21/2000
Studi di Estetica
III serie
anno XXVIII, fasc. I

Gérard Dessond
Il polso nel ritmo

 

 

Sono molti i discorsi sulla poesia che hanno ripetuto il proposito di Claudel sul "controllo" della parola attraverso la pulsazione del cuore umano, vero e proprio "metronomo interiore" dal ritmo indefinitamente binario, la cui rappresentazione, in Réflexions et propositions sur le vers français, è famosa:

 

Un. Un. Un. Un. Un. Un.

Pan (rien). Pan (rien). Pan (rien).

 

Claudel commenta: "il giambo fondamentale, un tempo debole e un tempo forte". Il commento, per quanto ne so, non ha stupito. E avrebbe dovuto. Non tanto perché assimila il ritmo alla prosodia metrica: l'analogia è antica, Galeno segnalava l'assimilazione della diastole con il tempo in levare (arsis) e la sistole con il tempo in battere (thesis).1 La stranezza del proposito deriva dal fatto che la rappresentazione accentuale che mima l'alternanza dei tempi "Pan (rien)" non è un analogo del giambo, il cui schema è la sequenza (È -): debole, forte - in realtà breve, lunga -, ma del trocheo, il cui schema è inverso (È -): forte, debole - di fatto lunga, breve. Il giambo e il trocheo sono due rappresentazioni antitetiche del ritmo. Nel primo il tempo forte è in attacco di gruppo; nel secondo è in finale.

Come spiegare questo sfasamento tra discorso e rappresentazione? Attraverso l'intento di Claudel di fare del linguaggio altra cosa di uno strumento di comunicazione, e di fare del ritmo un vero e proprio principio di vita, il pendant linguistico della "pompa della vita" cardiaca. Ciò che lo conduce ad avvicinare, in nome del ritmo, degli inavvicinabili ritmici. Inoltre, fa passare per generale ciò che in realtà egli pensa a partire dal francese - il suo testo, Sur le vers français, è situato - e dal suo schema accentuale "giambico", poiché l'accento vi è posto fondamentalmente in finale di gruppo, come Claudel spiega chiaramente: "il francese è composto da una serie di giambi il cui elemento lungo è l'ultima sillaba del fonema e l'elemento breve un numero indeterminato [_] di sillabe indifferenti che lo precedono".2

Non si tratta qui di confondere Claudel, cioè di fargli la lezione - l'insieme della sua opera mostra sufficientemente che il suo approccio alla prosodia passava attraverso il poetico e non attraverso il biologico -, ma di riflettere sul significato di una "contraddizione" che anticipa le critiche motivate da approcci cognitivisti alla letteratura. Questo iato rappresentazionale tra ritmo cardiaco e ritmo linguistico è in effetti un bel problema epistemologico: quello del modellamento mediante trasferimento di campi di conoscenza.

Non mancano esempi di scienze o di discipline che hanno trasferito nel loro proprio campo concetti provenienti da altri ambiti. È vero della letteratura, che ha preso in prestito dalla pittura la sua nozione di maniera, mentre la pittura, in cambio, le prendeva la sua nozione di stile. È vero della musica, che eredita la nozione linguistica di frase e la restituisce alla letteratura sotto la sua forma, rifatta, di fraseggio. È vero ancora della linguistica, che prende dalla botanica la sua nozione di radice, e dall'economia il suo concetto di valore.

Ma tutti questi prestiti hanno per forza di cose delle conseguenze sul pensiero dei nuovi oggetti sui quali li si fa operare. Effetti positivi - euristici - se li si concettualizza, vale a dire se li si ripensa specificamente entro il loro nuovo quadro; di fatto se li si inventa. Ma effetti negativi se li si trasferisce tali e quali, ipotizzando magicamente una applicazione senza resto. Collocherò per esempio in questa categoria, una nozione che la critica letteraria ha recentemente preso a prestito dall'intelligenza artificiale: la nozione di interfaccia. Essa possiede la temibile virtù di trasformare in questione tecnica un problema teorico, cioè epistemologico, avente per effetto il non-pensato del rapporto tra gli ambiti così articolati, come la letteratura e la biologia, il testo e l'immagine, o la vita e l'opera.

