all'atteggiamento estetico. Nell'arte, l'opera si fissa e basta a se stessa; essa si chiude, essa affascina. Fenomeno descritto nell'articolo apparso su "Temps Modernes" nel 1948, La Realtà e la sua ombra[10] (nel quale Lévinas risponde, senza menzionarlo, all'Imaginaire di Sartre). Ma già un anno prima dell'apparizione di questo testo, Lévinas pubblicava un libro intitolato Dall'esistenza all'esistente, in cui la riflessione sull'arte appariva sotto la sorprendente rubrica "Esotismo".[11] Nella sua prefazione Lévinas afferma che la "formula platonica che pone il Bene al di sopra dell'essere è l'indicazione più generale" che guida questi saggi. Egli spiega che ciò significa sopratutto che

 

il movimento che conduce un esistente verso il Bene non è una trascendenza per mezzo della quale l'esistente si eleva a un'esistenza superiore, ma una uscita dall'essere [sott. ns.] e dalle categorie che lo descrivono.

 

Seguiamo ora l'ordine cronologico di apparizione di questi testi che abbiamo appena menzionato, e che sono due "punti di partenza" della meditazione di Lévinas sull'arte. Nel primo testo (1947), l'arte appare come strumento di una extra-territorializzazione (esotismo); nel secondo testo (1948), viene descritta come portatrice d'ombra e fattore di oscurità. Curiosamente, la trattazione dell'arte sembra ancorarsi a quella dello spazio, sotto il segno di una certa ambivalenza che forse deve qualcosa alla difficoltà per Lévinas di assumere - esplicitamente o meno - una posizione definitiva nei confronti della filosofia di Bergson. Il tempo bergsoniano, benché sia vettore di libertà, è senza dubbio insufficiente per Lévinas, il quale, quindi, paradossalmente va a cercare dal lato dello spazio il modo per fare irruzione nel tempo. È come se per Lévinas lo spazio offrisse segretamente al tempo il modello di una rottura più forte. Ci troviamo dunque a confrontarci con una vera e propria ambivalenza dello spazio, che perde la sua ambiguità in base al rapporto col tempo, ovvero a seconda che lo spazio rimanga il luogo dell'immobilità e la sede di una fascinazione, di una siderazione (o di un torpore) idolatra, oppure che costituisca l'occasione di uno sradicamento, il fattore di un'alterità - e quindi di una mobilità secondo il tempo, condizione della libertà. L'articolo intitolato La Realtà e la sua ombra esplora il primo programma. Il capitolo intitolato Esotismo illustra una parte del secondo programma, che chiariremo immediatamente nelle pagine seguenti.

 

 

1. L'esotismo dell'arte

 

Nel capitolo dedicato all'arte del suo libro Dall'esistenza all'esistente (più precisamente, si tratta della prima parte del capitolo intitolato Esistenza senza mondo), piuttosto che cercare di definire un'eventuale natura dell'arte e dell'immagine, Lévinas si rivolge ai suoi effetti. Il primo effetto dell'immagine è, per così dire, di gettare l'oggetto fuori dal mondo. L'arte esemplifica e illustra la possibilità che abbiamo, nella nostra relazione con il mondo, di "strapparci al mondo". L'arte ci strappa al mondo per installarci nella sua propria immanenza di quasi-mondo. L'immagine è il primo operatore di questo sradicamento. Se, come pensa Lévinas, la funzione dell'arte è davvero quella di fornire un'immagine dell'oggetto al posto dell'oggetto stesso, questa immagine costituisce uno strumento di sradicamento della cosa "dalla prospettiva del mondo". Da ciò l'esotismo, nella sua accezione etimologica: il di-fuori - l'esotizzazione, si potrebbe dire, il porre al-di-fuori. Rappresentati, ridotti a immagine, gli oggetti si trovano ipso facto posti al di fuori. Contrariamente a una concezione estetica idealizzante, non è l'opera che si situa fuori del mondo:

 

il quadro, la statua, il libro sono oggetti del nostro mondo, ma grazie a loro, la cose rappresentate vengono strappate al nostro mondo.

 

In definitiva, da quando le prime immagini hanno fatto il loro ingresso nel nostro mondo, gli oggetti hanno smesso di dimorarvi. La rappresentazione non viene a raddoppiare il rappresentato: esso lo respinge. Ovvero, come scrive Giorgio Franck: "ecco dunque cosa rimane nell'immagine dell'oggetto: è la sua assenza di vita che si fa presente [.]. Non se ne è andato, ma è venuto meno: è come morto".[12] Al contrario (e molto prima che Thomas Pavel ne facesse il filo conduttore di un libro[13]), Lévinas nota l'effetto estetizzante dell'allontanamento: "tutto ciò che appartiene a mondi passati, l'arcaico, l'antico, produce un'impressione estetica". In termini contemporanei si parlerebbe di decontestualizzazione (e naturalmente di ricontestualizzazione).

Altro sorprendente effetto dell'arte: mentre l'arte costringe, in qualche modo, l'oggetto a cedere il posto all'immagine, essa obbliga la percezione a cedere il posto alla sensazione. Ciò viene descritto da Lévinas in questi termini:

 

il movimento dell'arte consiste nell'abbandonare la percezione per riabilitare la sensazione [.] ed è questo smarrirsi nella sensazione, nell'aisthesis, che produce l'effetto estetico.

 

 Il filosofo propone di chiamare "musicalità della sensazione" il "modo con cui, nell'arte, le qualità sensibili che costituiscono l'oggetto, nello stesso tempo, non conducono ad alcun oggetto e sono in sé". È allora l'"accadimento della sensazione in quanto sensazione, ossia l'accadimento estetico". Eccoci giunti a una ridefinizione paradossale dell'esotismo, per la quale bisognerebbe utilizzare una figura dello stile levinassiano, qualcosa del tipo "altrimenti che fuori". In effetti, prosegue Lévinas:

 

la sensazione e l'estetica producono dunque le cose in sé, non come oggetti di grado superiore, ma, allontanando ogni oggetto, esse sfociano in un nuovo elemento - estraneo a ogni distinzione tra 'fuori" e 'dentro' [sott. ns.].

