17/1998 Marcello
Tartaglia
Il
corteo incontrato è guidato dal dio Amore ed è composto da donne,
suddivise in tre gruppi. Nel primo gruppo ci sono donne molto belle e
ben vestite, che cavalcano un palafreno lussuosamente bardato e sono
accompagnate ciascuna da due cavalieri che procedono al loro fianco e da
un terzo appiedato che guida a mano il loro cavallo: sono, costoro,
quelle "beatissime donne" che in vita concessero il loro amore agli
amanti che ne erano degni, e che perciò ora ricevono, come ricompensa,
tale onore. Le donne del secondo gruppo sono accompagnate da una gran
quantità di servitori, a piedi e a cavallo, ma la moltitudine e la
confusione sono tali che esse, invece di essere adeguatamente servite,
ricevono soltanto impaccio nel cavalcare: si tratta delle donne che in
vita si concessero a tutti senza discrezione, e che perciò ora hanno in
cambio tale condizione disagiata. Nel terzo gruppo ci sono donne mal
vestite, costrette a cavalcare senza sella su cavalli macilenti e
zoppicanti, senza alcun cavaliere che le accompagni e le serva, per di
più accecate e soffocate dalla molta polvere sollevata dal gruppo
precedente: sono queste le donne che in vita "mantennero chiusa la
porta dell'amore", rifiutarono di concedersi anche ai cavalieri che
degnamente le avrebbero amate, preferirono la castità e perciò ora
subiscono la giusta punizione. Anche
nel regno governato dal dio Amore, ove il nobile protagonista giunge al
seguito del corteo, le tre schiere hanno una collocazione
corrispondente: di premio o di punizione, secondo criteri analoghi a
quelli riscontrati nella cavalcata. In una radura ci sono tre zone
concentriche: quella più interna (Amoenitas)
è una sorta di paradiso terrestre, e lì, all'ombra di un grande
albero e presso il trono del dio Amore, risiedono felici con i loro
cavalieri le donne che amarono e si lasciarono amare cortesemente; nella
zona intermedia (Humiditas),
su prati inondati da acqua gelida, sono collocate le donne di facili
costumi; in quella più esterna (Siccitas),
arsa da un sole cocente, si trovano le donne che si vollero mantenere
caste, ora costrette, per maggiore tormento, a sedere su dolorosi fasci
di spine. Tutto
ciò è raccontato da Andrea Cappellano nel primo libro del De
amore,[i]
il trattato in cui si dà sistemazione teorica a quella concezione dell'"amor
cortese" (o fin'amor)
che, nata in Provenza alla fine del sec. XI, si sarebbe poi diffusa
negli ambienti colti di tutta Europa.[ii] La
narrazione di visioni d'oltretomba, di defunti che ricevono premi o
punizioni a seconda del loro comportamento in vita, non è infrequente
nel Medioevo: ciò che qui è notevole è non tanto che il comportamento
in questione sia esclusivamente relativo all'amore (come era da
aspettarsi, visto l'argomento oggetto del trattato di Andrea), quanto
il fatto che l'amore sia assolutamente dissociato dall'idea
cristiana di peccato, ed anzi esaltato e premiato nell'oltretomba,
quando praticato in vita secondo i canoni della cortesia.[iii]
Né può sfuggire che, nella visione testé narrata, la condizione
peggiore (direi 'infernale', adottando una categoria che appartiene
all'oltretomba cristiano) è riservata alle donne che praticarono la
castità,[iv]
ovvero la virtù per eccellenza secondo la morale cristiana, mentre una
sorta di 'regno intermedio' c'è per le donne che, vere e proprie
lussuriose, si concessero indiscriminatamente;[v]
al 'paradiso' hanno accesso le donne che non negarono il loro amore,
ma corrisposero, com'era giusto e doveroso, alla richiesta degli
amanti cortesi.[vi] La
dottrina, dunque, che ispira la visione di Andrea, è in aperto