Per ritornare al paragone tra ritmo cardiaco e ritmo poetico, il proposito di Claudel fa problema in quanto è metodologicamente aporetico. Esso in effetti realizza l'incontro di due metodi differenti: un movimento che va dal biologico al poetico, con l'idea che "l'espressione sonora" è regolata da questo "strumento di misura" che è il cuore; e un movimento inverso, che va dal poetico al biologico, e che interpreta il ritmo sfigmologico mediante il modello di un piede metrico.

Se questi due movimenti appaiono qui simmetrici, essi non lo sono in teoria, poiché il linguaggio, Benveniste l'ha ricordato, è l'interpretante di tutte le pratiche umane, tra cui le scienze, deboli o forti che siano. Ciò significa che se il linguaggio, qualsiasi forma esso abbia - poesia, testo teorico - è necessariamente in una posizione di interpretanza3 nei confronti della biologia o dell'intelligenza artificiale (che ben mostra, precisamente, questa espressione), non è vero l'inverso: la biologia non è l'interpretante della letteratura se non, è vero, per metafora.

È proprio questa non-reciprocità che gli approcci cognitivisti non soltanto ignorano, facendo di questo disconoscimento un fondamento teorico, non ponendo la questione della poetica della loro teoria. Il movimento che va dal poetico al biologico è omogeneo a quello che fa del linguaggio un interpretante radicale. È antico. In ogni caso più del cognitivismo.

Secondo l'Encyclopédie di Diderot e di D'Alembert, che si fonda su Galeno, è il medico greco Erofilo che per primo ha importato nel discorso medico la nozione di ritmo, che ha preso dalla musica. Si deve a Erofilo il primo trattato sul polso [sphygmos] concepito come una teoria della misura del movimento delle arterie, movimento specifico, differente dal movimento del cuore e da quello della respirazione. Contrariamente ai medici ippocratici, che percepivano i battiti delle arterie come un movimento confuso, irregolare, Erofilo ha in un certo senso proposto che il polso è regolare nella sua irregolarità. Grossomodo che il polso ha del senso. Ciò che egli chiama un ritmo. L'Encyclopédie, che rimprovera a Erofilo di avere spinto troppo lontano la sua analogia, e di averla fatta cadere in dettagli "difficili da comprendere", spiega che il medico intendeva con questa parola "una specie di modulazione e di cadenza", moltiplicabile all'infinito, in funzione di parametri come la forza, la grandezza, le velocità, l'uguaglianza, l'ineguaglianza.

In rapporto all'età dei soggetti, egli distingueva quattro forme ritmiche di polso, che indicava a partire dal nome dei quattro piedi metrici:

 

Il primo polso che si può constatare nel neonato prende il metro di un piede a sillabe brevi; è breve nella diastole e nella sistole, e gli si riconoscono due tempi (È È pirrichio); negli individui più cresciuti il polso ha analogia con quello che i grammatici chiamano trocheo (- È): esso ha tre tempi: la diastole ne ha due e la sistole uno. - Nel polso degli adulti, la diastole è uguale alla sistole; la si paragona a uno spondeo (- -), che è il più lungo dei piedi a due sillabe, e presenta quattro tempi. [_] Il polso degli uomini al tramonto e di coloro che si avvicinano alla vecchiaia ha tre tempi; la sistole è il doppio della diastole e dura più a lungo (È - giambo).4

 

Commentando quello che doveva essere il trattato di Erofilo - lo si conosce soltanto attraverso gli scritti di Galeno e attraverso La sinossi sul polso di Rufo -, Jackie Pigeaud parla di un "vero e proprio trattato si sfigmologia metrica" (p. 261). L'abbozzo, a ogni modo, di una poetica del corpo. Certamente, riguardo alla poetica, questo modello porta in sé il suo limite, poiché riduce il ritmo poetico alla misura metrica, cioè a una tipologia dei piedi. Ciò che qui ci interessa non è tanto il modello in sé, quanto il suo modellamento, il processo che teorizza un non-conosciuto biologico attingendo dal campo di un conosciuto poetico. Non si tratta, in questo caso, di un linguaggio del corpo - il prestito della terminologia poetica non "trasforma" il corpo in linguaggio, in prosodia -, ma di fare del poetico l'interpretante del biologico.

