20/1999
Studi di Estetica
III serie
anno XXVII, fasc. II

Riccardo Campi
L'opera dell'estetica fra soggetto e storia
Ricognizioni intorno a Gérard Genette

 

 

 

I più recenti esiti della riflessione estetica di Gérard Genette si ricollegano direttamente agli esordi della sua ricerca critica, rivelando così la coerenza di una trentennale indagine, la quale ha saputo variare oggetti e lessico, e col tempo perfino il proprio stile, senza tuttavia smarrire la direzione. Una sola citazione potrà fornire di tale coerenza una testimonianza più che bastevole: "Cette 'déception' du sens qui se fige et se constitue en objet de consommation esthétique, c'est bien sans doute le mouvement (ô l'arrêt) constitutif de toute littérature. L'objet littéraire n'existe que par lui; en revanche il ne dépend que de lui, et, selon les circonstances, n'importe quel texte peut être ou n'être pas littérature, selon qu'il est reçu ô comme spectacle ou ô comme message: l'histoire littéraire est faite de ces allerretour et de ces fluctuations. C'est dire qu'il n'y a pas à proprement parler d'objet littéraire, mais seulement d'une fonction littéraire qui peut investir ou délaisser tour à tour n'importe quel objet d'écriture".[1] Tratto da un saggio apparso nel 1966 nel primo tomo di Figure, questo passo contiene in sintesi la formulazione del nucleo della problematica estetica che Genette si è trovato ad affrontare in questi ultimi anni, passando a studiare, com'egli stesso dichiara, il genus proximum, ossia la funzione artistica, dopo aver indagato a lungo la specie ad esso relativa, ossia appunto la funzione letteraria (I, 4).[2]

La costitutiva instabilità degli effetti di senso del testo è stata ripetutamente denunciata (o piuttosto, strenuamente rivendicata) dalla critica strutturalista francese degli anni Sessanta, di cui — non ci sarà bisogno di precisarlo — Genette stesso fu uno degli antesignani più giovani e brillanti.[3] Essa può anzi essere considerata come uno dei lasciti più validi e tuttora attuali di quella stagione critica. Ed è proprio a partire da questo assunto che Genette ha infatti intrapreso l'ambizioso tentativo di fornire un'ampia descrizione delle diverse modalità di funzionamento dell'opera d'arte in generale, al di là dell'ambito propriamente letterario.

La sua "teoria (meta-)estetica" (cfr. II, 183) si presenta innanzitutto come una ricognizione descrittiva dei molteplici modi di esistenza di quei particolari "oggetti estetici" che sono gli "artefatti a funzione estetica", chiamati usualmente "opere d'arte" (cfr. I, 6-7). Il primo tomo di L'Opera dell'arte ne fornisce una minuziosa tassonomia, o piuttosto una mappatura del tutto empirica. In conformità alle proprie radicali convinzioni antiessenzialistiche, sintetizzate icasticamente in una formula inequivocabile — "nulla è in sé un'opera d'arte" (II, 161, sott. nel testo) —, Genette intraprende infatti la propria impresa di "meta-estetologo" (cfr. II, 102) cartografando i diversi, concreti modi di esistenza delle opere d'arte; questo approccio analitico (ossia derivato dalla filosofia analitica anglosassone) gli permette obliterare come non pertinenti tutte quelle annose questioni che riguardano la pretesa di definire non solo i generi artistici, ormai obsoleti per generale consenso, ma le diverse arti, che da più di mezzo secolo tendono irresistibilmente a sfumare i confini che tradizionalmente le distinguevano le une dalle altre, liquidando così definitivamente anche il vecchio sistema delle arti. Il compito dell'estetica non è più quello di riconoscere, ed eventualmente fondare, la legittimità della pretesa di un dato "artefatto" di essere arte (magari con l'iniziale maiuscola). La "meta-estetica" genettiana, muovendo da presupposti analitici,[4] non intende dunque stabilire e prescrivere le condizioni, più o meno scopertamente ontologiche, in base alle quali un certo artefatto può essere legittimamente definito come arte. A scanso di equivoci, nell'introduzione generale ai due volumi, Genette si premura di indicare come oggetto di pertinenza dell'estetica (analogamente all'oggetto della poetica per Jakobson, e in accordo con l'approccio di Nelson Goodman) "meno le arti che l'arte (senza maiuscola, nell'accezione piuttosto modesta in cui si dice che vi è arte in questa o quella cosa), e meno l'arte, in fin dei conti, che l'artisticità" (I, 6). L'estetica rinuncia pertanto a ogni pretesa definitoria e normativa, limitandosi al rilievo di quegli oggetti e di quelle pratiche che, in determinate circostanze, funzionano effettivamente come arte. In tal modo, tra l'altro, si giustifica il prefisso "meta" che Genette antepone a "estetica": non si tratta di un discorso che definisce il proprio oggetto, bensì di un discorso a proposito dei discorsi che di fatto assumono come artistici taluni oggetti o pratiche. Non viene posta in discussione la legittimità o la fondatezza di tale assunzione: Genette si sobbarca invece il compito di redigere il regesto dei modi e delle circostanze in cui questa assunzione ha luogo, nonché degli slittamenti e dei mutamenti di significato e di valore che essa solitamente produce — un compito invero arduo, a causa della pressocché inesauribile molteplicità empirica di tali discorsi e modalità di ricezione. In breve, l'estetica deve dunque descrivere come e quando un determinato oggetto (che, per errore del ricevente, potrebbe anche non essere un artefatto) viene costituito e assunto come oggetto artistico, ossia come opera d'arte.

Avendo rinunciato, per partito preso antiessenzialista, a definire "che cosa è l'arte", la prima domanda cui Genette si trova a dover dare risposta riguarda il "come", ossia il modo di esistenza dell'opera d'arte, o meglio il suo statuto, ciò in cui essa consiste, nel senso più forte e, per così dire, più letterale del termine. La risposta a tale domanda è contenuta nel primo tomo, intitolato significativamente Immanenza e trascendenza. Tuttavia l'esigenza di trovare tale risposta risale ad almeno un decennio prima. Già in Palinsesti, apparso nel 1982, Genette si era imbattuto nell'imbarazzante ambiguità, tutt'altro che meramente terminologica, del significato di "imitare direttamente": nel caso di un'opera pittorica o di una scultura questa espressione significa che l'imitatore tenta di produrre con la massima fedeltà possibile, in base alle proprie capacità, una copia di quel quadro o di quella statua (e Genette al proposito rammentava la rilevanza didattica di tale pratica nelle accademie di belle arti). Mentre invece "imitare direttamente" un testo letterario o musicale è propriamente "impossibile"; ciò che di esso si può imitare — chiariva Genette — è solo il suo stile, producendo (creando) un testo diverso, poiché in ambito letterario e musicale copiare un testo è una mera attività meccanica, che in quanto tale non ha alcun significato estetico. Proprio a partire da questa "differenza di valore", Genette inferiva che ci dovesse essere "une différence de statut entre ces deux types d'art, ou, si l'on préfère, une spécificité de statut propre à ce type d'_uvres (littéraires ou musicales) qui sont des textes", e già allora egli attribuiva il compito di descrivere tale statuto a una "phénoménologie esthétique" che si facesse carico dell'"analyse comparative des types d'idéalité propres aux différents arts".[5] È evidente come già qui emerga l'esigenza di elaborare una tassonomia dei modi di esistenza delle opere che prescinda dalle tradizionali suddivisioni del sistema delle arti. Tale tassonomia non dovrà nemmeno dipendere da premesse più o meno esplicitamente assiologiche, le quali presupporrebbero un quadro di valori che oggi appaiono ai più irrimediabilmente compromessi nel loro fondamento teorico. La meta-estetica di Genette quindi si presenta innanzitutto come una fenomenologia delle arti, o meglio dei tipi di opere descritte e ordinate in base ai modi — storicamente mutevoli — in cui vengono prodotte.