contrasto con la dottrina cristiana, anzi si struttura come una vera e
propria religione antitetica a quella cristiana: c'è un'oltretomba,
come s'è visto, e c'è un dio, Amore, che attribuisce premi e
castighi secondo un rigoroso contrappasso, che determina la condizione
ultraterrena in relazione al comportamento tenuto in vita. Ciò appare
anche più evidente se si nota che, nella concezione cortese, l'amore
è sì sentito come un sentimento nobile e nobilitante, ma non per
questo è ridotto ad un fatto puramente spirituale, depauperato delle
sue componenti erotico-sensuali: al contrario, tali componenti -
apertamente valorizzate nel trattato di Andrea[vii]
- costituiscono le fondamenta su cui si innalza la grande elaborazione
culturale dell'amor cortese; e il fatto che l'adulterio ne sia un
canone qualificante,[viii]
dimostra una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che l'amore di cui
si tratta è un amore-passione, in forza di ciò legittimato a
realizzarsi al di fuori dei vincoli di interesse e convenienza connessi
con il matrimonio. In altre parole si potrebbe anche dire che la
dottrina in questione, di cui Andrea è il grande divulgatore, intende
dare dignità morale a quella passione amorosa da sempre oggetto della
riprovazione della Chiesa. Nel
merito, la storia secolare dell'atteggiamento della Chiesa, da Paolo
di Tarso a Tommaso d'Aquino, è sostanzialmente una storia di
condanne: la passione d'amore, che travolge la ragione, è
peccaminosa, è il segno dell'imperfezione umana dopo la Caduta; l'amore
carnale, fuori del matrimonio, non si giustifica in alcun modo, nel
matrimonio è tollerato ai fini della procreazione, ma, anche in questo
caso, con le dovute cautele, perché il desiderio è intrinsecamente
malvagio. Basterà ricordare, per tutti, Gerolamo che, nell'Adversus
Jovinianum, bolla così il desiderio troppo intenso del
marito: Adulter est
in suam uxorem amator ardentior [...] Sapiens vir iudicio debet amare
coniugem, non adfectu [...] Nihil est foedius quam uxorem amare quasi
adulteram.[ix] Di
tutto ciò Andrea era ben consapevole, se è vero che la ritrattazione
del III libro (De
reprobatione amoris) è motivata anche dalla paura di
incorrere in una condanna per eresia. Il "cappellano", da buon
chierico, finiva per negare, in nome della verità di fede, ciò che per
due libri aveva esaltato in nome della verità di ragione: quello stesso
amore che era stato celebrato come fonte di ogni azione virtuosa e degna
di lode, viene ora indicato, nel III libro, come grave offesa a Dio,
origine di ogni comportamento delittuoso, causa di dannazione eterna. Ma
evidentemente quella ritrattazione, così poco convincente per noi,
nemmeno convinse l'autorità ecclesiastica: le "due verità" non
potevano coesistere, e la condanna (che intendeva colpire proprio la
tesi della "doppia verità" sostenuta dagli averroisti latini) si
abbatté sul libro di Andrea il 7 marzo del 1277, per opera del vescovo
di Parigi, Stephen Tempier.[x] Del
resto, quella condanna, che arrivava circa un secolo dopo la
pubblicazione del libro, non era che l'ultimo anello di una catena che
aveva finito per strangolare, insieme all'amor cortese, la
possibilità stessa di fondare una morale e un pensiero alternativi a
quelli imposti dalla ortodossia cattolica. È
una storia che, per un verso, rimanda a quella delle dispute teologiche
che, nel corso dei secoli XII e XIII, videro contrapporsi scuole di
pensiero di ascendenza aristotelica e platonica; per altro verso, si
intreccia con la vicenda della persecuzione delle eresie, che ebbe come
momento culminante la crociata contro gli Albigesi voluta da papa