L'effetto non è soltanto di rapportare il sapere sul corpo alla storicità del discorso, che verificherebbe, se lo si dubitasse, che noi siamo i figli della teoria che la nostra storicità di soggetti pensati è indissociabile dalla storicità dei discorsi che ci pensano; che la molteplicità dei soggetti che ci compongono coincide necessariamente con la molteplicità degli oggetti costituiti dai sistemi scientifici - con i problemi di non-coincidenza, tanto sul piano medico che su quello politico, che questo pone.

L'effetto è soprattutto quello di guardare un soggetto radicalmente soggetto, che si realizza, si inventa nell'empirico del suo divenire. Ciò che può già essere un pensiero del soggetto della poesia, nel senso di Henri Meschonnic. Poiché l'attività di interpretanza della poetica non si colloca in una relazione ermeneutica, che è una relazione di autorità: il maestro del senso, il prete decifratore, colui che possiede le chiavi. L'attività di interpretanza del linguaggio coglie anche il linguaggio, e la poesia, nel suo movimento. Nella misura in cui lavora sulla radicale alterità, trasforma se stessa attraverso l'alterità, e non può esercitarsi che come altro.

È il senso del prestito della nozione di musica da parte della letteratura, quando essa non è l'illusione che la prosodia del linguaggio è del suono e che questo suono è della musica nel linguaggio. Eustache Deschamps, nel 1392, non faceva questo errore; egli distingueva una "musica artificiale" e una "musica del linguaggio". Questa distinzione, un po' confusa nei simbolisti - anche se bisognerebbe guardarci più da vicino -, sarà ripresa da Claudel, che parla, a proposito della fonetica del francese, di "musica del linguaggio".5 Ma l'essenziale del lavoro è stato fatto da Mallarmé, in pieno periodo simbolista, il quale riprende dalla musica il "buono" delle Lettere, e lasciandole, in cambio, il suo proprio buono. La musica della poesia, allora, non è la musica. Come, in Michaux, la pittura della poesia non è la pittura. En pensant au phénomène de la peinture non è un testo che pensa sulla pittura, ma a partire dalla pittura.6 È per questa ragione che è una poesia e non un testo speculativo. Un altro testo lo dice esplicitamente: En rêvant à partir de peintures énigmatiques. Michaux riprenderà dalla pittura il buono delle Lettere. In questo caso il pensiero di un continuum.7

Quando Jackie Pigeaud commenta il trattato di Erofilo, dice: "Si credeva che il corpo funzionasse come una poesia".8 La formula è bella - ne ricorda un'altra famosa di Lacan - ma non è esatta. Erofilo non prendeva il corpo per una poesia, ma stava cercando nel poetico un sapere sul corpo. La funzione di interpretanza storicizza la metafora, e dunque la conserva; l'assimilazione la destoricizza, e tende a reificarla. Là si trova tutta la differenza tra la metaforizzazione e la poetizzazione. Poetizzare il corpo è come poetizzare il mondo. Fare del mondo, come Hugo, come Claudel, una poesia, è credere che le cose parlino, o che attraverso di esse parli Dio, Dio o l'Essere.

Storicizzare la metafora è quindi farne un motore d'alterità, fare in modo che, precisamente, il corpo non possa essere una poesia, ma che in cambio si giunga a domandarsi se e come la poesia possa essere un corpo, del corpo. Se e come il ritmo possa essere una pulsazione, che sia, in questa trasposizione, a immagine della musica della poesia: la ricerca dello specifico.

Il polso della poesia, allora, non può essere il falso giambo di Claudel - "Un. Un. Un. Un. Un. Un." - cioè una metrica ridotta, per di più, a una alternanza, ma ciò che rivela di facoltà di individuazione, il ritmo della poesia. Non si tratta, evidentemente, di costruire un vitalismo ritmico, di vedere nella metafora del polso il beneficio di una concezione del ritmo poetico come energia vivente. Dicendo questo si direbbe sicuramente qualcosa di importante ma non si saprebbe cosa.

Non si tratta dunque, lo si capisce, di costruire qui un nuovo concetto di poetica: un "poetico": un "polso della poesia" (pouls du poème) come una "musica della poesia". Da un lato non penso che la poetica ne abbia bisogno, e di conseguenza, confessiamolo, l'espressione non sarebbe troppo felice, farebbe troppo pensare a "pidocchio in testa" (pou dans la tête), trasformando in parassita ciò che tenterebbe di designare la specificità stessa della poesia. No, il problema non è questo. Io suggerisco soltanto che il modo di procedere di Erofilo era ispirato da una intuizione: la poesia è un fattore individuante nell'infinito del suo ritmo. Erofilo prende sì un modello metrico, ma è a una poetica, anche metrica, che chiedeva una teoria dell'individuazione sfigmologica.