Il fattore tecnico della creazione artistica si impone pertanto come determinante. L'insistita attenzione che Genette gli dedica si giustifica in quanto esso costituisce il momento propriamente produttivo, letteralmente poietico, dell'opera, che così viene descritta semplicemente come mero "artefatto" — al di qua di ogni giudizio di valore e di ogni definizione non soltanto essenzialistica, ma anche funzionalistica.[6] La tecnica con cui è stato prodotto un artefatto (il quale, inteso in senso lato, può designare tanto un oggetto fisico, oppure ideale come per esempio un testo, quanto un atto) non determina necessariamente il modo in cui esso viene fatto funzionare, ma certo determina lo statuto del suo modo di esistenza: una scultura a scalpello, un affresco, una performance d'improvvisazione, una recita teatrale, un lipogramma, un sonetto, un quartetto d'archi sono innanzitutto artefatti prodotti in virtù di determinate tecniche.[7] L'aspetto tecnico dell'artefatto permette dunque di individuare e descrivere quella "invariante extrafunzionale", cui in definitiva si riduce per Genette "'il modo di esistenza' delle opere, o piuttosto la loro esistenza, i cui modi costituiscono il loro 'statuto ontologico'".[8] Lo studio di questa "consistenza" (cfr. I, 12) non è precisamente di pertinenza dell'estetica (o, per meglio dire, della meta-estetica genettiana), quanto piuttosto dell'"ontologia delle opere d'arte" (I, 7), la quale concerne quella che Genette chiama l'"immanenza" dell'opera; l'ambizione di questa (debole) ontologia non è risolvere l'annosa questione circa il "che cosa", ma limitarsi a rispondere alla "domanda grossolana": "in cosa consiste quest'opera?" (I, 10). In definitiva, per Genette, lo statuto ontologico dell'opera non è altro che il suo modo di immanenza, e l'"ontologia" non è che una rassegna empirica e descrittiva, dei diversi oggetti d'immanenza (fisici o ideali) in cui consistono i vari tipi di opere. Una siffatta rassegna può dunque prescindere dalle tradizionali classificazioni delle arti e dei generi, al cui apriorismo definitorio tendono a sfuggire le esperienze artistiche più significative della modernità, le quali d'altronde, com'è risaputo, da due secoli a questa parte ormai hanno fatto della reazione a tali classificazioni la loro programmatica ragion d'essere.

La "fenomenologia estetica" di Genette ridisegna quello che fu il sistema delle arti, strutturandosi fondamentalmente su due categorie principali. Recuperando e adeguando ai propri fini la terminologia introdotta da Nelson Goodman, Genette parla di due "regimi d'immanenza": autografico e allografico. Tale distinzione, più pragmatica che ontologica, consente di descrivere e riconoscere i "tipi di idealità peculiari alle diverse arti", rispondendo così infine all'esigenza avanzata già dall'epoca di Palinsesti. Autografico e allografico si riferiscono alla natura degli oggetti di immanenza, i quali possono essere cose o eventi (autografici), oppure oggetti ideali (come un testo letterario o musicale) che, tramite un atto di riduzione allografica, possono — e devono — essere distinti dalle manifestazioni in cui si incarnano per essere fruibili (un testo non si identifica con il volume cartaceo in cui si manifesta, né una sonata si identifica con una sua determinata esecuzione da parte del virtuoso di turno). La differenza più vistosa tra oggetti di immanenza autografici e quelli allografici risiede nel fatto che questi ultimi non sono propriamente falsificabili, in quanto possono essere indefinitamente moltiplicabili nelle proprie manifestazioni conservando comunque la propria identità (che Genette chiama specifica, di contro all'identità materiale dell'oggetto d'immanenza autografico[9]).

È evidente, in primo luogo per Genette stesso, come questa indagine sullo statuto (onto)logico dell'opera d'arte lasci in sospeso proprio la questione dell'artisticità: l'opera per il momento (nella prima parte del primo tomo) viene vista e analizzata nei suoi tratti oggettuali, ossia negli elementi che la costituiscono come oggetto; tale oggetto, beninteso, può essere non solo fisico o ideale, ma persino "astratto", come nel caso dell'opera concettuale dove l'oggetto d'immanenza in cui essa consiste è propriamente un concetto, un'idea, astratta appunto come tutte le idee; e qui l'esempio canonico da addurre è ovviamente il ready-made (cfr. I, 145 sgg., capitolo intitolato Lo stato concettuale). A rigore anzi, fintanto che ci si limita all'ambito dell'immanenza, parlare di opera d'arte è un abuso, poiché nella prospettiva funzionalista assunta da Genette l'opera d'arte si costituisce come tale solo quando l'oggetto d'immanenza viene fatto funzionare dal ricevente che lo recepisce come un oggetto estetico intenzionale, ossia assumendolo (più o meno fondatamente) come un artefatto prodotto con l'intenzione di "candidarlo" (il termine è di George Dickie, cfr. II, 131) a un apprezzamento estetico.[10] Pertanto non si potrà nemmeno dire che lo studio dell'immanenza sia di pertinenza dell'estetica, poiché questa riguarda propriamente questa funzione, detta appunto artistica (come suona il terzo e ultimo capitolo del secondo tomo). Avendo acquisito la lezione della filosofia analitica, Genette si fa promotore in ambito estetico di una sorta di empirismo funzionalista: alla descrizione fenomenologica (empirica e, per così dire, pre-estetica o addirittura extra-estetica) del "come" dei molteplici oggetti d'immanenza, deve seguire l'analisi della relazione, non meno molteplice e differenziata, che ha luogo quando tale oggetto viene fatto funzionare dal ricevente come opera d'arte — ed è questo il compito precipuo dell'estetica (più o meno "meta").

La descrizione dell'"opera dell'arte", ossia degli oggetti, delle pratiche e delle funzioni che concorrono a costituire l'artisticità, sarebbe tuttavia gravemente deficitaria (non sarebbe anzi nemmeno estetica) senza l'analisi di un secondo modo di esistenza delle opere: la trascendenza. Questo termine, che induce irresistibilmente a evocare idee vagamente spiritualistiche e metafisiche, viene invece impiegato da Genette nel suo significato più strettamente etimologico, che non è nemmeno filosofico. Infatti "trascendere significa oltrepassare un limite, superare una recinzione" (I, 12, n. 16); in altri termini, "trascendenza" deve essere intesa semplicemente come antonimo di "immanenza". La nozione di trascendenza tuttavia compare all'interno della tassonomia genettiana svolgendo una funzione che è piuttosto complementare rispetto all'immanenza. Se quest'ultima designa l'oggetto in cui consiste l'opera, la trascendenza è il modo con cui la sua ricezione, variabile e storicamente determinata, eccede l'oggetto d'immanenza, inserendolo in una trama di relazioni instabili, che una volta si sarebbe chiamata intertestualità, o produttività dell'opera. L'oggetto d'immanenza nel momento in cui viene assunto come opera d'arte non può essere un "oggetto autonomo" (II, 206) o, come si sarebbe detto con altro gergo, "insulare": per Genette infatti l'esistenza delle opere "consiste in un'immanenza e in una trascendenza" (I, 12, sott. nel testo). Naturalmente non si può dare una trascendenza priva d'immanenza, mentre il caso inverso (un'immanenza senza trascendenza) è perfettamente concepibile, benché secondo Genette non si possa "incontrare un'opera senza trascendenza" (I, 176). Infatti, nel momento in cui l'oggetto si offre a una ricezione che non sia rivolta meramente ai suoi tratti costitutivi, esso si espone a una forma generica, ma ineludibile, di trascendenza: solo in questo caso gli elementi percettivi vengono interpretati come caratteristiche estetiche, acquistando anzi un significato propriamente artistico; altrimenti si ricadrebbe nuovamente al di qua dell'estetica. Per questo Genette afferma che nessuna opera può sfuggire del tutto alla trascendenza (I, 175): riconoscere in un pezzo di tela ricoperto da macchie di colore a olio un "quadro" significa già "trascendere" il dato strettamente percettivo, ossia immanente all'"essere-così-e-così" dell'oggetto, al suo Sosein (come avrebbe detto Alexius Meinong), e inserirlo in un orizzonte di relazioni culturali che contempla quantomeno la nozione (eminentemente tecnica e culturale) di pittura a olio.