 

Riprendiamo ancora l'immagine (verbale) - chiamiamola schema - lo schema forte dello sradicamento: si tratta, come ha precisato Lévinas nella sua introduzione all'opera, di "posizione nell'essere", ma altresì di uscita dall'essere. Il quadro "sradica e mette da parte un pezzo dell'universo". È la sua funzione estetica. In questa prospettiva si situano le belle parole su Rodin. La folgorazione dell'intuizione offertaci proviene, come si capisce, da una lunga meditazione:

 

allo stesso modo i blocchi indifferenziati che prolungano le statue di Rodin. La realtà vi si posa nella propria nudità esotica di realtà senza mondo, che sorge da un mondo infranto.

 

 Questi schemi della frattura e dello sradicamento hanno un seguito, un avvenire, nella riflessione di Lévinas sull'arte: essi la scandiscono, e le forniranno, in certa maniera, la via d'uscita. Come si vedrà in un testo sul pittore Jean Atlan, quando Lévinas, nel 1986, scriverà questa magnifiche righe:

 

non vuole egli forse sradicare con il pennello - alla simultaneità delle forme continue, alla coesistenza primordiale che si compie sulla tela, alla spazialità originaria dello spazio che il pennello stesso afferma o consacra - la diacronia del ritmo o il battito della temporalità o la durata o la vita che rifiuta questo spazio del raggruppamento o la sintesi che nasconde e dissimula questa vita.[14]

 

Infine se Lévinas menziona l'idea - fortemente hegeliana - di una interiorità specifica che l'opera esprimerebbe, è per respingerla. L'esotismo - o l'esotizzazione - non è l'esteriorizzazione nel senso dell'espressione, categoria rifiutata da Lévinas. Secondo lui, la modernità in pittura e in poesia contesta l'idea diffusa dell'opera come espressione di un'interiorità, di un'anima o di un mondo dell'artista. Si capisce allora come l'esotismo quale l'intende Lévinas non è la manifestazione di un dentro, di un'intimità; è un porre al-di-fuori molto più radicale, di altro ordine, e di cui Lévinas fa credito all'arte moderna.

 

2. "La Realtà e la sua ombra"

 

Testo "severo, fastidioso o corrosivo", come dice Pierre Hayat,[15]  La Realtà e la sua ombra dà la precedenza a una prospettiva morale che era discreta, anzi assente, nel testo precedente. Si tratterà ora di sapere se l'estetica constituisca uno stravolgimento (uno sviamento) per l'etica - da cui allora verremmo irrimediabilmente allontanati - o una semplice deviazione al termine (eventualmente asintotico) della quale ci ricongiungeremo alla problematica dell'etica. In breve, l'arte è una contraffazione colpevole e dannosa della morale, o un percorso di propedeutica prossimità, e perfino di alleanza?

Quella che si potrebbe definire la frase-titolo dell'articolo ne riassume l'argomento:

 

la realtà non sarebbe solo ciò che essa è, ciò che essa svela nella verità, ma anche il suo doppio, la sua ombra, la sua immagine.

 

Eccoci così introdotti alle incertezze di una imprevedibile dialettica: in effetti, se la realtà non è soltanto ciò che essa è, allora essa è anche ciò che non è. Ma poi, perché l'ombra? È che l'ombra contiene i due aspetti; quello del doppio e quello dell'immagine. E l'ombra (che non si identifica alla tenebra) è solidale con la luce; prodotta grazie a questa, essa ne sottolinea l'oscuramento.

La riflessione che ci viene qui proposta prende un sviluppo intempestivo, inattuale, controcorrente. Un'autentica condanna dell'arte, forse soprattutto la condanna delle speranze riposte da taluni pensatori nel valore civilizzatore o spirituale dell'arte. Lévinas vi si rivela non soltanto anti-hegeliano, ma altresì anti-heideggeriano, anti-nicciano. Ma anche anti-Bergson, anti-Malraux. Soprattutto si deve pensare che si tratta di un testo scritto poco dopo la guerra, poco dopo la Shoah: come è stato detto e ripetuto, una nazione colta, musicista, esteta, era stata capace di Auschwitz. Sarebbe così l'impotenza dell'arte a garantire alcunché dal lato della morale e del diritto che verrebbe in tal modo stigmatizzata, in maniera implicita e indiretta, per la via traversa di analisi fenomenologiche sull'immagine e sulla temporalità che essa induce, poiché quanto agli eventi della storia in questo caso Lévinas non dice nulla. Mi pare che il loro peso immenso debba essere letto tra le righe come un clamoroso non-detto che sarebbe una sorta di dichiarazione.

Essendo ora chiaro (senza dover entrare nel merito di una controversia critica su questo argomento) che la confezione di immagini costituisce il momento essenziale dell'attività artistica, vediamo in che modo Lévinas presenta congiuntamente gli effetti nefasti e malefici dell'arte e dell'immagine. In seguito vedremo gli effetti fausti e benefici apportati dal linguaggio, in particolare da quello della critica. Gli effetti "nefasti" possono essere suddivisi sotto tre rubriche: 1) l'inutile raddoppiamento dell'essere e la sua degradazione; 2) l'arresto del tempo; 3) la sufficienza dell'opera. In primo luogo bisogna dunque comprendere che la degradazione non risiede nell'immagine mentre il prototipo rimarrebbe intatto (sarebbe la versione platonica). La degradazione risiede nell'essere stesso, che viene immaginato, che si lascia immaginare, magari che si immagina, ineluttabilmente, dall'interno di sé stesso, e come a propria insaputa. L'essere ne risulta indebolito e nientificato. Il raddoppiamento per mezzo dell'immagine non istituisce un rapporto dall'originale alla copia, sulla fedeltà della cui rassomiglianza ci si interrogherebbe (o sulla superfluità della copia). Si tratta di un raddoppiamento interno all'essere. È l'originale che al contempo si differenzia e si assomiglia, si assomiglia e si differenzia. Per ciò si può pensare che l'arte non viene dall'esterno, come un intruso, ad aggiungere la propria copia, il proprio artificio a un essere che fino ad allora non chiedeva niente a nessuno. L'arte sembra chiamata e richiesta solo per raddoppiare questa derealizzazione di sé che l'essere effettua a suo scapito e che gli sfugge. Così l'indebolimento immaginale non solo - come si sarebbe potuto credere dopo un primo tempo "platonico" - rifluisce sul reale che fu il suo modello. È dunque dall'interno del sé che l'essere si ritira, e, con una ben strana kénosis, si disincarna a vantaggio del suo vampirico simulacro. In questa prospettiva, l'arte appare come mossa da una vocazione serva della compiutezza, della manifestazione di questo mortifero compito ontologico dapprima inaugurato e quindi perseguito nel più intimo dell'essere. L'opera sarebbe così sempre e necessariamente "opera al nero".