E nel gesto di Erofilo vi è forse il pensiero, per noi che leggiamo a partire dal luogo in cui siamo, che la poesia ne sa più della biologia sull'organizzazione del vivente. Vi è forse, in ultima analisi, qualcosa di questo pensiero dell'umano che motiverà, molto tempo dopo, i lavori di Émile Benveniste. Penso in particolare al suo articolo del 1958, De la subjectivité dans le langage, dove affermava, mi pare senza eco, che "l'insediamento della 'soggettività' nel linguaggio crea, nel linguaggio e, crediamo, anche al di fuori del linguaggio, la categoria di persona".9 Avventurarsi "fuori del linguaggio", ma "nel linguaggio", dal quale effettivamente non si esce mai, è un po' quello che ha fatto Erofilo, che ha dato il ritmo al polso.

È anche ciò che ha provato Claudel, a sue spese, quando interpretava il ritmo del linguaggio attraverso il modello della pulsazione cardiaca. Aveva pensato di uscire dal linguaggio per tornarvi munito di un modello indubitabile. Ma la storia del falso giambo cardiaco mostra bene che dal linguaggio non si esce, che vi aspetta quando pensate di averlo piantato in asso, come il cane di Tex Avery. Di fatto non vi ha mai lasciato. Ed è proprio nel momento in cui si crede di opporgli un principio più credibile, perché più immediato, che vi prende a contro-mito: "Pan (rien)".

La questione del primato assoluto del linguaggio è tanto più importante, dato che la messa in relazione del ritmo e del polso comporta il problema della formulazione in teoria del linguaggio o della letteratura sul terreno fondamentale della soggettivazione. Vi è, in effetti, in Erofilo come in Claudel, la convinzione che anche se le due nozioni di ritmo e di polso10 funzionano ciascuna nel loro ordine - il linguaggio, la biologia medica -, l'individuazione cardiaca e l'individuazione poetica non sono dei processi incommensurabili, ma che si corrispondono nel campo di una antropologia globale, dove l'umano non è a immagine dell'automa cartesiano, il contenente meccanico di una entità animatrice. Il modello, allora, sarebbe piuttosto il fenomeno della voce, questa entità irriducibilmente fisica e semantica.

Tuttavia, occorre insistere, i due ordini non sono simmetrici nella loro articolazione. L'individuo umano, da qualsiasi lato lo si prenda, somatico o semantico, è a immagine del segno secondo Saussure: indivisibile, ma lo è specificamente "nel linguaggio". Il sogno panritmico è a immagine del sogno pansemiotico: un incubo. Quando si è dappertutto non si è da nessuna parte. Non vi è più alterità, più alterità prima, più identità, e più specificità. Per questo motivo occorre far posto alla critica della teoria, quando la teoria non è critica. Il che significa quando una teoria non è una teoria.

Non si tratta, beninteso, di assegnare una "forma" particolare alla teoria, di relegarla, ad esempio, nello speculativo. Una poesia può essere, a suo modo, teorica. Ma occorre anche riconoscere che parecchie teorie letterarie sono delle semplici concezioni, dei meri punti di vista. Degli slanci.

In tal modo, le buone intenzioni del tutto-per-l'euristica11 sono una nobile aspirazione quando non pensano le condizioni di una euristica. Un processo euristico non può trascendere la storicità del campo discorsivo che costituisce la specificità epistemologica di questa o quella disciplina. L'euristica, molto spesso, non è che una ermeneutica mascherata da scientismo - un amore delle parole.

Ma non si costruisce una teoria della letteratura come si fa la spesa, prendendo dei concetti qui e là, in funzione della loro apparente freschezza. L'eclettismo concettuale, che vuole essere la forma scientifica delle virtù etiche - l'apertura, il non-settarismo - fa ballare le nozioni a suono di valzer. Non è che una impresa di deconcettualizzazione. È ciò che succede al ritmo, quando ne si fa un universale, senza specificità. Nella critica letteraria o artistica, l'apprensione del ritmo si riduce spesso a un soggettivismo. Si legge allora che in quel quadro o in quella poesia "c'è del ritmo". Come se il ritmo fosse una impressione, o una quantità. Mettetene tre chili. La lezione del medico greco Erofilo va dunque meditata, poiché aveva chiamato ritmo non la percezione di un movimento ma il sentimento di una organizzazione di questo movimento, legato all'individuazione.