La descrizione dei modi di esistenza delle opere non può pertanto prescindere da un'analisi dei modi di trascendenza (ai quali è dedicata tutta la seconda parte del primo tomo). Per quanto sia "un modo secondo derivato, un complemento, talvolta un supplemento palliativo all'immanenza" (I, 175), in un'estetica funzionalista come quella di Genette la trascendenza ricopre nondimeno un ruolo fondamentale, poiché proprio essa si pone come medio dialettico[11] tra l'inerzia dell'oggetto d'immanenza e la funzione artistica che lo fa agire come opera. Nella trascendenza la relazione artistica infatti è già in azione, tanto che "la relazione di 'trascendenza' tra l'opera e il suo oggetto d'immanenza può essere definita in termini funzionali: l'opera, come il suo nome in parte rivela, è l'azione esercitata da un oggetto d'immanenza" (I, 270). Citando Goodman con la consueta disinvoltura, Genette traduce function may underlie status con fonction vaut statut ("funzione equivale a statuto", I, 271): ciò significa che lo statuto dell'opera si identifica con la funzione che il suo oggetto d'immanenza esercita quando viene fatto agire in trascendenza dal ricevente. Che tale trascendenza sia poi di fatto potenzialmente illimitata, a causa dei molteplici livelli di ricezione possibili e dell'infinito reticolo di relazioni in cui qualunque oggetto può essere inserito e posto in gioco (cfr. II, 207 sgg. e 220), non costituisce un ostacolo teorico — tutt'al più sarà un impaccio pratico — per la teoria meta-estetica genettiana, la quale non si arroga alcuna pretesa definitoria né normativa. (Si tenga presente, per inciso, che l'esigenza di intraprendere uno studio, per lo più empirico e limitato all'ambito letterario, di alcuni modi di trascendenza risale almeno all'apparizione dell'Introduzione all'architesto, dove nel dialogo che conclude il volume, definendo l'architestualità come la "relation du texte à son architexte", si specificava che "cette transcendance-là est omniprésente".[12] E molti dei successivi lavori di Genette sono stati dedicati a diversi modi possibili di trascendenza testuale, dalle forme della scrittura di secondo grado e delle relazioni tra l'ipotesto e i suoi ipertesti potenzialmente infiniti, analizzate in Palinsesti, ai rapporti che il testo intrattiene con il proprio paratesto, ossia con quell'arcipelago di discorsi che prolifera nei "dintorni" — alquanto indeterminati — del testo, e questo è notoriamente l'argomento del volume intitolato Soglie (1987). Inoltre, in Finzione e dizione (1991), Genette proponeva una teoria condizionalista, che molto assomiglia al funzionalismo delle sue recenti indagini estetiche, cfr. II, 246).

La (debole) ontologia che avrebbe dovuto limitarsi a descrivere i modi di esistenza degli oggetti d'immanenza si è trasformata gradualmente[13] in una fenomenologia della relazione artistica e delle funzioni che questa mette in azione; e la trascendenza si è rivelata un momento costitutivo dell'artisticità dell'opera, in quanto introduce tra quest'ultima e il suo oggetto d'immanenza quel "gioco" (I, 175), quello scarto senza il quale l'oggetto d'immanenza rimarrebbe inerte, lettera morta. È in questo incerto margine, il quale varia con il variare dei livelli di ricezione che lo determinano, che alligna con tutte le sue ambiguità l'inestirpabile e indigesta gramigna del significato — termine pressoché assente (c'è da supporre non per un caso fortuito né per mera dimenticanza) dal lessico attuale di Genette. È il "gioco" in cui opera la trascendenza che permette a un testo, a un blocco di marmo, a un gesto del corpo, a un oggetto d'uso quotidiano, a una costruzione in mattoni, a un brandello di tela ricoperto da colori a tempera, di funzionare artisticamente, ossia di acquisire un "significato" artistico. Pertanto, diversamente dai modi di esistenza, funzione e relazione artistica non richiedono solo una descrizione, ma altresì esigono di essere spiegate proprio nella dinamica del loro funzionamento, ossia richiedono una spiegazione del significato che viene attribuito a quell'innocente oggetto d'immanenza che si mette a funzionare non come utensile o come messaggio, ma come "artefatto a funzione estetica".

È risaputo che la sostituzione della tradizionale nozione di "significato" con quella più moderna di "uso" fa parte della strategia teorica di Wittgenstein per affrontare i problemi della semantica, i quali risalgono agli albori della filosofia occidentale (benché notoriamente Wittgenstein, in apertura delle Ricerche filosofiche — debitamente menzionate da Genette —, si confronti piuttosto con Agostino di Tagaste). Tuttavia è raro, contrariamente all'ottimistica opinione dei filosofi analitici, che in filosofia i cambiamenti terminologici possano cancellare, e tantomeno risolvere, qualsivoglia problema. Benché scientemente rimossa in quanto essenzialistica, Genette ritrova la domanda circa il "che cos'è" dell'arte allorché deve rendere conto della varietà di interpretazioni dello stesso oggetto d'immanenza date da soggetti (sincronicamente) diversi, in tempi (diacronicamente) diversi. Al di là di questa molteplicità di interpretazioni continua a risuonare l'eco sorda dell'impronunciabile domanda rimossa; ma Genette, in accordo col magistero wittgensteiniano, non la ritiene pertinente: l'estetica indaga, e può legittimamente pronunciarsi, soltanto sulla relazione estetica (e più precisamente artistica) che il ricevente intrattiene con l'oggetto d'immanenza. Il funzionalismo genettiano si contrappone pertanto a ogni forma di formalismo oggettivista, dal classicismo di Boileau al New Criticism, fino ad Adorno. Il limite del formalismo è proprio il suo (apparentemente) inevitabile oggettivismo, il quale per Genette non è altro che l'incapacità di comprendere e spiegare un fenomeno banale, e d'altronde ben noto agli storici dell'arte o della letteratura: la natura metamorfica delle opere d'arte (cfr. II, 240), ossia il fatto incontestabile che "un'opera [può] mutare 'proprietà' a seconda delle condizioni cognitive della sua ricezione". Detto altrimenti, il formalismo oggettivista nega "all'opera ogni trascendenza — nel senso che la ricezione di un'opera, e la sua azione (variabile) sul suo ricevente, fanno parte integrante di tale opera — e dunque [identifica] assolutamente l'opera al suo oggetto di immanenza". In questo senso, tale forma si presenta come una sorta di riduzionismo "immanentista" (II, 176).

L'estetica dunque non pretende di spiegare, e anzi nemmeno di cercare, il significato dell'opera, che rimane chimerico (forse non è che un'impostura oggettivista), ma si limita ad analizzare la natura della relazione che si instaura tra il ricevente e l'oggetto d'immanenza, giungendo perfino a rivendicare energicamente "la legittimità soggettiva (o attenzionale) delle articità oggettivamente (o costitutivamente) illegittime" (II, 238).[14] Quello che altri chiamerebbero un errore d'interpretazione, o più brutalmente una cantonata, come prendere un ciottolo di fiume per una scultura di Brancusi, un falso di Van Meegeren per un Vermeer autentico, l'attaccapanni nell'ingresso per un ready-made, non può privare tuttavia la relazione dei suoi caratteri estetici, ossia puramente attenzionali, dei quali non est disputandum. Nondimeno, per quanto riguarda la legittimità della relazione artistica c'è invece il modo di discutere. La conoscenza da parte del ricevente di alcune informazione laterali (dette anche tecniche, in contrapposizione ai dati percettivi immanenti all'opera come oggetto) muta inevitabilmente il modo di ricezione, e dunque la funzione stessa che viene attribuita all'oggetto d'immanenza e che lo fa agire come opera d'arte. Genette tuttavia sa che in questo caso comunque ciò che muta non sono le proprietà dell'oggetto, ma la natura dell'attenzione che il ricevente dedica ad esso. Sono queste variazioni attenzionali che determinano e contraddistinguono i diversi livelli di ricezione, anche prescindendo dal "grado di coscienza" che di tale fenomeno hanno i singoli riceventi, poiché "l'importante è l'azione, percepita o meno, che questi riferimenti concettuali esercitano sull'apprezzamento delle opere" (II, 207). Tali informazioni laterali di natura tecnica, storica, culturale, possono appartenere — e per lo più di fatto appartengono — all'insieme di convenzioni che appaiono ovvie, già date, ai membri di una determinata cultura, mentre la loro acquisizione può risultare ostica ai membri di un'altra cultura: e di ciò non v'è bisogno di chiamare a testimoni gli etnologi.

