20/1999
Studi di Estetica
III serie
anno XXVII, fasc. II

FRANCESCO MILIZIA
Dell'arte di vedere nelle belle arti del disegno
A cura di F. Fanizza
Bari, Edizioni B. A. Graphis, 1998

FRANCO FANIZIA (ed.)
Il consumo dell'arte nella Francia dell'Ottocento
Bari, Cacucci Editore, 2000

 

 

 

"Vedere" e "consumare" divengono, nel secolo che fu detto "dei Lumi", due aspetti complementari di quel medesimo paradigma estetico che, disarticolando la triade canonica committente-conoscitore-artista (Fumaroli), pone al centro della scena dell'arte un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo di fruitori, e dunque, per la prima volta, il pubblico per antonomasia.

La vista "il più perfetto e il più delizioso" dei nostri sensi, scriveva Addison, "ci procura una quantità infinita di idee, conversa con gli oggetti ad una distanza più grande, e la sua azione dura più a lungo...". Considerata da molti essayists ed esthéticiens settecenteschi uno dei due sensi estetici per eccellenza (l'altro essendo, in subordine, l'udito), la vista è andata via via trasmutandosi, nella riflessione e nella percezione dell'epoca, da mero veicolo meccanico di dati sensoriali disaggregati da affidare alla successiva elaborazione dell'intelletto in un organico e contestuale atto formativo, in un "vedere" su cui si viene fondando tutta una nuova estetica (e poetica) dello sguardo.

Certo, dovremmo declinare tutto ciò al plurale: battuta in breccia l'uni-versalità e uni-vocità dei vecchi "teatri della teoria", venuta meno la credibilità di una prospettiva monologica con cui traguardare la mappa dei saperi (l'Encyclopédie, con la sua pervasività destrutturante, ha scarnificato ogni presunzione assiomatica liberando così la polifonia dei punti di vista) si dovrebbe parlare piuttosto di sguardi: molteplici, diversificati, contraddittori a volte, come molteplice, diversificato, e a volte contraddittorio, è il tipo (livello) di consumo d'arte che il nuovo pubblico pone in essere. Concepire la vista, dunque, come "il più espansivo dei nostri sensi" (Starobinski), esaltare il piacere, se non addirittura la felicità, del vedere, porta diritto a quel "primato dello sguardo" che il curatore mette subito al centro della propria indagine nell'intento di esplicitarne gli importanti risvolti estetici.

Un evidente fil rouge vincola dunque, in un organico percorso, i due volumi, entrambi introdotti e arricchiti da utili apparati (completissimi quelli del "Milizia") e nell'insieme davvero assai ben curati da Franco Fanizza. Il quale, come già si voleva suggerire sopra, non cela lo sfondo teorico e storiografico entro il quale tali lavori si dispongono, quasi tappe di un ampio discorso che tende a far risaltare l'incrocio, nella modernità, fra "complessive e nuove domande di 'esteticità'", provenienti per così dire "dal basso", e l'insorgere di una riflessione teorico-prammatica sull'arte che intenzionalmente si disloca fra gli interstizi dell'estetica filosofica in senso forte, con essa in vario modo interagendo. Inutile dire che Fanizza giudica del tutto astratta (e in questo concordiamo pienamente) l'operazione storiografica di quanti disegnano aprioristiche gerarchie e distinzioni fra dottrine estetiche "maggiori" e "minori" che spesso non reggono alla verifica sul campo: "Non resta che precisare — scrive Fanizza — [...] che se c'è, come c'è, nel Settecento europeo, un'estetica che è sicuramente quella propria dei filosofi o degli accademici o dei cultori d'arte specialisti, collezionisti e conoscitori, ce n'è al tempo stesso un'altra, non soltanto parallela, ma con essa inestricabilmente incrociata, della quale occorre tener conto come dell'estetica dei meno qualificati 'amatori d'arte'". (Milizia, Introduzione, pp. VI-VII). La medesima impostazione ritorna, in forma non meno radicale, nel secondo testo che stiamo qui proponendo all'attenzione dei lettori. Pur prendendo atto che la "dottrinaria artistica", propria del Settecento francese, era "rimasta sostanzialmente ferma alla colta ma ormai assai indebolita concezione dell'ut pictura poesis", Fanizza aggiunge: "ci pare per altro verso quanto mai opportuno aggiungere che furono appunto i nuovi consumatori a contribuire comunque, 'dal basso', allo sviluppo di un'estetica vissuta come tale, ed in particolare specificata, così come si potrebbe dire, dal 'primato dello sguardo'. Quest'estetica, evidentemente, dovette per forza risultare frammentaria e frammentata, più popolare che accademica, centrifuga, per così dire, più che centripeta, ma risultò anche, proprio per questo, sempre meno succube della rigidità razionale ed insieme dell'autorità 'monarchica' della parola e perciò quanto mai vivace nella sua varia fenomenologia. Fu essa, a pensarci bene, non solo a provocare ed in ogni caso a preparare alcuni specifici mutamenti relativi alle strutture interne del sistema delle arti, bensì a determinare quelle trasformazioni epocali nella dimensione stessa della 'vita dell'arte', che sono poi quelle che fanno del Settecento un secolo a noi molto più vicino di quanto non dica la pura e semplice cronologia" (Il consumo, p. 21).