Innocenzo III nel 1208. Per
quanto riguarda il primo aspetto, basterà ricordare che certo 'naturalismo'
di ispirazione platonica (si pensi, in particolare, ai poeti e filosofi
della scuola di Chartres, attivi nella prima metà del XII secolo)
proprio in quanto metteva l'accento sulle potenzialità della Natura,
vicaria di Dio, finiva anche per valorizzare l'intrinseca bontà dell'amore
terreno fra l'uomo e la donna. Il prevalere dell'aristotelismo,
soprattutto per opera di Tommaso d'Aquino nella seconda metà del XIII
secolo, sia sul piano teologico ristabilì le distanze fra il cielo e la
terra, sia sul piano morale relegò definitivamente nel territorio del
peccato l'etica profana dell'amore cortese.[xi] Ma
quell'etica dovette subire il contraccolpo anche sul fronte della
guerra che la Chiesa di Roma combatté e vinse contro le eresie. Quale
che fosse la relazione fra il catarismo, particolarmente vigoroso nel
sud della Francia, e la grande cultura cortese fiorita pressoché
contemporaneamente negli stessi luoghi,[xii]
non c'è dubbio che la crociata contro gli Albigesi non si limitò ad
estirpare la mala pianta dell'eresia, ma determinò anche in modo
irreversibile il tramonto di quella civiltà. In particolare, non poteva
avere cittadinanza all'interno della comunità cristiana la concezione
dell'amore che celebrava apertamente una passione tutta terrena e
addirittura idealizzava l'adulterio: fu perseguita come una peste,
come il frutto avvelenato di quella haeretica
pravitas che, in spregio del matrimonio, sembrava aver
rovesciato il detto paolino (melius
est nubere quam uri) nel suo contrario (melius
est uri quam nubere). II.
Ma in Italia, nel 1277, la peste si era già diffusa. Non solo perché a
quella data il De
amore risulta già conosciuto,[xiii]
ma proprio perché la lirica siciliana dell'età di Federico II sembra
avere importato in Italia quegli ideali di amore cortese, banditi nelle
terre d'origine. Di
quegli ideali si nutre più di una generazione di poeti, quegli ideali
(e quindi il De
amore, che li organizza sistematicamente) costituiscono una
componente fondamentale nella cultura di ogni poeta del sec. XIII, dai
siciliani agli "stilnovisti", da Jacopo da Lentini a Dante.[xiv] Dante
ha letto gli autori provenzali, conosce il trattato di Andrea,
padroneggia quelle problematiche, come era pressoché indispensabile per
chiunque volesse trattare d'amore. Ma è per lui un bagaglio sempre
più pesante, in quanto quella cultura, con quel sistema di valori, in
particolare con quella concezione laica dell'amore, non può non
scontrarsi, nella sua coscienza, con i dettami della morale cristiana.
Di tale scontro - e della continua ricerca di una superiore
conciliazione - è testimonianza esemplare il percorso poetico che
conduce dalla Vita
Nova alla Commedia. Ed
è interessante notare come proprio l'episodio di Francesca, nel V
dell'Inferno, sia segno di un rapporto intensamente, e
drammaticamente, vissuto dall'autore con i modelli proposti dalla
cultura cortese. Un rapporto mai dimenticato, ma ormai inaccettabile
alla luce di una concezione che ha tolto all'amore ogni connotazione
mondana per collocarlo in una dimensione autenticamente religiosa (di
una religione, cioè, in cui è Cristo abate
del collegio, e non Amore) e attribuirgli la capacità di
innalzare l'anima fino alla contemplazione di Dio. Nel
V dell'Inferno ci troviamo di fronte ad una visione dell'oltretomba
che, fatte le debite proporzioni, non può non rievocare quella
immaginata da Andrea nel I libro del De
amore: in entrambi i casi è la passione d'amore l'elemento
rispetto al quale si è giudicati e "mandati" per l'eternità.