Conformemente allo spirito postmoderno che aleggia su tutta l'Opera dell'arte, queste differenti modalità di ricezione non possono essere disposte "su una scala di valori, ma si distinguono forse in base a gradi quantitativi nella considerazione dei dati percettivi (attenzione primaria) e concettuali (attenzione secondaria) peculiari di ogni opera" (II, 215). L'ambizione di Genette è mantenersi sul piano dei fatti, evitando indebiti giudizi assiologici: "l'opera richiede un apprezzamento (positivo), ed è questa domanda che la definisce in quanto tale, non l'apprezzamento in quanto 'esteticamente corretta' che essa ottiene o non ottiene. La domanda in se stessa è un semplice stato di fatto, il suo riconoscimento o presupposizione è un altro, e in tutto ciò nulla coinvolge la dimensione assiologica dell'apprezzamento positivo nella definizione generale o nell'identificazione individuale dell'opera" (II, 251). Il meta-estetologo analitico non si sente legittimato a stabilire quale sia la risposta corretta a tale pressante domanda, e per di più non può nemmeno obbligare normativamente chicchessia a rispondere a essa: una tela di Rembrandt può essere liberamente usata "come asse da stiro, come coperta o come persiana" (II, 143) da un ricevente ottuso, che non riesca afferrare la domanda, o provocatorio come Duchamp (è notoriamente suo il consiglio di impiegare un Rembrandt come asse per stirare, che diverrebbe così un ready-made réciproque). Resta il fatto che qualcosa pone una domanda a qualcuno, e che qualcuno dà una qualche risposta a tale domanda (il gioco di domanda e risposta è eminentemente relazionale). L'estetica di Genette non decide della loro adeguatezza e correttezza, ma constata che tale gioco di relazioni ha effettivamente luogo, e lo descrive nel suo modificarsi col mutare del contesto e dei partecipanti (in fin dei conti una domanda resta una domanda anche se la risposta non è corretta e questa, per quanto sbagliata, rimane comunque una risposta). Genette ne conclude che "se la correzione dell'interpetazione (dell'assegnazione) è un'esigenza legittima della storia dell'arte — della storia di ogni arte —, mi sembra che non interessi affatto lo studio (meta-estetico) della relazione estetica: ogni intrepretazione, compresa naturalmente la più 'erronea', interessa questa relazione e la sua analisi" (II, 227). Per questo non pare illecito interpretare tale approccio meta-estetico come una forma di rigoroso pragmatismo (parlare di behaviourismo sarebbe eccessivo?): ciò che conta sono le pratiche che determinano l'effettivo funzionamento estetico di taluni artefatti in determinate condizioni e le reazioni che tali oggetti a loro volta producono sui loro riceventi. Genette dunque rivendica il primato della relazione artistica come oggetto di studio privilegiato dell'estetica, che si impone con l'evidenza irresistibile della propria effettualità; ad altri viene lasciato il compito di formulare giudizi (storici, metafisici, militanti), che comunque saranno tutti ineluttabilmente pregiudiziali.

L'estetica, in conclusione, dopo aver descritto lo statuto (onto)logico dell'oggetto d'immanenza, può dare conto delle variazioni attenzionali che, trascendendolo in base alle capacità cognitive del ricevente, creano sempre nuove relazioni, e quindi opere diverse. In un certo senso, ogni interpretazione, appuntando l'attenzione su aspetti diversi del medesimo oggetto d'immanenza, si esercita di fatto su un'opera diversa che essa stessa ha contribuito a produrre come tale. L'opera d'arte, privata di uno statuto ontologico forte, oggettivo, sembra allora risultare un riflesso di superficie, un'increspatura nell'oceano di relazioni cangianti, più o meno effimere, erronee e comunque contestuali, che si instaurano tra la moltitudine di artefatti prodotti con o senza intenzioni estetiche e la folla di riceventi, più o meno informati delle intenzioni del produttore, spesso irrimediabilmente irreperibile, come l'autore delle pitture rupestri di Lascaux. Malgrado l'autoironia postuma nei confronti della contrapposizione manichea tra testo e opera, cara alla teoria strutturalista (I, 210), Genette stesso sembra obliterare l'opera d'arte nella sua individualità autotelica e significante (o che almeno aspira a una qualche autonomia e significato). Ciò che si salva, nella rete di relazioni descritte dalla sua meta-estetica, è un oggetto d'immanenza esteticamente inerte e una funzione artistica che lo trascende, ossia in certo qual modo lo annulla nella misura in cui lo fa funzionare come un oggetto estetico intenzionale: l'autonomia dell'opera viene comunque negata come un'ipostatizzazione metafisica (perché, come già si rammentava, "nulla è in sé un'opera d'arte"). Nella meta-estetica, in quanto approccio analitico ai discorsi e alle pratiche che hanno come proprio oggetto l'arte, non scompaiono soltanto i valori metafisici del bello, del brutto, della riuscita operale, ma anche l'opera d'arte stessa, che non esiste in sé ma solo come effetto proiettivo dell'attenzione del ricevente, e più in generale delle condizioni culturali della ricezione. L'opera dell'arte, nella sua mutevolezza relazionale sempre in divenire, tende a cancellare l'opera d'arte; questa è destinata a mutare identità con il mutare della funzione artistica che continuamente la dissolve per ricostituirla in una pluralità operale.

Quello che risulta da questo approccio meta-estetico è un indebolimento dei criteri di artisticità, ossia di attribuzione di un oggetto al dominio dell'arte; in conseguenza di ciò a Genette non pare fondata nemmeno la pretesa di giudicare del fallimento o del successo di un'opera, la cui autonomia viene contestata per principio, perché è il soggetto ricevente che la determina in quanto tale. Su questo aspetto particolare, e tutt'altro che trascurabile della riflessione estetica, egli prende ulteriormente le distanze dalle posizioni tanto di Beardsley che di Adorno (cfr. II, 180-182 e 250 n. 180): del primo Genette trova inaccettabile il disconoscimento del ruolo svolto dall'intenzione autoriale nella costituzione dell'artisticità dell'opera e, per quanto riguarda il secondo, depreca la sua identificazione tra il concetto di opera d'arte e quello di riuscita, che implica "una dimensione assiologica, o valutativa, che farebbe del 'merito' un criterio di articità[15]": secondo Genette, il fatto che si riconosca o si presupponga la candidatura all'apprezzamento estetico di un oggetto che per questo viene assunto come opera "non comporta affatto che l'accoglienza favorevole concessa a questa candidatura (detto altrimenti: il suo successo) costituisca la condizione necessaria di una definizione teorica o di una identificazione pratica [dell'opera d'arte]" (II, 250-251). Nondimeno, malgrado l'enfasi posta sul ruolo costitutivo svolto dai modi di ricezione nella definizione dell'artisticità e malgrado la difficoltà, o piuttosto l'impossibilità, di individuare una serie di sintomi che definiscano l'artisticità dell'opera in sé (come pure credeva Goodman, cfr. II, 43-63[16]), Genette, in virtù della distinzione tra estetico e artistico, non rinuncia a cercare degli "indici oggettivi, bene o male percepiti e interpretati" che caratterizzino la relazione artistica, evitando così di abbandonarla all'arbitrarietà e all'incontrollabile soggettivismo di una ricezione sregolata (ma pur sempre legittima in linea di principio). Egli è consapevole che il relativismo della sua definizione funzionalistica della relazione artistica può sembrare "molto liberale, poiché fa dipendere la natura della relazione solo da un'opinione del ricevente" (II, 233). La relazione artistica tuttavia si fonda su un'"ipotesi": che l'intenzione del produttore dell'oggetto sia estetica, ossia candidata a un apprezzamento estetico. Essa infatti, a differenza della relazione estetica, non si risolve in una semplice disposizione attenzionale del soggetto disinteressato nei confronti di ogni altra caratteristica dell'oggetto che non sia quella aspettuale: l'artisticità di una relazione pressuppone ipotesi e congetture circa il proprio oggetto, che dovrà essere un artefatto prodotto deliberatamente con intenzioni estetiche che lo candidano all'apprezzamento. Tali congetture, diversamente dall'apprezzamento estetico, non si sottraggono alla discussione, e sarà sempre possibile verificarne la fondatezza adducendo informazioni che possono anche smentirle: "non si può confutare un apprezzamento, ma si può confutare un'ipotesi" (ibid.).