Per altro, nello specifico, fra gli autori, dei quali nel Consumo dell'arte ci viene offerta un'ampia rassegna antologica di testi, ritroviamo personaggi non certo di secondo piano — da Voltaire a D'Alembert, a Crousaz, Montesquieu, Batteux, Marmontel, Diderot, Rousseau, André, Ledoux, Boullée, Fréart de Chambray, Du Bos... — le cui riflessioni sarebbe azzardato espungere dal campo proprio dell'estetica del Settecento francese a meno di non scontare quel drammatico impoverimento di senso che connota ogni operazione storiograficamente riduttiva.

Quanto al nostro Milizia — nato in provincia, ad Oria, ma non provinciale per indole e formazione, trapiantato negli anni della maturità a Roma dove si scopre una vocazione per l'architettura, seguace dei princìpi di Sulzer e di Mengs ma anche gran divoratore (e saccheggiatore reo confesso) della trattatistica francese e tedesca (conosceva la lingua) del tempo, noto soprattutto per Le vite d'ogni nazione e d'ogni tempo, precedute da un saggio sopra l'architettura (1768), per il Trattato completo, formale e materiale del teatro (1771), oltre che per i Principii di architettura civile (1781), e per Roma delle belle arti del disegno (1787) — questo suo volumetto sull'Arte di vedere, 1781, viene ora meritoriamente riproposto da Fanizza a oltre cinquant'anni dall'edizione curata da Giulio Natali. Nel primo capitolo, ad una rassegna critica di alcuni capolavori di scultura egli fa seguire un'appendice teorica suddivisa in 41 Riflessioni nelle quali ritroviamo tematizzate alcune nozioni fondamentali dell'estetica e delle poetiche del tempo (piacere della vista, perfezione, bella natura, illusione, verosimiglianza, grazia, eleganza, espressione, carattere, ecc.) e perfino una sorta di definizione dell'estetica (in cors. nel testo) intesa come "la scienza de' sentimenti" (il termine va ricondotto naturalmente all'ambito della sensorialità) con la debita esclusione del tatto, del gusto e dell'odorato. Infatti: "Le belle arti sono per l'udito e per la vista, la quale, sebben faccia impressioni men forti di quello, le fa però più estese e più moltiplicate, e confina quasi con l'intendimento puro" (pp. 40-1, cors. mio). Con ragione, dunque, Fanizza non solo sottolinea l'importanza dell'affermazione di Milizia secondo cui "l'uomo formato dalle belle arti" deve provvedersi di una "sensibilità depurata", ovvero di uno sguardo "rischiarato", ma giustamente sostiene che "si può e si deve segnalare una rivalutazione miliziana del vedere, a condizione, però, che si tenga altresì presente come il vedere stesso venga, con molto rigore, quasi aristotelicamente inteso come una facoltà più o meno confinante con l'intendimento puro': sicché se ne derivi, anche, che il gusto o il buon gusto, a sua volta milizianamente inteso, allorché si sia constatato che esso non ha nulla di fisiologistico, va, per ciò stesso, direttamente equiparato al 'sentimento del bello, e delle varie gradazioni e delle varie specie del bello'" (p. XIII).