Successivamente si potrebbe credere, dato che la produzione di immagini e la degradazione dell'essere sono dei processi, che ciò richieda tempo, che ciò si situi nel tempo. Ovvero che ciò ci situi nel tempo. Non è affatto così. O piuttosto, non è questo che Lévinas, a questo punto della sua riflessione, considera del rapporto dell'arte e dell'immagine con il tempo. Ciò su cui insiste è al contrario l'arresto del tempo operato dall'immagine. Da cui deriva il secondo effetto nefasto dell'arte. Per riassumere, diciamo che l'immagine pone l'essere in un destino segnato, in cui esso appare privo di libertà. Si comprende meglio allora il frequente riferimento, nei primi testi, alla statua - prototipo per Lévinas dell'opera d'arte (la poesia gli succederà in questa funzione, ma in maniera positiva e non più negativa). "Ogni opera d'arte è, in fin dei conti, statua, un arresto del tempo o piuttosto il suo ritardo nei confronti di se stessa". Non può più accadere nulla, ci si trova nella pietrificazione, la statua di sale. E qui abbiamo anche il prototipo dell'idolo. Idolo e statua possiedono solo una vita "derisoria che non è padrona di sé", una presenza "che non recupera e che eccede se stessa da tutti i lati, che non tiene in mano i fili della marionette che essa è". Tema ricorrente, perfino permanente: è a questo proposito  che Lévinas allude all'articolo La Realtà e la sua ombra in due opere maggiori quali Totalità e infinito e Altrimenti che essere. È pure al tema dell'arresto che Lévinas fa riferimento in particolare in Totalità e infinito:

 

come gli dèi immobilizzati nell'intermezzo dell'arte, lasciati, per l'eternità, ai bordi dell'intervallo, alle soglie di un avvenire che non si produce mai, statue che guardano con degli occhi vuoti, idoli che, contrariamene a Gige, si espongono e non vedono.[16]

 

Un altro effetto nefasto dell'arte: la sufficienza. L'idea della compiutezza dell'opera, legata al tempo ma non soltanto al tempo, introduce alla sufficienza: ciò che non ha lacune, che il futuro potrebbe eventualmente colmare. Dunque nessun futuro. Il discredito etico dell'arte è legato al suo disimpegno, al suo disinteresse, che è solo il rovescio della sua irresponsabilità. L'arte ha il torto di apportare al mondo, come osserva Pierre Hayat, l'"amore del fatto".[17]  Più avanti si vedrà ciò che, inversamente, implica l'incompiutezza dell'opera.

 

3. Il divieto di rappresentazione

 

Si tratta naturalmente di un'allusione al divieto biblico: "non ti farai né scultura né immagine di ciò che sta su in cielo, quaggiù sulla terra e nelle acque sotto la terra" (Ex. 20, 4; Deut. 5, 7). Il divieto ha diversi risvolti: a) interdizione di una imitazione (che sarebbe dismisura, hybris) della divinità, poiché soltanto Dio crea; b) interdizione di forgiare creature non viventi realmente (in conseguenza della pochezza della capacità creatrice umana); c) interdizione dell'idolatria: "non ti prosternerai davanti a loro e non le servirai" (ibid.). In effetti, fabbricare immagini significa fabbricare idoli. Gli idoli infatti sono al contempo dèi "altri" ed esseri non viventi, dunque doppiamente mortiferi. Allora bisogna fare o non fare immagini? In verità non vi è alternativa. Più tardi si incontrerà l'idea che si potrebbe sfuggire all'alternativa, ossia in qualche maniera fare immagini senza farne. Ciò significherà eventualmente fare disfacendo. Oppure fare ciò che ho chiamato immagini "redente" - indubbiamente a torto, ed Emmanuel Lévinas me l'ha fatto notare dicendomi (a proposito dell'arte): "dite 'redimerle' come se fosse un peccato!".[18] Nondimeno, è forse qui, sulla via di ciò che ha più del paradosso che del compromesso - poiché comunque si tratta necessariamente di arte - che ritroveremo l'arte dell'obliterazione. Non potrà essere un'arte colpevole di fare immagini: non ne fa. Bensì piuttosto, con un gesto in apparenza iconoclasta (soltanto in apparenza, poiché vi si può scorgere una sorta di segreta astuzia iconofila), essa le disfa. Ancora più profondamente, possiamo dire che le munisce di una specie di salvacondotto, giungendo perfino a conferire loro un'autorizzazione sovrana.

 

La proscrizione delle immagini è veramente il supremo comandamento del monotesimo, di una dottrina che supera il destino - questa creazione e rivelazione alla rovescia.[19]

 

Queste esplicite affermazioni di Lévinas sul divieto di rappresentazione non appartengono certamente agli esordi della sua riflessione. Si può tuttavia supporre che la forza di questa ingiunzione abbia accompagnato il pensiero del filosofo costantemente e fin dagli inizi. Apparso nel 1981, questo testo intitolato Il divieto di rappresentazione associa strettamente immagine e rappresentazione (così come la riflessione sui diritti dell'uomo). Se l'immagine viene evocata nella sua plasticità, e la rappresentazione nella sua intenzionalità, entrambe costituiscono l'oggetto di una medesima critica. Quanto all'oggetto del divieto, Lévinas ci aiuta a uscire dall'idea comune e banale di un divieto generalizzato a qualunque realtà, conferendogli la sua esatta portata, al contempo ristretta (non tutti i tipi di realtà) e letteralmente infinita (una singola realtà): il volto. È del volto, e solo del volto, che non possono darsi né immagine né rappresentazione. Anzi, il volto, essendo radicalmente non visibile, esige e fonda il divieto di rappresentazione come segno della sua non visibilità, con la quale bisogna intendere la sua non riducibilità - non riducibilità di diritto, etica - al visibile. Bisogna precisare meglio il senso di questa non visibilità. La rappresentazione e l'immagine devono ritrarsi davanti al volto. Altrimenti, afferma Lévinas, il terrore ci afferra davanti al "pensiero che accosta come forme visibili e plastiche perfino l'unicità dell'unico che si esprime nel volto". Non è dunque in questione un'eventuale non materialità o non spazialità del volto. La rappresentazione per mezzo dell'immagine attenterebbe non tanto alla "spiritualità" del volto quanto alla sua unicità. Il volto in effetti è essenzialmente non duplicabile; non ha doppio, ombra, copia, ritratto, esemplare. Esso invoca per sé la dichiarazione dell'"unicità dell'unico nel suo genere - o unicità che ha infranto ogni genere -, nel senso in cui l'amato è unico per chi ama". Quando vi è immagine invece, vi è - pare - riduzione, e perfino l'arte si rivela riduttrice. Il pensiero allora "accede al volto dell'altro ridotto a forme plastiche, magari esaltate e affascinanti e derivanti da un'immaginazione accesa. Magari opere d'arte!". Ecco che già si profila agli occhi di Lévinas l'imminenza dell'idolo, che egli descrive tratto per tratto conformemente ai termini biblici. È tramite la caricatura che si cade dall'immagine all'idolo:

 

sotto un certo sguardo, nella plasticità del puro apparire, la caricatura si confessa colpevole della 'bocca che non parla', degli 'occhi che non vedono', delle 'orecchie che non odono', delle 'narici che non hanno olfatto' del salmo 115.

 

In conclusione, la caricatura e l'idolo sono da sempre, virtualmente e in potenza, dissimulate in filigrana nell'immagine, pronte ad affiorare sotto la sollecitazione dello sguardo, pronte a proliferare, a irrompere e ad affascinare. Pronte a "cancellare l'unicità dell'unico", ossia a "restituirlo, individuo, alla genericità - all'estensione di un genere". Tale dunque, per quanto riguarda l'immagine, è il danno da cui è opportuno proteggere il volto.

Tuttavia, secondo Lévinas, sembra che questa duplicazione rappresentativa o immaginale, che infrange l'unicità, non sia l'unico fattore in causa. Prima di ogni riproduzione infatti è già nella percezione che la difficoltà ci attende. Riteniamo che questa difficoltà pesi su tutta la fenomenologia del visibile. Da cui deriva il rischio di misconoscere l'autentica trascendenza. Questa invece è "vibrante nel rapporto con l'altro uomo, ossia nella prossimità del prossimo, la cui unicità e, di conseguenza, l'irriducibile alterità sarebbero, già anche, misconosciute nella percezione che sfigura il volto[20] altrui". È così che, "sotto la figura plastica che appare, il volto è già mancato". Ecco perché percepire "semplicemente" sarebbe già abbozzare l'immagine, già fare del volto una figura, già assimilarlo alla plasticità dei suoi contorni. Abbiamo appena visto che vi è, osiamo dire, qualcosa di peggio, ossia che anche senza che intervenga alcuna percezione, in tutta "semplicità" ontologica, l'essere già, per una strana perversione, secerne la propria ombra, il proprio doppio, la propria immagine, il proprio nulla. Non è dunque astenendosi dal "fare" immagini che si sfuggirà all'idolatria. E neppure, anche se ciò fosse possibile, astenendosi dal percepire. Né impedendo - cosa evidentemente impossibile - questo tipo di processo autoduplicante, autoimmaginante, che mina e svuota l'essere dall'interno, e che per sovrammercato lo svuota, in certo qual modo, per nulla. Soltanto l'attitudine etica nei confronti dell'altro permette di interrompere questo processo. Ma chiariamo: interrompere cosa propriamente? Si tratta, prendendo a prestito l'espressione da Jacques Colléony, di "staccarsi dall'attività assimilatrice del medesimo". "Il volto - egli scrive - è la rivelazione paradossale di ciò che si sottrae al disvelamento". E cita: "manifestarsi come volto [.] senza la mediazione di alcuna immagine nella sua nudità".[21]  È dunque, sempre secondo Colléony, questa possibilità di staccarsi dal medesimo che "definirà il volto come separato, come appartenente all'ordine di quella che Lévinas chiama 'santità'".

La sorte dell'immagine è pertanto definitivamente stabilita? Forse non tutto è perduto. Potrà forse l'immagine non diventare un idolo? Potrà forse sfuggire all'infamante accusa? Essa comunque non potrà diventare una immagine sacra, un'icona. Non vi sono infatti immagini "sacre". La santità non potrebbe risiedere in nessuna immagine. Non è possibile che ci siano, in questo senso, icone secondo il pensiero levinassiano. Non è possibile che il volto divenga idolo, per mezzo della caricatura - sia essa disegno, immagine, o già nella percezione, o già nell'essere stesso. E così per il volto, e solo per il volto, vi è una possibilità di diventare icona, verso la "santità". È quanto esprime la formula di Totalità e infinito: il volto è "al limite della santità e della caricatura".[22] Infatti il volto dell'altro (fatto a immagine di Dio) considerato eticamente costituisce l'unica icona ammissibile. Per questo esso esclude altresì ogni pretesa di iconicità.

A proposito dei tre punti che abbiamo appena evocato, il linguaggio, in particolar modo quello della critica, interviene a rilevare, a "risollevare", l'arte. Questi effetti "fausti" del linguaggio si dispiegano anch'essi secondo le tre seguenti linee direttive.[23] 1) Il linguaggio potrebbe, o dovrebbe, raddoppiare a sua volta il raddoppiamento; dunque sospende la degradazione. 2) Esso non solo, come sottolinea Daniel Charles, rimette l'opera nel suo contesto e nella sua storia,[24] ma ricolloca le cose - l'opera - nel tempo dello scambio con l'altro. Esso consegna l'opera - benché "compiuta" - all'incompiutezza e al senza fine del commento e dell'interpretazione (apre l'opera, qualora essa non fosse già "aperta", come sostiene Umberto Eco). Esso la consegna alla temporalizzazione (per quanto essa celasse già in sé questa temporalizzazione). 3) Così esso libera l'opera dalla sua sufficienza; vi compie un'irruzione salvifica ponendola in discussione.

È dunque proprio al momento di scrivere e commentare l'opera di alcuni artisti che la prospettiva di Lévinas sull'arte si modifica in maniera rilevante.