L'avversione di Genette per l'oggettivismo dei valori metafisici gli impedisce tuttavia di poter fare affidamento su un saldo criterio di verità per garantire una salda "oggettività" allo statuto della relazione artistica: la confutabilità delle ipotesi si risolve in una mera capacità di convincere il ricevente caduto in errore (ma rispetto a quale evidenza?) di passare da una credenza a un'altra. Genette stesso d'altronde si era preventivamente cautelato contro ogni possibile accusa di reintrodurre una forma di oggettivismo dissimulato, affermando che "il carattere artistico della mia relazione a questo oggetto dipende interamente, se non dalla verità delle mie congetture, almeno dalla mia credenza in questa verità" (Ibid.), la quale allora non sarà certo una verità assoluta, bensì condizionale, passibile di revisioni e aggiustamenti: in una parola, sarà una nuova convenzione. Una simile idea di credenza permette forse di disputare e discutere sulla fondatezza della relazione artistica instaurata dal soggetto ricevente, ma certamente non permetterà di risolvere la discussione: se il ricevente "in errore" passerà da una credenza a un'altra non meglio fondata, sarà indotto a farlo più dalle sottili armi della retorica e della persuasione, o dalla forza di convinzione del conformismo e delle convenzioni culturali, che dall'inconfutabilità degli argomenti del suo contraddittóre. Per definizione, una credenza vale l'altra; tutt'al più si potrà dire che una è condivisa da un maggior numero di persone, ma ciò dimostra ben poco circa la sua oggettività (cfr. II, 115-116, dove Genette cita Durkheim per parlare di un apprezzamento "collettivamente — sociologicamente — soggettivo"). A conferma di ciò Genette infatti altrove dichiara che "una credenza non ha bisogno di essere fondata per essere attiva, e una pittura rupestre o una maschera africana non hanno bisogno di essere state prodotte come opere d'arte per essere recepite e funzionare come tali, oggi e per la maggioranza delle persone" (II, 247-248). Ancora una volta l'effettualità fa legge, e una meta-estetica soggettivista e relativista coerente non può che registrare l'effettiva natura artistica di una relazione che di fatto, in un dato contesto storico e sociale, non è più distinguibile con chiarezza dalla più "liberale" relazione estetica: se nessuno può impedire che oggetti rituali e utensili primitivi vengano recepiti e fatti funzionare come opere d'arte, sarà allora lecito attribuire una funzione artistica anche agli spot pubblicitari e alla carrozzeria delle automobili — cosa che puntualmente è avvenuta, per la soddisfazione dei settatori del postmoderno (qualunque cosa si voglia intendere con questo termine discretamente nebuloso). Nemmeno a Genette sfugge la labilità della distinzione tra "articità costitutive" e "articità occasionali, o condizionali" (cfr. II, 246); la differenza, date le premesse radicalmente soggettiviste ch'egli ha assunto, non potrà che risolversi in una semplice "gradazione", o diversità di grado, per cui "forse sarebbe meglio dire che talune articità sono più costitutive di altre" (II, 247).

Ormai è chiaro come la distinzione tra relazione estetica e relazione artistica, tra oggetto d'attenzione estetica e opera d'arte, sia piuttosto una questione de facto che de iure, e che la funzione artistica è il modo irriducibilmente condizionale in cui talvolta funzionano certi strani oggetti, detti opere d'arte, presso alcune comunità umane. Cosicché, per dissipare queste ambiguità ed evitare di dissolvere la specificità dell'artistico nella genericità dell'estetico, senza dover ricorrere tuttavia a dogmatiche definizioni essenzialiste, inconciliabili con la tolleranza del suo relativismo, Genette sente l'esigenza di ricorrere (o, meglio ancora, di rimandare) alla nozione di storicità — pur senza mai tematizzarla esplicitamente. Dinanzi all'incerta funzione delle maschere africane la soluzione è derogatoria: "risolvibile o meno, la questione circa la loro intenzione originaria concerne legittimamente la storia, ma non l'estetica" (II, 248). In questo caso (ma anche precedentemente, cfr. II, 227), Genette distingue gli ambiti di pertinenza della storia da quelli dell'estetica; altrove tuttavia preciserà che "la funzione dell'estetica non consiste nel 'dirimere' le interpretazioni, gli apprezzamenti, e nemmeno le assegnazioni, generiche o di altro tipo, decidendo tra quelle 'esteticamente corrette' e quelle scorrette. Più o meno fattualmente conformi a questa o quella realtà storica, e dunque, per dirla in breve, più o meno storicamente corrette, esse possono esserlo, e talvolta essere dimostrate tali; più o meno orientate (tra l'altro) da informazioni storiche a loro volta più o meno corrette, esse lo sono per così dire sempre, e lo studio teorico delle condizioni di questo orientamento mi sembra, stavolta, di pertinenza dell'estetica, così come il loro studio empirico spetta alla storia del gusto" (II, 204). Infatti "le interpretazioni, gli apprezzamenti e le assegnazioni, generiche o di altro tipo", implicando l'intervento di un soggetto che nell'atto di recepire un determinato oggetto d'immanenza ne trascenda i dati che lo costituscono (onto)logicamente, implicano altresì che il ricevente subisca l'influenza di circostanze e tradizioni culturali, che sono indubbiamente storiche, e che l'empirismo genettiano non disconosce; da ciò è inevitabile concludere che "l'articità di un'opera è dopo tutto un fatto storico" (II, 236).

D'altronde la nozione stessa di compiutezza dell'opera si rivela storicamente determinata, in quanto essa non è desumibile dai tratti percettivi che determinano la consistenza dell'oggetto d'immanenza, essendo piuttosto di ordine funzionale. Dipende infatti dal tipo di informazioni laterali disponibili dal ricevente far funzionare un dato oggetto come un'opera compiuta o meno: "ogni manifestazione [di un oggetto d'immanenza assunto come opera d 'arte] è sempre lacunosa in rapporto al carattere inesauribile della sua appartenenza artistica. Essere incompleta è dunque inerente a ogni relazione all'opera d'arte singola, la quale non smette, progressivamente e nei modi più diversi, di evocare la totalità virtuale del mondo dell'arte" (I, 232). La trascendenza "produce" un'opera costitutivamente incompleta e plurale, che nessuna relazione artistica, nessuna interpretazione può ridurre a un significato univoco (a nessuno sfuggirà come la trascendenza riproponga qui il tema strutturalista dell'opera aperta, che Genette puntualmente rievoca, I, 210-211). La trascendenza è dunque il nome con cui Genette introduce non solo il momento soggettivo della ricezione, ma anche l'azione del tempo storico sull'oggetto d'immanenza. Parlando del carattere metamorfico dell'opera d'arte, in riferimento alle osservazioni di Malraux sul museo immaginario, Genette giunge perfino a scrivere "storia" con l'iniziale maiuscola (si tratta invero di un hapax, ma il tono non pare ironico): uno dei diversi aspetti che riguardano lo studio della trascendenza "consiste nell'evoluzione delle opere e del significato che il pubblico attribuisce loro: è l'evoluzione che viene operata e simbolizzata dal Museo, agente di 'distruzione delle appartenenze', di sradicamento dai contesti e dalle funzioni originarie; ma più in generale queste sono le modificazioni attenzionali operate dalla Storia, la maniera in cui ogni epoca, almeno per mezzo della propria produzione, trasforma la relazione alle opere del passato" (I, 240). La natura della relazione artistica è determinata dunque dal concorso di fattori storicamente mutevoli: a partire ovviamente dall'oggetto d'immanenza stesso che può subire danni e modificazioni fisiche,[17] le quali tuttavia non mancano di influenzare anche le modalità della propria ricezione, fino al ricevente, il quale non può sfuggire alle influenze della tradizione cui appartiene ed è soggettivamente condizionato nel proprio giudizio di attribuzione e apprezzamento artistici dalle informazioni laterali (ossia tecnico-storiche) di cui la sua personale cultura può disporre in un dato momento; ma anche l'intenzione di colui che produce l'artefatto a funzione estetica è soggetta ad analoghi condizionamenti (non foss'altro a quelli di natura di tecnica). L'esito cui Genette coerentemente perviene è un relativismo insuperabile: "fuori dal loro contesto, gli atti mutano funzione, e la verità è che in arte non tutto ha lo stesso senso in ogni epoca e in ogni cultura" (I, 269, sott. nel testo).