Ovviamente, mentre in Andrea - dato l'argomento da lui trattato -
questo è l'unico motivo preso in considerazione, per Dante quello
segnato dalla passione d'amore non è che uno fra i tanti caratteri
che individuano il viaggio terreno dell'uomo e, di conseguenza, il suo
eterno destino; e mentre la visione di Andrea è soltanto un momento
didascalico all'interno di un trattato teorico, la Francesca di Dante,
nel poema cui
han posto mano e cielo e terra, non è che una figura fra le
tante che compongono il quadro, grandioso e totale, della condizione
umana. Ma
se si restringe lo sguardo al motivo oggetto di riflessione in entrambi
gli episodi (la passione d'amore, appunto, ovvero il modo in cui tale
passione è stata concepita e praticata nella vita terrena) non pare
improprio il confronto; e non solo perché, come è già stato rilevato,[xv]
è comune l'idea del viaggiatore, perdutosi nella selva, cui è
concesso di apprendere la condizione nell'aldilà perché possa
riferirne ad ammaestramento dei viventi; o perché tale condizione
appare regolata, analogamente, dalla legge del contrappasso, o per altre
similitudini che vi si vogliano riscontrare; quanto perché il confronto
ci consente di misurare appieno la distanza che separa le due
concezioni, una distanza che conduce addirittura a un rovesciamento di
prospettiva, a una inconciliabile opposizione. L'amore
esaltato da Andrea, l'amore proprio di chi ha cuore gentile, l'amore
nobile e nobilitante, e perciò santificato nel suo oltretomba, è
diventato nella Commedia
peccato di lussuria, proprio di coloro che la
ragione sommettono al talento, un peccato che conduce alla
dannazione eterna. Analogamente, alla condizione beata delle donne cui
è reso ogni onore e servizio nella visione di Andrea, corrisponde nella
Commedia
la condizione di Francesca, travolta per sempre dalla bufera infernale.
E si badi: il comportamento per cui Francesca è punita non differisce
da quello che nel De
Amore si raccomanda come esemplare; non differisce, perché
Francesca non ha concesso il suo amore indiscriminatamente, ma, lei
gentile, ha corrisposto all'amore di un uomo gentile, com'era
doveroso; né è l'adulterio a fare la differenza, visto che la
condizione extra-coniugale degli amanti è indicata espressamente nel
trattato di Andrea come qualificante l'autenticità dell'amore.
Queste cose Francesca le sa: perciò dichiara a voce alta la sua colpa,
che lei continua a non sentire come una colpa. E
ovviamente, ancor prima di lei, le sa l'autore della Commedia,
che qui si trova non solo a regolare i conti con la grande tradizione
della cultura cortese, ma anche a combattere con i fantasmi della
propria giovinezza: non altrimenti si spiega la forte intensità emotiva
che pervade l'intero episodio, e coinvolge, come mai in seguito, il
visitatore dell'oltretomba fino al punto estremo di non sopportazione
(Io venni meno
sì com'io morisse. / E caddi come corpo morto cade). Le
parole con cui Francesca si giustifica - e sono quelle racchiuse dalle
terzine famose, introdotte dalla triplice anafora Amor
ch(e)..., Amor ch(e)..., Amor... - sono parole care alle
orecchie di Dante: con quelle parole sono professati i principi dell'amor
cortese, quasi nei termini di una traduzione delle regole enunciate da
Andrea nel De
Amore.[xvi]
Di più: il primo verso (Amor
ch'al cor gentil ratto s'apprende) rimanda ad un autore
amatissimo (il
padre / mio e de gli altri miei miglior che mai / rime d'amor usar
dolci e leggiadre), quel Guinizzelli, maestro
indimenticabile, che aveva cantato Al
cor gentil rempaira sempre amore ; un insegnamento ben
recepito dall'allievo, che l'aveva ripreso in un sonetto della Vita
Nova (Amore
e 'l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare
pone). Ma
anche il "saggio" aveva sbagliato: non aveva visto il pericolo
implicito nell'affermazione di quella identità (tra amore e cor
gentile), non era riuscito a liberarsi completamente della zavorra che
tratteneva a terra quell'idea dell'amore. Beatrice ha indicato un'altra
strada: l'amore virtuoso si determina, sì, fra persone fisicamente
concrete, ma è capace di staccarsi dalla materialità corporea, si
risolve in un processo di purificazione interiore, diventa elevazione al
cielo. Fuori di questa strada c'è la prevaricazione del "talento"
sulla "ragione", e non varranno nobili intenzioni e nobile sentire a
salvare Francesca dalla dannazione eterna. Per lei, e per la sua umana
debolezza, potrà esserci "pietà", ma nel buio del cerchio in cui
è relegata sarà per sempre travolta dal turbine, così come in vita si
lasciò travolgere dalla lussuria. III.