 

4. Jean Atlan e l'impegno artistico

 

Nelle pagine dedicate al pittore Jean Atlan nel 1986 vi sono diversi passi degni di nota. Innanzitutto la "sufficienza" ha cambiato campo. Essa non è più la sufficienza dell'arte. Al contrario, è l'arte che produce una rottura nella sufficienza dell'essere. Cito:

 

non viene forse aperto, con l'impegno artistico, uno dei modi privilegiati dall'uomo di fare irruzione nella pretenziosa sufficienza dell'essere che si vuole già compimento e di rovesciarne la greve consistenza e le impassibili crudeltà?[25]

 

Questa è la nuova domanda posta da Lévinas. L'arte non è più rilassatezza irresponsabile, ma tensione, "tensione dell'arte, vissuta dall'uomo tra disperazione e speranza". Accade qualcosa che equipara l'impresa dell'arte a l'impresa legata al Vero e a quella legata al Bene. Lévinas parla di una "lotta altrettanto drammatica dello svelamento del Vero e dell'esigenza imperativa del Bene". La parola Bello non viene dunque pronunciata. Senza dubbio il Bello è sempre l'unica categoria estetica,[26] ma è una categoria sospetta. Si assiste dunque a una certa minorazione della critica (già avviata nel dialogo con Blanchot): "bisogna forse non commentare le opere quando esse paiono avere l'ultima parola mostrandosi". Allo stesso modo è l'arte che istruisce la riflessione filosofica: dà accesso all'essere e non soltanto alla non verità dell'essere come si diceva in La Realtà e la sua ombra. Credo che vi sia in queste riflessioni su Atlan un vera premonizione della portata di quest'arte d'obliterazione, che allora Lévinas non conosceva ancora, così come quando parla di un "movimento che attraversa le loro forme percepite che sono anche schermi e che ostruiscono lo sguardo che riempiono".

Insistendo su questi aspetti dell'evoluzione di Lévinas stiamo forse suggerendo che egli si sarebbe contraddetto? Naturalmente no. In realtà è accaduto che l'incontro con taluni artisti l'ha indotto a introdurre una distinzione nell'idea di arte, o piuttosto una distinzione tra i modi di fare arte. Guardandosi bene dal giungere fino al manicheismo, esisterebbe dunque qualcosa come una "cattiva" arte, quella della fuga, dell'irresponsabilità e dell'immagine demonizzata, quale viene descritta in La Realtà e la sua ombra, e una "buona" arte, per nulla conforme a qualsivoglia precetto etico, ma che si assume la propria parte di responsabilità umana. Ecco dunque, in maniera evocativa, in quale modo Lévinas conclude la propria presentazione di Atlan: "la pittura informale è forse questo: un casto erotismo, una tenerezza, una compassione e forse una misericordia che fanno pensare alla Bibbia".

 

5. L'obliterazione sosnoniana e la rottura dell'incantesimo

 

È capitato che Lévinas, grazie alla sua generosità, e anche - e spero soprattutto - grazie alla sua curiosità intellettuale, mi abbia voluto cortesemente concedere tempo fa l'occasione e il privilegio di avere con lui una conversazione a proposito dell'opera di Sosno.[27] Il contatto con l'opera sosnoniana si rivelò immediatamente illuminante e fecondo. E fu anche successivamente l'origine di una discreta, profonda e sensibile amicizia tra il filosofo e l'artista.

Ma che cosa è l'obliterazione? Di certo una forma originale di arte essenzialmente scultoria. Cominciamo però con un poco di etimologia. Il latino ob rimanda all'idea di ostacolo, e littera, è, naturalmente, la lettera. Ob-litterare: rendere illeggibile cancellando, macchiando o raschiando. È l'idea di qualche cosa che fa ostruzione, ossessiona, ombreggia, offusca, che viene incontro. Si intercala. Si oppone. Fa schermo, barriera. Obliterare significa impedire, otturare, smussare, atrofizzare. E significa anche far scomparire progressivamente, ma in modo da lasciare qualche traccia. Per esempio, la circolazione delle monete oblitera poco a poco le figure e le lettere che vi sono incise. Obliterare un testo significa caricarlo di cancellature (l'ulteriore effetto della cancellatura sarà di dare rilievo, profondità e mistero a un manoscritto - in quanto ci resta oscura la ragione per cui una certa parola è stata convocata e poi rifiutata).

Un altro concetto importante è quello della perenzione. L'obliterato è lo scaduto. Ciò che, dopo essere servito una volta, non deve servire mai più. Il timbro postale obliterato, il biglietto di viaggio obliterato, perdono il loro valore di affrancatura. Proprio per questo essi si trovano realmente "affrancati", ossia liberati di ogni valore utilitario, e, se ci si vuole spingere più lontano, resi inadatti alla loro funzione. Essi ricevono, per questo, un valore storico, estetico (e anche di mercato), senza proporzione con il loro iniziale valore postale o amministrativo. Fin d'ora si può prevedere che l'obliterazione di Sosno suggerisce il passaggio a una categoria estetica di un altro ordine rispetto al bello tradizionalmente riconosciuto nella statuaria classica. Forse, esattamente come nell'Aufhebung, questo bello "superato" non scade realmente; forse perdura, rivalutato. È comunque un qualcosa che Lévinas conserverà, dopo aver preso congedo dal bello. Ed è anche l'emozione suscitata da ciò che non ha luogo che una sola volta, quello che Jankélévitch chiamava il "semelfattivo".

Arriviamo così all'idea di censura. È alle origini della pratica obliterativa che si scopre la pertinenza del concetto di censura (utilizzato e raggirato in maniera paradossale e sovversiva). In effetti, Sosno, che è stato in gioventù cronista e fotoreporter in paesi sconvolti dalla guerra (Irlanda, Biafra, Bangladesh), lavora, dal 1968 al 1974, su fotografie stampate su tela sensibile. Superfici dipinte a spray, per lo più rosse, talvolta nere, cancellano in parte la superficie di queste fotografie. Talune fotografie di Sosno sono pertanto sbarrate con il colore rosso o con il nero, generalmente per metà, talvolta per due terzi. Creando un serio impedimento alla vista, che di primo acchito aggredisce lo sguardo, lo frustra, lo inquieta. Il messaggio di questa barra, del rettangolo-censura, ci respinge. "Circolate, signori e signore, non c'è niente da vedere", dicono i guardiani dell'ordine ai curiosi. L'obliterazione sosnoniana invece avverte proprio che vi sia da vedere; che vi ancora da vedere, che vi è sempre da vedere e da vedere là dove si crede che non vi è più niente. Questa operazione che consiste nel mostrare la censura esemplificandola, nel mostrare ciò che impedisce il pieno esercizio del vedere e del sapere, su una fotografia (o ciò che impedisce la lettura normale di un testo), è un modo di affermare: ". e in questa fotografia (o in questo testo) non c'è tutto". Queste fotografie già di per sé orribili non possono dire tutto l'orrore. Si tratta, in definitiva, di mobilizzare la percezione. Sosno esprime ciò con un motto laconico: "celare per vedere meglio".