Genette sembra dunque ricorrere alla nozione di storia come a una sorta di un funtore di "variabilità contestuale" (I, 265), cui richiamarsi onde evitare il dogmatismo di un essenzialismo atemporale e sovrastorico, impossibile da fondare filosoficamente a partire dai presupposti analitici che egli ha assunto come strumenti metodologici e come fondamento teorico. La storia penetra così nello statuto costitutivo dell'opera solo come variabile temporale, permettendo a Genette (al seguito di Goodman) di ridurre la domanda circa il "che cosa" dell'arte alla questione del "quando", la quale evidentemente contribuisce a indebolire lo statuto piegandolo verso la funzione. L'estetica viene così sollevata da un reale confronto con la storia, la quale deve essere tenuta in considerazione solo in quanto rappresenta quella variabile che rende instabile, e dunque indefinibile, la funzione artistica. In questa prospettiva, a rigore, non si dovrebbe parlare nemmeno più di storia (tantomeno con la maiuscola), bensì di "storie", ossia di molteplici curve di sviluppo, o meglio di cambiamento. La meta-estetica genettiana non indaga il modo in cui le condizioni storiche potrebbero contribuire a determinare l'opera d'arte in quanto tale: essa si richiama alla storia semplicemente per ribadire che la funzione artistica, la quale costituisce il suo vero e unico oggetto d'indagine, non è in realtà un oggetto stabile e determinabile univocamente, ma indefinitamente mutevole — e per la precisione non è nemmeno un oggetto. La storia diventa in tal modo una categoria vuota, che si dispone ad accogliere i dati raccolti e accumulati dalle varie ricerche empiriche di pertinenza della storia del gusto o dell'etnologia, ma estranea all'estetica. Volendo evitare di cadere in una qualche forma di attardato "storicismo", termine che occulta spettri metafisici, per Genette tutto ciò che la storia può rivelare al ricercatore è che i livelli di ricezione sono vari, tendono a mutare e a far mutare a loro volta la relazione del ricevente con l'oggetto; ma non viene precisato quali siano i fattori storici determinanti, e in quale modo poi questi esercitino la loro influenza sull'intenzione e sulla ricezione che caratterizzano l'opera d'arte in quanto tale. Malgrado il (o forse proprio a causa del) partito preso empirista e analitico, Genette riduce la storia alla mera successione nel tempo di contesti e credenze: tutto ciò che si può concluderne è che le opere e le opinioni degli uomini sono mutevoli e periture quanto il soggetto umano stesso.

D'altra parte, per quanto lo concerne, il soggetto su cui Genette fonda la propria estetica soggettivista potrebbe essere inteso a sua volta come un funtore di relatività: il funzionalismo genettiano infatti presuppone la presenza di un soggetto che ponga di fatto l'opera in trascendenza, ovvero, per seguire Genette nel suo gioco di parole, metta in opera l'arte. Tale soggetto viene recuperato e introdotto sulla scorta dell'autorità di Kant (cfr. II, 77-84) per il quale — com'è universalmente noto — il giudizio estetico non è un giudizio logico; "il che significa che il suo principio determinante non può essere null'altro che soggettivo".[18] Genette non esita in primo luogo a dedurre da questa celebre premessa che "il contenuto dell'apprezzamento (la 'bellezza', la 'bruttezza', ecc., dell'oggetto apprezzato) non ha esistenza oggettiva, poiché risulta da una oggettivazione erronea dell'apprezzamento stesso" (II, 80), e ciò conforta Genette nella sua polemica contro le pretese essenzialistiche dell'oggettivismo. Secondariamente, da essa egli deduce che l'apprezzamento estetico[19] "è un fatto evidentemente 'soggettivo', ma ben reale come evento psicologico e osservabile, almeno indirettamente in base alle sue diverse manifestazioni, in particolare quelle verbali — e a questo titolo oggetto di studio valido e legittimo". Per cui, come già ribadito, l'estetica "in quanto studio, eventualmente in quanto 'scienza', non potrà essere altro che una 'meta-estetica', ossia lo studio dell'apprezzamento estetico stesso" (II, 80). Tale studio potrà essere "teorico (generale) o empirico (caso per caso)", ma comunque secondo Genette non potrà approdare che a un relativismo, il quale potrebbe trovare "nel soggettivismo kantiano un sostegno decisivo", benché Kant si difendesse da questa eventualità, cercando di evitarla per quanto possibile (cfr. II, 81).

Alla luce dell'interpretazione genettiana dei testi kantiani, questa strenua difesa contro il relativismo da parte di Kant non sembrerebbe coerente, e Genette, "in tutta modestia", si definisce "iperkantiano", perché è disposto a trarre invece le estreme conseguenze dalle premesse soggettiviste (cfr. II, 137). Tuttavia, benché non ne venga fornita una definizione esplicita, pare lecito credere che, quando Genette parla di soggetto e di soggettività, li intenda in maniera psicologica ed empirica: la molteplicità di apprezzamenti estetici, denunciata da Hume nel suo apologo tratto dal Don Chisciotte su cui Genette ragiona a lungo e che assume come paradigmatico (cfr. II, 71), viene ricondotta, in conformità all'empirismo humeano, alla "diversità, originaria o acquisita [dunque storica], non degli interessi, ma delle sensibilità individuali" (II, 82). Queste costituiscono dunque il momento irriducibilmente soggettivo della relazione estetica. E ciò lascia legittimamente supporre che l'idea genettiana di soggetto possa essere molto prossima a quella fenomenologica (magari di Sartre, o di Merleau-Ponty), o addirittura empiristica, come quella humeana che scorgeva nel soggetto soltanto un "fascio o collezione di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità" (Trattato dell'intelletto umano, I, 4, 6). Di certo comunque Genette non sembrebbe disposto ad accogliere un soggetto trascendentale per fondare il proprio soggettivismo. Eppure è ragionevole pensare che tale fosse il soggetto per Kant, anche nella terza Critica. Quando, per esempio, nell'Introduzione (§ VII) si legge che "ciò che è puramente soggettivo nella rappresentazione di un oggetto, vale a dire ciò che costituisce il suo rapporto col soggetto, non con l'oggetto, è la sua qualità estetica",[20] non si suole infatti dedurne che per Kant la "qualità estetica", non appartenendo all'oggetto come sua determinazione oggettiva, venga abbandonata all'arbitrarietà e alla mutevolezza dei gusti personali dei diversi soggetti riceventi.

A questo proposito Kant distingue nettamente, nella Prima introduzione che egli non diede alle stampe, il "giudizio estetico del senso" dal "giudizio estetico di riflessione" (il celebre giudizio riflettente): nel primo caso "si tratta di quella sensazione che è originata immediatamente dall'intuizione empirica dell'oggetto, mentre nel giudizio estetico di riflessione si tratta proprio di quella sensazione che è provocata nel soggetto dall'armonico gioco di immaginazione e intelletto".[21] E nel testo dell'Introduzione pubblicata quella che in questo passo viene chiamata "sensazione", in maniera ancora equivoca poiché il termine ricorre in due differenti accezioni, diventa nel secondo caso, in maniera più perspicua, quel "sentimento di piacere" (cfr. § VI), il quale "non può esprimere altro che l'accordo dell'oggetto con le facoltà conoscitive [immaginazione e intelletto] che sono in giuoco nel Giudizio riflettente" e in tale accordo consiste la "finalità soggettiva formale dell'oggetto".[22] Per quanto possa essere problematica, e legittimamente non condivisibile e discutibile, magari confutabile, l'argomentazione addotta da Kant per dimostrare che "il fondamento di questo piacere si trova nella condizione universale, sebbene soggettiva, dei giudizii riflettenti",[23] presuppone tuttavia che il soggetto in questione non sia da intendersi empiricamente, ma come un soggetto trascendentale, in quanto il sentimento di piacere che gli viene attribuito non riguarda la sfera delle sensazioni empiriche che derivano da una "rappresentazione oggettiva dei sensi", ovvero dalla "percezione d'un oggetto del senso":[24] il piacere al contrario è "fondamento di tale giudizio [riflettente] sol perché si ha coscienza che riposa unicamente sulla riflessione e sulle condizioni universali, sebbene soltanto soggettive, dell'accordo della riflessione stessa con la conoscenza degli oggetti in generale [ossia della loro forma]".[25] La "qualità estetica" è dunque soggettiva perché dipende da un principio a priori che permette al soggetto di riconoscere una finalità formale degli oggetti estetici, in particolare della natura, rispetto alla sua facoltà (soggettiva) di conoscere; infatti il sentimento di piacere concerne la "semplice apprensione (apprehensio) della forma di un oggetto dell'intuizione" (dunque non l'oggetto nella sua immediatezza sensibile), e pertanto la rappresentazione che ne deriva "non è riferita all'oggetto, ma unicamente al soggetto".[26] Per quanto non permetta di conoscere alcun oggetto per mezzo dei concetti puri della logica, ossia per mezzo delle categorie del giudizio determinante, tale principio rende possibile trascendentalmente l'azione del "Giudizio estetico" come "facoltà di giudicare delle cose secondo una regola",[27] e quindi rende[ ]possibile un giudizio che, per quanto soggettivo, può ambire a una forma di universalità che lo sottragga agli arbitrii del relativismo.