Chi non patisce un siffatto dramma interiore, ma ha invece solide
certezze, è Jacopo Passavanti, il frate domenicano vissuto nelle prima
metà del sec. XIV, autore di un trattato (lo Specchio
di vera penitenza) in cui sono raccolte le prediche da lui
stesso tenute nella quaresima del 1354.[xvii]
Servendosi di racconti esemplari (exempla)
quanto mai vividi, Passavanti intende ammonire i fedeli ad astenersi dal
peccato e a fare penitenza, se non vogliono incorrere, dopo la morte,
nei rigori della giustizia divina. Fra questi, l'exemplum
del carbonaio di Niversa è certamente uno dei più famosi;[xviii]
ed è anche interessante per il nostro discorso, perché, essendo ancora
una volta la passione d'amore il peccato oggetto di punizione nell'aldilà,
richiama inevitabilmente alla memoria le precedenti visioni di Dante e
di Andrea Cappellano. Vi
si racconta di come un carbonaio assista nottetempo, mentre veglia
presso la fossa accesa dei carboni, alla visione terrificante di una "caccia
tragica": uno
cavaliere in su uno cavallo nero correndo, con uno coltello ignudo in
mano insegue una
femmina scapigliata e gnuda; la raggiunge e, senza pietà per
le sue grida disperate, la afferra per
li svolazzanti capelli, la trapassa in mezzo al petto con il
coltello e la getta nella fossa dei carboni ardenti; quindi la riprende tutta
focosa et arsa, la carica sul suo cavallo e se ne torna al
galoppo per la
via dond' era venuto. La visione si presenta identica per
tre notti, finché il carbonaio ne parla al conte di Niversa, il quale
assiste di persona alla visione e quindi, per quanto spaventato, osa
chiederne ragione al feroce cavaliere. Costui gli rivela che tale atroce
condizione, di cacciatore e preda, spetta a lui e alla donna che fu la
sua amante (entrambi, in vita, nobili alla corte del conte), giacché noi,
prendendo piacere di disonesto amore l'uno dell'altro, ci conducemmo
a consentimento di peccato a tal punto che lei, per essere
più libera, uccise il proprio marito; pertanto ora, per la legge del
contrappasso che regola la giustizia divina, lei, in quanto uccise il
marito, subisce ogni notte l'uccisione per mano dell'amante; e così
come arse d'amore per lui, ora è gettata da lui ad ardere nei carboni
infuocati; infine, così come in vita vide il suo amante con desiderio e
piacere, ora lo vede ogni notte con odio e terrore. Siccome poi,
chiarisce il cavaliere, loro due peccatori si pentirono in punto di
morte, la misericordia di Dio mutò
la pena eterna dello 'nferno in pena temporale di purgatorio;
pertanto egli sollecita preghiere, elemosine e messe affinché le loro
sofferenze siano alleviate. Questo,
in sintesi, l'exemplum
narrato da Passavanti. E non si può non avvertire che, per quanto la
pena descritta sia di purgatorio e non di inferno, temporanea e non
eterna, purtuttavia la stessa è così orribile che al confronto
impallidisce la pena di Paolo e Francesca (i quali, nel loro inferno,
non si vedono con odio e terrore, ma insieme
vanno ancora legati da un amore che sembra sfidare la stessa
legge divina che li ha dannati). È evidente che per fra' Jacopo la
passione d'amore non ammette scusanti, non porta con sé alcun segno
di nobiltà, è ormai soltanto esecrabile concupiscenza della carne: la
morale cristiana ha fatto valere appieno i suoi principi, senza più
dubbi e senza perplessità, quei dubbi e quelle perplessità che avevano
reso così dolorosamente lacerante l'incontro di Dante con Francesca.