Naturalmente, nell'intervista sulle obliterazioni che ebbe luogo nel marzo del 1989, le riserve e le reticenze che il filosofo aveva formulato quarant'anni prima a proposito dell'arte in generale rimangono vive. Ma è significativo che ora esse riguardino più il bello, o l'estetica (sempre con una piccola sfumatura peggiorativa, come se fosse sinonimo di estetismo), che non l'arte - comunque, ormai, non tutta l'arte. Indubbiamente, se Lévinas dichiarava nel 1948 che il valore del bello è "relativo" e che vi è "qualcosa di malvagio, di egoista e di vile nel piacere artistico", egli nel 1988 continua a pensare che "la perfezione del bello impone silenzio senza occuparsi del resto". Il bello - aggiunge - è "guardiano del silenzio". "Lascia fare". È qui che "la civiltà rivela i suoi limiti". In compenso, Lévinas ritiene possibile che una forma d'arte si realizzi, abbia luogo, per così dire, non sotto l'egida del bello. È il caso dell'arte d'obliterazione nella quale Lévinas vede un'arte che, al contrario, "denuncia le facilità o la superficiale noncuranza del bello". Per sovrammercato, quest'arte, senza offrirci un'immagine (a voler essere precisi), ci "rammenta" qualcosa di importante a proposito dell'essere:

 

l'arte di obliterazione, sì, essa sarebbe un'arte che denuncia le facilità o la superficiale noncuranza del bello; essa rammenta le usure dell'essere, i 'rammendi' di cui è coperto e le cancellature, visibili o nascoste, nella sua ostinazione a essere, ad apparire e a mostrarsi.

 

Ecco dunque quest'arte adatta a essere posta in analogia con l'universo descritto nel Cappotto di Gogol, in cui, secondo Lévinas, "la realtà si mostra già fuori uso, già obliterata come vuole l'arte di Sosno". Lévinas, dinanzi alle obliterazioni, ha immediatamente pensato a Gogol. Aveva in mente qualcosa a proposito di Gogol che forse non aveva nome, e curiosamente, "obliterazione" era questo nome, un nome che non gli è stato fornito da un poeta, né da un filosofo, ma da uno scultore.

Credo che l'arte di obliterazione sia apparsa a Lévinas come un'arte capace di infrangere la sufficienza, tanto quella del bello che quella dell'essere. Non di infrangere l'essere o il bello: soltanto la loro sufficienza. Devo confessare oggi che una sorta di affinità tra la riflessione del filosofo e quella dello scultore mi era sempre sembrata sorprendentemente attestata da un testo del 1964. Non è un caso che sia un testo a proposito del volto, distinto da ogni altro fenomeno e caratterizzato dalla sua "epifania". Lévinas afferma: "quando il fenomeno è già, a qualunque titolo, immagine, manifestazione prigioniera della sua forma plastica e muta, l'epifania del volto risulta vivente".[28] Paradossalmente, la vita come "epifania" non è un fare, ma un disfare: tutto avviene infatti come se ciò che viene fatto fomentasse una permanente dissimulazione che si tratta di smascherare. La vita del volto, dice Lévinas, "consiste nel disfare la forma in cui tutto essendo, quando entra nell'immanenza - ossia quando esso si espone come tema - già si dissimula" (ibid.). L'immagine dello "squarcio" sembrerebbe la più adatta a descrivere l'effetto di questo "disfare" che autorizza la fuga dall'impresa, dalla paralisi irrigidita. Questa "apertura" è prodotta dall'irruzione dell'altro, e precisamente dal suo volto, e dalla sua parola. "Altro - prosegue Lévinas - che si manifesta nel volto, squarcia, in qualche maniera, la propria essenza plastica, come un essere che aprisse la finestra in cui la sua figura già si disegnava. La sua presenza consiste nello spogliarsi della forma che tuttavia già lo manifestava" (ibid.). Come caratterizzare questo "squarcio" se non parlando di obliterazione? Colui che ha scritto queste cose non poteva che essere sensibile a questa insistente reiterazione dell'squarcio che struttura - non senza suscitare d'altronde un sentimento di inquietante stranezza - le obliterazioni per mezzo del vuoto.

È significativo che lo "squarcio" sia ancora la parola chiave quando si tratta per il filosofo di definire la specificità del linguaggio poetico. Cosa di più eloquente di questo commento a proposito di Maurice Blanchot, in cui Lévinas afferma che la poesia

 

trasformerebbe le parole, indici di un insieme, momenti di una totalità, in segni liberati che squarciano i muri dell'immanenza, sconvolgendo l'ordine.[29]

 

Daniel Payot ritrova questo schema anche nel suo commento a un passo di Le grandi correnti della mistica ebraica di Gershom Scholem. Egli nota che si tratta di

 

scoprire uno 'squarcio', un'apertura: insomma, essere più vicini all'immanenza, alle maglie strette del suo tessuto, precisamente per scoprirvi ciò che lo trafora, ciò che lo buca o che lo strappa in ognuna delle sue maglie, e che lascia passare in parte uno sgorgare dissimulato e tuttavia effettivo nella concretezza del mondo.[30]

 

L'obliterazione sosnoniana illustra - credo - quella rottura dell'incantamento che Lévinas auspicava in un passo chiave di Difficile libertà, in cui descrive il tempo come uno sradicamento e questo sradicamento come il modo di essere del soggetto umano: "un tale sradicamento non è un essere minore, ma una maniera del soggetto. Essa è capacità di rottura, rifiuto di princìpi neutri e impersonali, come il rifiuto della totalità hegeliana e della politica, come il rifiuto dei ritmi incantatori dell'arte".[31] Non soltanto la rottura, ma le modalità della rottura, descritte verbalmente dal filosofo, e in qualche modo messe in opera dallo scultore, stupiscono per la loro profonda connivenza. L'obliterazione soddisfa dunque l'esigenza levinassiana d'interruzione: interrompere infatti significa qui fare posto al linguaggio della critica, che situa l'opera nel suo contesto e nella sua storia, e al linguaggio del dialogo, che la pone in relazione con l'altro. Citerei anche queste parole che Lévinas mi rivolse:

 

Lei dice: l'obliterazione interrompe il silenzio dell'immagine. Sì, vi è un appello, della parola, alla socialità, l'essere per l'altro. In questo senso, evidentemente, l'obliterazione ci conduce all'altro.[32]

 

Proviamo a ricapitolare. Che ne è della percezione? Essa è già obliterata. Che ne è dell'essere? Esso è già obliterato. Ascoltiamo Emmanuel Lévinas: "la realtà è già obliterata, come pretende l'arte di Sosno".[33] E cosa ricordare di tutto ciò, se non che in definitiva nulla è assolutamente primo. È noto che la lettera iniziale del Genesi è un Beth - la seconda lettera dell'alfabeto ebraico - e non un Aleph. Come se il mondo non dovesse apparire che sullo sfondo di una caduta - che i linguisti chiamano aferesi - dell'Aleph. Donde la domanda, forse eccessiva, ma che nondimeno oso porre: non è forse che "all'inizio" era l'obliterazione.

Far rientrare l'opera d'arte nel tempo, conferirle al contempo una mobilità, un'apertura e un avvenire, immunizzarla contro il rischio di diventare un idolo, è una cosa che secondo Lévinas può avvenire in tre diversi modi. Il primo e più universale consiste nel parlare l'opera e nel parlare dell'opera: indispensabile lavoro del linguaggio, della critica. Significa far rientrare l'opera, per mezzo del dialogo - con l'artista, quando è possibile, e altrimenti con chiunque contempli o evochi l'opera insieme a me - nella relazione all'altro. Il secondo modo si rivolge a un'arte che ha già fatto dell'incompiutezza la propria parola d'ordine e la propria chiave. In effetti Emmanuel Lévinas attribuisce all'incompiutezza un significato ontologico: "l'opera non è mai compiuta. E l'opera non è mai compiuta perché la realtà è in questo senso sempre difettosa, obliterata".[34] È quella che Lévinas vedeva come la caratteristica dell'arte moderna. Un'incompiutezza molto generale e, in qualche misura, di principio. Infine il terzo modo sarebbe quello dell'arte di obliterazione: vi si trovano effettivamente quelle che Daniel Payot, commentando il pensiero di Lévinas sull'arte, chiama "proposte di esperienze diverse dalla temporalità".[35] (In questo senso gli Incompiuti di Sosno si comporterebbero come dei superlativi dell'obliterazione).

Al termine di questo percorso mi piace citare le belle parole di Beppe Sebaste, pronunciate quando ancora ignorava del tutto l'obliterazione sosnoniana: "leggere Lévinas significa trasformarsi, subire un'obliterazione di sé nel medium, come un assorbimento del cammino nel cammino stesso".[36]

[Traduzione di Riccardo Campi]



* Si presenta qui la traduzione di una versione rivista e corretta dall'Autrice, che ringraziamo per la cortese collaborazione, del testo di una conferenza tenuta presso l'Università di Bologna il 18 novembre 1999.

[1] Emmanuel Lévinas, cura di Catherine Chalier e Miguel Abensour, "Cahiers de l'Herne", primavera 1991, ristampato in edizione economica.

[2] F. Armengaud, Ethique et esthétique: de l'ombre à l'oblitération, "Cahiers de l'Herne", cit., pp. 499-508.

[3] E. Lévinas, Jean Atlan et la tension de l'art, Musée des Beaux-Arts de Nantes, catalogo dell'esposizione del 1986: Atlan, premières périodes 1940-1954; ripubblicato in "Cahiers de l'Herne", cit., pp. 509-10.

[4] J. Colléony, La Réalité et son ombre, in La Part de l'Oil, dossier su "Art et phénoménologie", curato da Eliane Escoubas, primavera 1991, pp. 81-90.

[5] D. Charles, Petite sosnologie comparée, prefazione a F. Armengaud, L'art de l'oblitération. Essais et entretiens sur l'ouvre de Sacha Sosno, Paris, Kimé, 2000.

[6] R. de Sanctis, L'estetica di due fenomenologi. Lévinas e Merleau-Ponty, in "Rivista di studi crociani", 1972.

[7] G. Comolli, Il volto delle cose. Intorno alla questione dell'arte in Lévinas; G. Franck, Estetica e ontologia. Il problema dell'arte nel pensiero di Lévinas; R. Ronchi, L'interpretazione come salvezza. Nota sul Blanchot di Lévinas , "Aut Aut", 209/210, 1985.

[8] F. Ciaramelli, L'appel infini à l'interprétation. Remarques sur Lévinas et l'art, "Revue philosophique de Louvain", 1994.

[9] E. Lévinas, De l'oblitération. Conversation avec Françoise Armengaud à propos de l'art de Sacha Sosno, Paris, Editions de La Différence, 1990 (ristampa 1998).

[10] Cfr. La Réalité et son ombre, "Les Temps Modernes", novembre, 38, 1948, p. 786; ripreso in E. Lévinas, Les Imprévus de l'histoire, prefazione di Pierre Hayat, Montpellier, Fata Morgana, 1994.

[11] E. Lévinas, De l'Existence à l'existant, Paris, Vrin, 1947 [trad. it. Dall'esistenza all'esistente, Casale Monferrato, Marietti, 1986].

[12] G. Franck, Estetica e ontologia. Il problema dell'arte nel pensiero di Lévinas, cit., p. 38.

[13] T. Pavel, L'art de l'éloignement. Essai sur l'imagination classique, Paris, Gallimard, 1996.

[14] E. Lévinas, Jean Atlan et la tension de l'art, cit., p. 509.

[15] P. Hayat, Préface a E. Lévinas, Les Imprévus de l'histoire, cit., p. 15.

[16] E. Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l'extériorité, La Haye, Martinus Nijhof, 1961, p. 197 [trad. it. Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano, Jaca Book, 1986, p. 227].

