20/1999
Studi di Estetica
III serie
anno XXVII, fasc. II

PETER KIVY
Philosophies of Arts
An essay in differences

Cambridge, Cambridge U. P., 1997

 

 

 

Come dichiara lo stesso autore nell'Epilogo, questo saggio non si propone di sostenere una tesi, quanto piuttosto di suggerire un'impostazione teorica e metodologica volta a privilegiare la ricerca delle differenze fra le arti, muovendo dalla constatazione del fallimento dei tentativi compiuti nella storia di pervenire a una definizione univoca dell'arte. Non si tratta di proporre una via antagonista rispetto all'intento definitorio, quanto piuttosto di una integrazione all'interno di un comune cammino verso la comprensione filosofica delle belle arti, nella cui prospettiva non può non apparire come una forzatura e come una riduzione di campo l'intento di perseguire i soli elementi di identità. A questo proposito, particolarmente significativa risulta la lezione dell'illuminismo, che si rivela sorprendentemente più sensibile alle differenze di quanto non appaiano, ad esempio, il romanticismo tedesco o, nel ventesimo secolo, la filosofia analitica: è pertanto da qui che si deve prendere le mosse, facendo rivivere lo spirito illuministico.

Il percorso tracciato da Kivy risulta articolato lungo due direttrici principali: da un lato, una rilettura del cammino teorico intrapreso nel XVIII secolo a partire da quello che è ritenuto dall'autore il problema fondamentale, ossia quello di definire l'opera d'arte, per giungere sino all'epoca di Danto, autore di cui Kivy non teme di esagerare l'importanza per l'estetica; dall'altro lato, l'indicazione di una via alternativa alla riflessione, ossia quella, suggerita dal sottotitolo, delle "differenze" (anziché dei parallelismi e dell'identità) fra le arti, così da contrapporre una pluralità di "filosofie delle arti" alla più consueta, monolitica, indifferenziata filosofia dell'arte. La struttura del volume rispecchia questo orientamento: nei primi due capitoli Kivy espone la sua lettura della storia dell'estetica da Hutcheson a Danto "in its attempts to define the 'modern system of the arts'" (p. X), con trasparente richiamo a Kristeller; nei capitoli dal terzo al settimo sono affrontati alcuni problemi specifici (quali l'unità di forma e contenuto, la questione della "profondità" della musica, etc.) secondo il taglio proposto dall'autore, ossia contro "l'ossessiva ricerca" di punti di contatto fra le arti.

Se per certi aspetti il saggio di Kivy rimane ancorato a posizioni teoriche che appaiono superate (ad esempio, la nozione di "belle arti", acriticamente accolta, sembra suggerire che la riflessione si muove lungo l'asse settecentesco come un suo prolungamento, sicché la lezione di apertura che proviene dall'illuminismo risulta involontariamente tradita proprio dal suo assertore: comunque la si intenda, non si può fare a meno di riferirla a un'ipotetica classificazione che decida che cosa sia "bella arte" e cosa non lo sia), in altre parti vengono suggerite interessanti chiavi di lettura dei processi storici in vista di una più profonda comprensione della contemporaneità; particolarmente degne di nota sembrano ad esempio le considerazioni sul ruolo giocato dalla musica nella storia dell'arte e dell'estetica.

Partendo dal presupposto secondo il quale (come sostiene Noël Carrol nel suo articolo Historical Narrations and the Philosophy of Art, in "Journal of Aesthetics and Art Criticism", 1993, 51, pp. 313-326) ciò che guida e motiva le nuove definizioni dell'arte nel XX secolo è il tentativo teorico di venire a patti con le incessanti rivoluzioni nella pratica artistica (detto altrimenti: obiettivo fondamentale della moderna filosofia dell'arte è il tentativo di comprendere in termini filosofici le produzioni dell'avanguardia), Kivy avanza l'ipotesi secondo cui un posto di primo piano fu occupato in questo senso dalla musica strumentale nel XVIII secolo. La sua rapida affermazione ha infatti costituito una rivoluzione artistica di enorme portata, al punto che essa può essere considerata l'avanguardia dell'epoca dell'illuminismo: se la rappresentazione, nelle vesti dell'unico principio (si ricordi la classificazione di Batteux) costituito dall'imitazione, non può più essere applicata alla musica assoluta (o strumentale), o il sistema delle belle arti crolla oppure la musica va esclusa da esso. Ecco perché, afferma Kivy, la musica strumentale ha rappresentato un punctum crucis per i teorici e i filosofi dell'illuminismo (si pensi, a titolo di esempio, al rilievo che assume nella riflessione estetica di Rousseau); fino al moderno sistema delle belle arti, incentrato sul principio dell'imitazione, né la musica vocale né la strumentale costituiscono un problema: la prima perché tranquillamente riconducibile ad esso, la seconda perché ancora bollata come irrazionale e bizzarra. È solo quando la musica strumentale prenderà il sopravvento che non potrà più essere ignorata: ciò accade nella seconda metà del XVIII secolo, quando essa si configura come l'arte sperimentale per eccellenza e, al tempo stesso, come l'alternativa alla teoria della rappresentazione-imitazione, come il suo contraltare. Il passo successivo per comprendere la contemporaneità sembra dunque l'analisi di questo processo di rovesciamento e, ci permettiamo di suggerire, di alcuni altri che non possono essere ignorati nel Novecento: la rottura provocata da Schönberg e la sua scuola agli inizi del secolo (che appare come un capovolgimento rispetto a quello che è stato letto come un processo di affermazione della tonalità) e l'avvento della musica elettronica attorno agli anni Cinquanta (che manda in frantumi la stessa antinomia musica vocale — musica strumentale, ricomponendola dialetticamente).

Il saggio di Kivy risulta dunque non pienamente convincente per l'inclinazione a un certo dogmatismo (oltre a ciò che si è detto all'inizio, si vedano anche ad esempio i passi in cui pretende di individuare il "cuore spirituale della vita creativa" di un determinato autore in un certo settore interno alla sua produzione complessiva, stabilendo gerarchie arbitrarie e rivelando una certa presunzione e superficialità) e a tratti discutibile per il suo pragmatismo fuori luogo (ad esempio là dove tende a identificare la possibilità di vivere del mestiere di compositore di musica strumentale con la centralità assunta da quest'ultima in quanto "cuore spirituale della vita creativa": come la storia insegna, la funzione svolta nella società e il riconoscimento eventualmente accordato da essa non possono essere assunti come un'indiscutibile scala di valori, perché questo significherebbe allora negare tout court l'esistenza della musica colta nell'intero Novecento). Nonostante queste riserve, è tuttavia interessante il tentativo di porre al centro proprio la musica, arte oggi quanto mai trascurata e isolata, considerata terreno da specialisti non solo in ambito teorico, ma anche sul piano dell'esecuzione e della fruizione: "Music, of all the arts, is the most philosophically unexplored and most philosophically misunderstood where it has been explored at all" (p. 139).

Alessandra Corbelli

Home Page Studi di Estetica