E si badi: non è tanto l'uxoricidio, quanto il disonesto
amore a determinare per i due (e per la donna in particolare)
una punizione così terribile; l'uxoricidio è tuttalpiù un
aggravante, certo una conseguenza, come ogni altra nefandezza, di un
peccato che comporta offuscamento della ragione (di un peccato proprio
di coloro che, appunto, la
ragione sommettono al talento). Dunque,
il disonesto
amore: e "disonesto" perché adulterino. Niente di più
distante dalle teorizzazioni di Andrea Cappellano. Là l'adulterio,
lungi dall'essere deplorato, era raccomandato. Né si può pensare che
in Passavanti la "disonestà" sia associata alla mancanza di
cortesia dei due protagonisti; perché è vero che niente si dice sui
loro costumi e che il cavaliere non tenta di giustificare - a
differenza di quel che fa Francesca - con il "cuore gentile" la
caduta nel peccato; ma è anche vero che il loro nobile lignaggio lascia
intendere di per sé, in mancanza di indicazioni contrarie, un mondo di
belle cortesie, all'interno del quale, secondo la dottrina enunciata
da Andrea, quell'amore, ancorché carnale e adulterino, avrebbe avuto
pieno titolo per realizzarsi. L'ombra
nera della notte avvolge la scena, una notte lugubremente rischiarata
dal rosso vivo dei carboni accesi e del fuoco che spira della
boca e degli ochi e dello naso del cavaliere e del cavallo.
È la notte che si addice al peccato: la tenebra materiale corrisponde
ora a quella tenebra che in vita rese cieca la ragione, quando la
lussuria consumò la sua malaugurata vittoria. Anche per Francesca, nell'Inferno
di Dante, c'è la notte, il loco
d'ogne luce muto, il buio senza tempo e senza fine del
mondo sotterraneo. Se la luce è vita ed è salvezza, non può esserci
la luce per i maledetti da Dio. Alla
luce piena del giorno avveniva invece, nella visione di Andrea
Cappellano, l'incontro del cavaliere con il corteo guidato dal dio
Amore. Lì evidentemente la passione amorosa non implicava in alcun modo
l'idea di peccato; e questo non solo perché, come s'è visto, ad
essere punita era piuttosto la castità, ma anche perché quell'oltretomba
era associato ad un paesaggio terreno rischiarato dal sole, la visione
non comportava il passaggio ad una dimensione allucinata ed angosciante,
ma si compiva in un ambiente naturale i cui elementi, per quanto
dolorosi, sono riconoscibili e familiari, appartengono alla
quotidianità (il sole cocente, la polvere, i cavalli zoppi e macilenti,
le spine).[xix]
E ciò sembra appropriato ad una concezione laica che si serve sì, in
ossequio alle idee dominanti, di una visione ultraterrena, ma
sostanzialmente tratta in termini naturali e terreni una questione
naturale e terrena come l'amore fra l'uomo e la donna. IV.
Alla luce piena del giorno avviene anche la visione di cui narra
Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti.[xx]
E questo sarebbe già il segno, se non ci fossero anche altri e ben
vistosi elementi, di una mentalità non più ossessionata dalla paura
del peccato e della dannazione eterna. Si
tratta, come è noto, di una visione che presenta tali somiglianze con
quella del carbonaio di Niversa da far pensare che la fonte sia comune o
che Boccaccio conoscesse Passavanti.[xxi]
In
breve. Nastagio, non corrisposto nel suo amore per una
de' Traversari, si ritira da Ravenna a Chiassi. Qui un
giorno, quasi
all'entrata di maggio, essendo uno bellissimo tempo, mentre
immerso nei suoi pensieri si inoltra nella pineta, si imbatte, verso il
mezzo dì, in una
bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche,
che corre piangendo e gridando, inseguita da due
grandi e fieri mastini e da un
cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano.