I successivi tre capitoli dell'Arte di vedere, dedicati rispettivamente alla Pittura, all'Architettura e all'Incisione, lasciano trasparire qua e là notazioni che confermano l'attitudine non rozzamente sincretistica del Milizia quando, di volta in volta, si sforza di conciliare, secondo una strategia solo apparentemente facile, ma per nulla ingenua, e non senza qualche piccolo tratto di originalità, nozioni desunte da fonti diverse: così, ad esempio, ritroviamo sì, e con forte evidenza, il Batteux dei Beaux-Arts réduits à un même principe, ma già (a mio avviso) in maggiore o minor misura, integrato da taluni rilievi di Diderot, assimilato attraverso gli articoli di sintesi "alla Jaucourt" della stessa Encyclopédie, nonché ancora (per esemplificare con un rimando più indiretto e tematicamente circoscritto) filtrato attraverso Laugier.

Quel che si dice di Batteux, vale naturalmente anche per altri autori, ma quel che conta, alla fine, è che Milizia, anche attraverso l'esibizione quasi impudica di tali procedure — a poco servirebbe, fra l'altro, accusarlo di non essere "sempre perfettamente in linea con gli altri teorici neoclassici" (p. XXIV), anche perché ci si potrebbe chiedere, con il provocatorio Chouillet de L'esthétique des Lumières, se il neoclassicismo esista veramente — anzi forse proprio in virtù di queste eterodossie procedurali, si propone al tempo stesso come sintomo e come interprete di quella stagione di mutazioni profonde su cui insiste coerentemente Fanizza: Milizia "riuscì a rendersi per la sua parte interprete di quei fondamentali cambiamenti, che, tanto in Europa come in Italia, nel segnare il passaggio dalla cultura primosettecentesca a quella della seconda metà del secolo, andarono al tempo stesso connotando e la produzione delle arti e le nuove modalità di fruizione delle stesse: arti che cominciarono a venir considerate in base al concetto assai prossimo a quello che oggi si direbbe di 'bene culturale'. Quasi che, dunque, pur senza alcuna pretesa di risultare particolarmente originale, conferendo però ai propri interventi una vivacità intellettuale e persino una grinta tutta personale, questo scrittore d'arte [...] sia stato in grado di andare all'incontro [...] di complesse e nuove domande di 'esteticità' di portata europea" (p. VI).

Entrano in gioco, qui, una serie di fattori: la nascita dell'idea stessa di pubblico in senso moderno, e di un nuovo pubblico fatto sempre più di categorie generiche e meno qualificabili come quella degli "amatori d'arte" rispetto a quella più specifica e limitata dei "conoscitori"; il conseguente emergere di una nuova critica d'arte; il diffondersi di un "turismo d'arte" assai meno elitario che nel passato, e lontano dalle mitologie intellettualistiche del Grand Tour, tanto da esigere, in nome di una diffusa "rivincita dello sguardo" e di un rileggittimato "piacere della vista", guide e strumenti informativi adeguati (sembra già quasi di intravedere, all'orizzonte del nuovo secolo, la civiltà degli Handbooks, dei Baedeker, delle "camere con vista"). Tutti questi fattori potrebbero forse essere sintetizzati all'estremo nella formula "dal possesso al consumo", o meglio, e ricorrendo alle parole di Fanizza, nel rilievo del "passaggio da una coscienza culturale residuamente aristocratica, tradizionalmente legata alle arti da un prevalente spirito di puro 'possesso', ad una coscienza che, del tutto differentemente, costituisce ormai il risultato finale di quella che, già per l'avanzato Seicento, il Fumaroli registra come 'l'entrata in scena dello spettatore'" (p. X).