Questa vicenda del polso nel ritmo o del ritmo nel polso potrebbe rappresentare un aneddoto, una curiosità nella storia movimentata del concetto. Ma la sua virtù è davvero contemporanea: ci fa guardare, dal punto di vista dell'oggi, là dove, mano nella mano, letterati e scienziati guardano, con le lacrime agli occhi, sorgere le stelle.

 

[Traduzione di Rita Messori]

 

 

1 Citato da J. Pigeaud, Du rythme dans le corps. Quelques notes sur l'interprétation du pouls par le médicin Hérophile, "Bulletin de l'Association Guillaume Budé", n. 3 (1978), pp. 260-261.

P. Claudel, _uvres en prose, "La Pléiade", Paris, Gallimard, 1965, p. 5. L'allungamento è assimilato all'accentuazione: "La frase francese è composta da una serie di membri fonetici o corte onde vocali con accentuazione e insistenza più o meno lunghe della voce sull'ultima sillaba" (pp. 32-3). Il curioso utilizzo del termine "fonema", là dove ci si sarebbe piuttosto aspettati la nozione di "gruppo fonetico", è stato già sottolineato. In effetti, essa non è nella tradizione della linguistica saussuriana, ma in quella della fonetica sperimentale e della sua nozione di "parola fonetica" per designare un gruppo ritmico.

3 [L'autore utilizza il neologismo interprétance, che abbiamo tradotto con interpretanza, al posto di interpretazione, per distinguere il lavoro inter­pre­tativo aperto dalla concezione ritmica del linguaggio da quello tipico del­l'ermeneutica, che non terrebbe in debito conto il movimento storico del linguaggio - situazionale e non epocale - e l'impossibilità di uscirne. L'inter­pretanza più dell'interpretazione, è atto interpretativo radicato nel processo di individuazione del linguaggio. NdT.]

4 Citato da J. Pigeaud, op. cit., p. 260.

P. Claudel, _uvres en prose, cit., p. 34.

6 Vi è una grammatica e un lessico delle poetiche, specifici ogni volta. In Michaux pensare a significa: pensare a partire da.

7 Queste osservazioni su Mallarmé e Michaux fanno implicito riferimento a tre miei articoli, ai quali mi permetto di rinviare: La manière d'Henry: prolégomènes à un traité du trait, "La Licorne", Méthodes et savoirs chez Henri Michaux, UFR de Lettres et Langues de l'Université de Poitiers, 1993; Le Mallarmé des Sixties, "Europe", Stéphane Mallarmé, Paris, gennaio-febbraio 1998; Lire la peinture, di prossima pubblicazione in un numero speciale su Michaux della rivista "Littérature", Paris, Larousse.

J. Pigeaud, op. cit., p. 267.

É. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, 1966, p. 263 [trad. it. Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971, p. 316]. Le sottolineature sono mie.

10 Tralascio, perché non è questo il problema, il fatto che il polso, ripercussione della pulsazione cardiaca nelle arterie e oggetto della ricerca medica di Erofilo, non è la stessa pulsazione cardiaca, presa da Claudel come modello di discorso.

11 Nella presentazione del numero della rivista "TLE" (Théorie, Littérature, Einsegnement), alle Edizioni Universitarie di Vincennes, dedicata a Epistémocritique et cognition (n. 10, 1992), N. Batt si interroga sul modo in cui la teoria letteraria poteva "sentirsi riguardata dal lavoro concettuale e dal progetto di nuove discipline - l'intelligenza artificiale, ad esempio - o da questa federazione di discipline che hanno nome di scienze cognitive", e si domandava particolarmente come poteva "benficiare del potere euristico racchiuso da questi nuovi concetti matematici - sistemi dinamici non-lineari, attrattori strani, frattali - che di certi fenomeni dell'universo offrono delle nuove rappresentazioni dalla prospettiva delle nuove formalizzazioni" (p. 6).

 

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