Non pare invece dubitabile che quando dichiara che "il solo principio a priori è per me la soggettività dell'apprezzamento, da cui deriva per definizione la sua relatività (i due termini sono qui di fatto sinomini: ogni apprezzamento è relativo alla soggettività di un apprezzatore), ma non la sua diversità (il disaccordo di fatto degli apprezzatori), che ne è solo una conseguenza possibile, e non necessaria" (II, 138-139), Genette intenda riferirsi al singolo "apprezzatore" e alle sue personali preferenze — e già sappiamo che una collettività (un'intera cultura) è altrettanto soggettiva nei suoi apprezzamenti: il consenso sui suoi giudizi in tal caso potrà anche aver luogo, ma sarà meramente accidentale, determinato piuttosto da consuetudini culturali, da reciproche influenze tra i membri della comunità, da suggestioni più o meno di massa, non essendoci nessun principio universale cui poter fare riferimento per pretendere legittimamente il consenso su alcun giudizio. Per questo motivo dire che la "soggettività dell'apprezzamento" è "il solo principio a priori" potrebbe trarre in inganno: questa espressione nel contesto del lavoro di Genette non può che denotare qualcosa di radicalmente diverso da quello che significa nel lessico kantiano, dove "a priori" notoriamente indica un principio o un giudizio puro, determinabile senza alcun ricorso all'esperienza empirica. Per Genette si tratta piuttosto della constatazione di fatto di un dato empirico, storico; e ciò certamente non stupisce da parte chi ha scelto di affrontare analiticamente il problema dell'esperienza estetica. Tuttavia non si può dire che una constatazione di fatto possa costituire un fondamento, il quale per definizione presuppone, come propria condizione di validità, di essere inconfutabile; e questo è precisamente quello che la filosofia analitica si rifiuta di ammettere: la legittimità di postulare a priori assiomi irriducibili e incontrovertibili.

La soggettività dell'apprezzamento è dunque assunta come un dato bruto dell'esperienza, e infatti Genette — fatto salvo il caso del passo succitato — non si richiama mai a princìpi determinanti, bensì piuttosto a contesti storici e a orizzonti di discorso, ovvero a giochi linguistici (come altri direbbero), entro i quali essa acquista di volta in volta il proprio significato, creando, screditando e ricreando altre, diverse, non meno legittime, relazioni estetiche e artistiche. Parlare di soggettività rimane tuttavia un'astrazione fintanto che non si è dichiarato "chi sia", in cosa consista tale soggetto giudicante. Se non è quello trascendentale kantiano, puro e universale, che abbraccia ecumenicamente tutti i soggetti che pensano in conformità alle leggi dell'intelletto (perfino Hal 9000 siccome, e nella misura in cui, comunica con i membri dell'equipaggio dell'astronave anch'esso deve sottostare a tali leggi), dovrà comunque essere definito e identificato in qualche modo. Se infatti si intende farne un soggetto empirico storicamente determinato, forse potrà non risultare sufficiente dire che si definisce soggetto colui o coloro che si dichiarano e vengono (unanimemente? liberamente?) riconosciuti tali in un dato contesto storico o culturale. L'evidente rischio teorico che allora si corre è quello implicito nella liberalità di ogni relativismo e pragmatismo, che sovente per riaffermare la legittimità dei diritti della differenza e della molteplicità (di contro alle istanze totalizzanti dell'universalismo di qualsivoglia provenienza), si capovolgono nell'accettazione della mera datità dell'esistente in quanto tale: l'effettualità del dato empirico finisce allora per imporsi a sua volta come legge vincolante e intrasgredibile. Quell'insieme di consuetudini, istituzioni, pratiche, valori, discorsi che i filosofi analitici chiamano il "mondo dell'arte" (Artworld), e che per Genette è del tutto "storico", finisce per fungere da orizzonte non meno trascendentale (benché non puro né propriamente a priori) che rende possibile il darsi delle molteplici relazioni estetiche e soprattutto artistiche di cui il meta-estetologo analitico si limita a rilevare l'esistenza di fatto.

Subendo la fascinazione di questa sorta di feticismo del fattuale, la teoria meta-estetica si riduce deliberatamente al silenzio per quanto concerne uno dei temi più spinosi della filosofia dell'arte: il kitsch. Questo — com'è risaputo — costituisce la falsa coscienza estetica della modernità (e della postmodernità), modificando la natura dell'esperienza che il soggetto può avere dell'arte nell'epoca della sua diffusione industriale. Una fenomenologia della relazione estetica e artistica non può permettersi di denunciare il kitsch come una modalità inautentica di fruizione delle opere d'arte o dei loro surrogati, né può deprecare la loro mercificazione, come già Baudelaire lamentava con acre ironia nei suoi Conseils aux jeunes écrivains. Dire, per esempio, che nel kitsch il pubblico di massa, semiacculturato, midcult, "consuma la sua menzogna"[28] suona indebitamente censorio nei confronti di un tipo di relazione artistica per la quale, per quanto sia deficitaria e deviante, la teoria meta-estetica non può che rivendicare pari diritti in nome dell'incontestabile evidenza che essa comunque ha luogo di fatto (e, per di più, assai diffusamente nel mondo amministrato del capitalismo avanzato). A rigore non sarebbe nemmeno possibile parlare di una relazione estetica, e in fin dei conti nemmeno di una relazione artistica, "falsa", poiché ciò presupporrebbe la possibilità di definire i caratteri di una relazione "vera o autentica" che il relativismo teorico radicale di Genette non ammette. L'esito è che il liberalismo della meta-estetica si trasforma di un formalismo privo di contenuti determinati: la sua definizione di relazione artistica abbraccia senza distinguere i più diversi livelli di ricezione, "che nulla obbliga a disporre su una scala di valori". Essi tutt'al più possono essere distinti quantitativamente, ossia "in base a gradi quantitativi nella considerazione dei dati percettivi (attenzione primaria) e concettuali (attenzione secondaria)" (II, 215). Paradossalmente la meta-estetica è una fenomenologia che non descrive né lascia emergere le differenze che percorrono e caratterizzano il suo stesso campo d'indagine: nulla per essa permette di distinguere qualitativamente il compiacimento "estetico" di chi decora il giardinetto della propria villetta a schiera con una copia in gesso in scala ridotta della Venere di Milo dalla reazione di Winckelmann al cospetto dell'Apollo del Belvedere — si tratta solo di un diverso grado quantitativo di attenzione.

La descrizione meta-estetica della relazione artistica sembra così destinata a rimanere un'astrazione astorica finché non riuscirà a descrivere quali siano i meccanismi, storici e per lo più molto concreti, che conferiscono la dignità di soggetto a qualcuno e ne decretano il diritto (di fatto, naturalmente) di giudicare arte qualche cosa. In un mondo che continua ad essere ottenebrato dall'ideologia, manipolato dalla forza persuasiva dell'industria culturale e del mercato, non sarà forse superfluo porsi almeno tale domanda. E lasciare la responsabilità della risposta a sociologi, storici, etnologi o politologi, perché non la si considera pertinente al discorso dell'estetica, significa esporsi al rischio di abbandonare quest'ultima a quella che un autore che oggi non è più elegante citare chiamava "apologetica".