Qui siamo già, come si vede, pienamente dentro le tematiche del volume dedicato al Consumo dell'arte, dove la già citata "entrata in scena dello spettatore" (che non cancella, certo, la permanente attrazione esercitata su taluni "dalle nostalgie e dalle suggestioni del revivalismo", p. 18) viene associata evidentemente ad un doppio e correlato fenomeno: la spettacolarizzazione dell'arte, per un verso, e per l'altro il costituirsi di un nuovo pubblico, anzi ribadiamo, con Fanizza, "più propriamente, di numerosi e tra loro diversi generi di pubblico, l'un all'altro spesso vicendevolmente contrapposti, e proprio nelle modalità concrete del loro rispettivo fruire" (p. 17). Sullo sfondo, naturalmente, c'è il Du Bos delle Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture (1719) con la sua esaltazione del "sentimento" soggettivo eletto a criterio, per così dire, democratico di giudizio e con l'invito all'artista a "porre davanti agli occhi" del fruitore (c'è ancora una reminiscenza retorica in questo richiamo) lo spettacolo delle passioni. E ritroviamo il Batteux che afferma, in un brano opportunamente ritrovato da Fanizza: "l'uomo nasce spettatore" (p. 20), e troviamo il Lacombe dello "spettacolo delle belle arti", mentre La Font de Saint-Yenne reclama per chiunque "il diritto di dare il proprio giudizio" (p. 17). Certo non manca qualche invito ad una più cautelosa prudenza, ad una certa moderazione tesa a limitare la deriva relativistica (Dézailler d'Argenville, Marmontel...), ma, insomma, la tonalità, "l'atteggiamento estetico" prevalente del tempo vengono colti bene da Fanizza quando sostiene che "fu proprio a partire dal crescente rifiuto opposto ai lacci della precedente precettistica d'arte" che "molta gente, e non solo uno sparuto numero di intenditori, cominciò ad esercitare il diritto di appellarsi alle proprie 'spontanee' e 'naturali' capacità di apprezzamento e di giudizio" stabilendo così un "rapporto quanto mai diretto ed immediato" con i prodotti artistici e con l'intero mondo dell'arte. Cosicché — sottolinea — la fruizione delle opere "piuttosto che continuare a venire regolata, come prima era accaduto, sulla base di una valutazione strettamente o prevalentemente professionale, finì invece per trascendere i limiti di qualsiasi competenza specifica, ed anche, spesso, per contestarne addirittura i corrispondenti criteri tecnici" (p. 16). C'è da aggiungere che, come spesso accade, l'affermarsi di nuove tecniche (Fanizza cita quella del pastello) si affianca (assieme ad altri fattori: il nuovo gusto dell'arredamento, della decorazione, ecc.) a tali fenomeni contribuendo a rendere possibile "rispondere a qualsiasi richiesta, anche di medio o di basso livello" proveniente dalla moltitudine dei particuliers, dei privati. (p. 19)

L'antologia, per quanto concerne la sua articolazione interna, si dispone in due parti: la prima, breve, dedicata agli antecedenti secenteschi (con un brano introduttivo di Marc Fumaroli), la seconda, suddivisa in nove sezioni, dedicata interamente al Settecento francese. Ogni sezione poi, è intitolata ad un tema ed è preceduta sempre da brani introduttivi di eminenti studiosi; e precisamente: Il pubblico (Th. E. Crow), Gli amatori d'arte (A. Fontaine), Collezionismo (J. Chatelus), I "Connoisseurs" (K. Pomian), L'Antico: i pro e i contro (J. Locquin), Nella "Repubblica delle Lettere" (J. Ehrard), A teatro (J. Scherer), Il trionfo dell'Estetica (J. Starobinski), La Critica (H. Zmijewska). Si tratta, come si vede, di una mappatura originale, assai ampia e complessa, entro la quale si organizzano e si significano i numerosissimi testi antologizzati (di alcuni autori abbiamo fatto cenno più sopra), talvolta brevi, e anche brevissimi e come lampeggianti, nella icastica giustezza delle due o tre righe, e in non pochi casi comunque sorprendenti. Il lettore scoprirà non solo l'utilità e l'interesse di una simile antologia, ma anche il gusto di percorrerla con avventuroso piacere.

Fernando Bollino

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