[17] P. Hayat, Préface a E. Lévinas, Les Imprévus de l'histoire, cit., p. 16.

[18] E. Lévinas, De l'oblitération, cit., p. 8.

[19] E. Lévinas, Interdit de la représentation et "Droits de l'homme", comunicazione al Colloque de Montpellier, Paris, Le Seuil, 1981; ripubblicato in E. Lévinas, Altérité et transcendance, introduzione di Pierre Hayat, Montpellier, Fata Morgana, 1995, pp. 129-37.

[20] [In francese Lévinas gioca, in maniera intraducibile, con il verbo dévisager che significa propriamente "fissare con attenzione", ma, staccando ed evidenziando il prefisso dé-, sottolinea come la percezione tenda a privare l'altro del suo volto (visage). NdT.]

[21] Si tratta della nota 9 dell'articolo di J. Colléony, La  Réalité et son ombre, cit., p. 90. Il testo citato di E. Lévinas è tratto da Totalité et infini. Essai sur l'extériorité, cit., p. 174 [trad. cit., p. 205].

[22] E. Lévinas, Totalité et infini, cit., p. 172 [trad. cit., p. 203].

[23] Possiamo porci una domanda. Quando il linguaggio, che era nel 1948 in La Réalité et son ombre, l'estremo rimedio razionale e critico per salvare la verità (o per dialettizzare la non verità dell'arte) e porre l'opera nella temporalità del dialogo così come, al contempo, nel rapporto con l'altro, quando questo linguaggio, dunque, si fa arte, ossia poesia, qual è allora l'estremo rimedio (ammesso ve ne sia uno)? Ma anche, se è vero che la poesia è al contempo linguaggio e arte - è ancora e sempre linguaggio ed è già arte - allora l'arte, in quanto poesia, potrebbe forse incorrere nella stessa infamia dell'arte in quanto immagine. È significativo che alla domanda sul "posto" di Jabès nella produzione letteraria attuale, Lévinas risponda rifiutando i termini della questione, chiedendosi: "è sicuro che un vero poeta occupa un posto?". E suggerisce che un autentico poeta è piuttosto colui che, "nel senso eminente del l'espressione, perde il posto". Il poeta diventa in tal modo colui che prende l'iniziativa, di portata etica, di "cessare l'occupazione". Diventa l'"apertura stessa dello spazio di cui né la trasparenza né il vuoto - non più che la notte e il volume degli esseri - riescono ancora a mostrare l'assenza di fondo o l'ex-cellenza", E. Lévinas, Edmond Jabès aujourd'hui, "Les Nouveaux Cahiers", n. 31, 1972-1973; ripubblicato in Noms propres, Montpellier, Fata Morgana, 1976, pp. 93-5 [trad. it. Nomi propri, Casale Monferrato, Marietti, 1984, p. 77].

[24] D. Charles, Petite sosnologie comparée, cit.

[25] E. Lévinas, Jean Atlan et la tension de l'art, cit., p. 509.

[26] Ci si potrebbe stupire dell'assenza della categoria estetica del sublime. È un enigma: perché Lévinas non ha mai considerato questa uscita dal Bello? Il sublime prenderebbe troppo rapidamente il posto dell'etica? Oppure è già interamente assorbito dall'etica? Viceversa, è significativo che una monografia così esaustivamente documentata come quella che Baldine Saint-Girons ha dedicato al sublime non contenga alcun riferimento, magari solo allusivo, ai testi di Lévinas; cfr. B. Saint Girons, Fiat lux. Une philosophie du sublime, Paris, Quai Voltaire, 1993. Forse il sublime, nella sua definizione kantiana, ci conduce verso le vie dell'impersonale, ponendo certamente l'ego a confronto con ciò che lo sorpassa, ma non nell'altro. Benché Kant affermi di "non conoscere nulla di più sublime" del comandamento del Decalogo: "non ti farai alcuna immagine scolpita". In realtà, è come se in generale (o forse solamente dopo il XVIII secolo?), si avesse bisogno di due categorie che continuiamo a chiamare estetiche e che potrebbero essere chiamate in maniera indicativa e formale: l'adeguatezza e l'inadeguatezza. Per essere brevi: l'adeguatezza corrisponderebbe al bello, l'inadeguatezza al sublime. Quando si rifiuta il sublime, per questa o quella ragione, l'inadeguatezza viene cercata ed espressa altrove: "anacronia", per esempio, in Derrida che Payot cita. E in Lévinas, da un lato, il totalizzante, la sufficienza; dall'altro, l'infinito, e la mancanza.

[27] E. Lévinas, De l'oblitération, cit.

[28] E. Lévinas, La Signification et le sens, "Revue de Métaphysique et de Morale", 1964; ripreso in Humanisme de l'autre homme, Montpellier, Fata Morgana, 1972, opera a sua volta ripubblicata, Le Livre de Poche, Biblio-essais, 1987 [trad. it. Il significato e il senso, in Umanesimo dell'altro uomo, Genova, Il nuovo Melangolo, 1998].

[29] E. Lévinas, La Servante et son maître, "Critique", 229, 1966; ripubblicato in Sur Maurice Blanchot, Montpellier, Fata Morgana, 1995, pp. 27-42.

[30] D. Payot, Effigies. La notion d'art et les fins de la ressemblance, Paris, Galilée, 1997, p. 165.

[31] E. Lévinas, Signature, in Difficile Liberté. Essais sur le judaïsme, Paris, Albin Michel, 1963 [trad. it. Difficile libertà, Brescia, La Scuola, 1986].

[32] E. Lévinas, De l'oblitération, cit., p. 28.

[33] Ibid., p. 12.

[34] Ibid., p. 18.

[35] D. Payot, Anachronie de l'ouvre d'art, Paris, Galilée, 1990, p. 87. Cfr. anche dello stesso autore Effigies, cit., pp. 110-23.

[36] "Grazie all'insegnamento di Emmanuel Lévinas, eccomi qui che cerco - balbettando - di esprimere la mia gratitudine di dovergli esprimere la mia gratitudine. O, per dirlo in una frase che tocca in qualche modo il dominio dell'estetica: raccontare l'effetto di un insegnamento ricevuto", B. Sebaste, comunicazione al congresso Honneur à Emmanuel Lévinas, organizzato da Daniel Charles e l'ACIPAM presso l'Université de Nice-Sophia Antipolis nell'agosto 1997.

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