 

Note:

[1] G. Genette, Figures, Paris, Seuil, 1966, pp. 146-147 (cfr. trad. it Figure, Torino, Einaudi, 1969). Genette stesso rileva, e rivendica non senza un accenno di ironia, questa coerenza al termine di un saggio di auto-esegesi, polemicamente intitolato Du texte à l'_uvre (del 1997) e raccolto in apertura di Figures IV (Paris, Seuil, 1999, p. 45); e non è certamente un caso se proprio ora ha voluto ripubblicare una breve nota che risale al 1961, intitolata Une exposition d'avant-garde (pp. 47-48), in cui si riferisce del curioso fenomeno verificatosi in occasione di una mostra di opere di Cézanne dalla quale venne rubata la tela Les joueurs de cartes: in seguito al furto, l'affluenza del pubblico aumentò notevolmente. Pur tenendo conto della morbosa curiosità che dovette indurre molti ad accorrere sul luogo del delitto, Genette ammirava in questi visitatori che contemplavano una parete bianca "cet intense effort (de mémoire pour les uns, d'invention, plus méritoire encore, pour les autres) pour reconstituer en esprit l'_uvre disparue". Una trentina di anni più tardi Genette avrebbe trovato il nome per questo tipo di relazione artistica (che già lo inquietava e che allora egli collegava alle forme dell'arte d'avanguardia): oggi potrebbe infine dire che si trattava di un esemplare caso di trascendenza dell'opera, secondo il modo della manifestazione indiretta, per cui l'opera assente viene ricostruita ed esperita dal ricevente in base a ricordi personali o a descrizioni verbali e a riproduzioni fotografiche.

[2] I riferimenti relativi alla traduzione italiana dell'ultimo lavoro in due tomi di Gérard Genette, L'Opera dell'arte, verranno sempre indicati tra parentesi nel testo: la cifra in numeri arabi si riferirà alla pagina, quella in numeri romani al volume, rispettivamente I: Immanenza e trascendenza, Bologna, CLUEB, 1999, e II: La funzione estetica, Bologna, CLUEB, 1998.

[3] Per mero scrupolo, rammentiamo che il summenzionato primo tomo di Figure apparve nel 1966, lo stesso anno in cui apparve il pamphlet barthesiano Critica e verità, che — come si suol dire — fece epoca (trad. it. Torino, Einaudi, 1969).

[4] Il termine però è mutuato da J.-M. Schaeffer, cfr. II, 80, n. 18.

[5] G. Genette, Palimpsestes, Paris, Seuil, 1982, rist. 1992, pp. 109-110 (cfr. Palinsesti, Torino, Einaudi, 1997).

[6] Si intenda il termine nell'accezione genettiana, che lo connette strettamente all'attività del ricevente che propriamente è colui che riceve l'artefatto facendolo funzionare come opera d'arte

[7] Sarà opportuno anticipare da subito che Genette, al termine del suo articolato percorso argomentativo, riconoscerà comunque "la pertinenza estetica dei dati tecnici" (contrapponendoli ai dati percettivi immanenti all'opera come mero oggetto fisico o ideale), in quanto essa "costituisce il fattore essenziale dello statuto particolare delle opere d'arte": sapere che un testo disposto su quattordici righe è un sonetto non è irrilevante per la sua ricezione (cfr. II, 179).

[8] Siccome "ontologico" suona alquanto compromettente e urta la sua sensibilità antimetafisica, Genette si affretta a chiarire che "quando non potrò evitare l'aggettivo, scriverò piuttosto, (onto)logico, poiché mi sembra che queste differenze di modo siano di ordine logico più che ontologico nel senso forte, o greve, del termine, senso che questa parentesi intende alleggerire" (I, 10).

[9] Naturalmente la descrizione di Genette contempla e analizza minuziosamente anche gli oggetti d'immanenza autografici multipli (che, come le sculture per fusione, gli arazzi o le incisioni, vengono per lo più prodotti in due fasi); in questo caso i diversi esemplari (o meglio un limitato numero di tali esemplari), pur dotati di una diversa identità numerica, vengono convenzionalmente assunti come "identici", ossia come "autentici" o "d'autore", cfr. I, 47-59.

[10] In ciò, sia detto marginalmente, risiede la fondamentale distinzione tra estetico e artistico; questione diffusamente argomentata da Genette nei primi due capitoli del secondo tomo, intitolati L'attenzione estetica e L'apprezzamento estetico.

[11] L'idea è di Martin Rueff, il quale per la precisione parla di "articolazione dialettica".

[12] G. Genette, Introduction à l'architexte, Paris, Seuil, 1979, p. 88 (cfr. trad. it. Introduzione all'architesto, Parma, Pratiche, 1981).

[13] Volendo essere pedanti, ci si potrebbe soffermare sul fatto che anche tra i modi di immanenza e quelli di trascendenza esiste un'"articolazione dialettica", rappresentata dal c.d. "stato concettuale", che designa meno un modo di esistenza che una maniera di recepire determinate opere, il cui oggetto di immanenza non è più un individuo né fisico né ideale, ma propriamente un'idea, che necessita di un ricevente per essere colta come tale; per questo Genette afferma che si può parlare di "opere concettuali" solo "quando e nella misura in cui esse vengono recepite come tali" (I, 163, sott. nel testo). In altri termini, "un'opera di fatto viene sempre recepita nello stesso tempo, ma in proporzioni variabili, come percettuale o come concettuale, e vengono chiamate 'concettuali' quelle [opere] che diversi motivi individuali e/o culturali, inducono a una ricezione di questo piuttosto che dell'altro tipo", e perciò in definitiva "l'opera concettuale è inesauribile nella sua funzione" (II, 165). È evidente come questo — determinante — intervento della ricezione apra già l'opera alla sua trascendenza illimitatamente variabile: lo statuto debolmente ontologico dell'opera concettuale, dice Genette, è analogo a quello del gag, che funziona solo se viene colto al volo, e che di fatto nemmeno esiste per chi è privo di sense of humour.

[14] Detto più esplicitamente: "La relazione artistica, ossia il fatto per un oggetto di funzionare come un'opera, non dipende necessariamente dallo statuto artistico oggettivo di tale oggetto" (II, 246).

[15] "Articità" è il neologismo che Genette introduce nel secondo tomo, laddove nel primo impiegava "artisticità", altro neologismo, più corretto, ma la cui ineleganza era stata rilevata da Michel Contat in una recensione a Immanenza e trascendenza; per errore tuttavia questi scriveva "articità", termine che Genette, non senza un filo d'ironia, ha poi deciso di adottare in sostituzione del precedente, cfr. II, 158, n. 39.

[16] Si rammenti che i "sintomi dell'estetico" (del fatto estetico) di Goodman, che non riconosce la distinzione tra estetico e artistico (I linguaggi dell'arte, Milano, Il Saggiatore, 1998, pp. 217-220), in Genette si soggettivizzano e diventano "sintomi dell'attenzione estetica".

[17] Considerate nel capitolo del primo tomo dedicato alle Manifestazioni parziali.

[18] Citiamo questo passo kantiano tratto dalla Critica del Giudizio (Bari, Laterza, 1984, p. 43) seguendo la versione francese fornita da Genette (II, 77).

[19] Secondo Gombrich, che Genette cita con parziale consenso, l'apprezzamento estetico (o piuttosto l'"atteggiamento 'critico'") "fornisce effettivamente un 'sintomo' verosimile della relazione artistica" (II, 159).

[20] I. Kant, Critica del Giudizio, ed. cit., pp. 29-30.

[21] I. Kant, Prima introduzione alla Critica del Giudizio, § VIII, Bari, Laterza, 1984, p. 103.

[22] I. Kant, Critica del Giudizio, ed. cit., p. 31.

[23] Ibid., p. 33.

[24] Ibid., p. 47.

[25] Ibid., p. 33.

[26] Ibid., p. 31.

[27] Ibid., p. 36.

[28] U. Eco, La struttura del cattivo gusto, in Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1977, p. 111; e tuttavia si tenga conto della sarcastica sufficienza con cui altrove (in particolare nella Prefazione) Eco tratta coloro che egli chiama "apocalittici".

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