Nastagio vorrebbe aiutare la fanciulla, ma il cavaliere - che si
presenta come Guido degli Anastagi, nobile ravennate, morto quando
Nastagio era fanciullo - lo invita a non impicciarsi e gli spiega che
ciò che vede è voluto dalla giustizia di Dio: lui infatti, innamorato
non corrisposto di quella fanciulla, si era ucciso disperato; lei, tutt'altro
che pentita della sua crudele ostinazione, era morta poco dopo; entrambi
sono dannati all'inferno[xxii]
e la pena consiste appunto in questa caccia, per cui lui la insegue, la
raggiunge ogni venerdì a quell'ora in quel punto, la trafigge con lo
stesso stocco con cui si era ucciso, la squarta, estrae il cuore e lo
dà da mangiare ai cani; quindi lei si rialza come se niente fosse,
ricomincia la fuga e ricomincia la caccia. E così avviene. Nastagio,
dopo essere stato per un po' tra
pietoso e pauroso, capisce di poter sfruttare l'informazione
a proprio vantaggio. Per il venerdì successivo fa apparecchiare proprio
in quel punto un grande banchetto, cui invita parenti, amici e tutta la
famiglia Traversari. La bella da lui amata, quindi, assiste alla scena
raccapricciante, ascolta la spiegazione del cavaliere e non può non
riconoscere che la stessa sorte della fanciulla dannata sarà riservata
a lei, se continuerà a rifiutare il suo amore a Nastagio. Pertanto
nottetempo gli manda una sua cameriera per fargli sapere che
ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui.
Nastagio se ne rallegra, ma risponde che con
onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie.
Lei acconsente e la storia si conclude con il lieto fine del matrimonio
cui fa seguito una lunga vita felice.[xxiii] E
dunque qui la caccia infernale ha una funzione esattamente opposta a
quella che aveva nell'exemplum
di Passavanti. Là doveva insegnare che cedere alla passione amorosa è
un peccato degno, dopo la morte, delle pene più terribili; in Boccaccio,
al contrario, è la ritrosia in amore ad essere indicata come degna del
castigo divino, e la visione serve a persuadere le donne che è bene
accondiscendere alla richiesta d'amore.[xxiv]
L'effetto parodistico è evidente,[xxv]
come è evidente che tale effetto è stato ottenuto innestando, sul
modello cristiano della caccia tragica, elementi che provenivano da tutt'altra
tradizione, e precisamente da quella che fa capo al De
amore di Andrea Cappellano.[xxvi] Qualche
osservazione basterà a dimostrarlo. Anzitutto,
i protagonisti della novella si muovono in un mondo che richiama alla
memoria, col nome stesso delle famiglie dei Traversari e degli Anastagi,
ambienti di gioiosa e raffinata cortesia;[xxvii]
e cortesi sono i modi di Nastagio, sia perché ama una donna di
condizione sociale superiore alla sua (troppo
più nobile che esso non era), come espressamente
raccomandato da Andrea,[xxviii]
sia perché, per amore, conduce la
più bella vita e la più magnifica che mai si facesse,
seguendo il precetto della liberalità, fondamentale per un amante
cortese.[xxix] Entrando
nel dettaglio, non solo l'ora meridiana (di cui s'è già detto), ma
anche la stagione primaverile e il paesaggio ameno della pineta,[xxx]
che fanno da sfondo alla visione di Nastagio, ne indicano l'affinità
con la visione del cavaliere nel libro di Andrea;[xxxi]
e il tutto, in Boccaccio, contribuisce a mitigare l'orrore della
scena. Al contrario, l'atmosfera cupa e tenebrosa, propria della linea
Elinando-Passavanti, intendeva senz'altro accentuare quell'orrore.
Quanto alla scena in sé, è vero che il cacciatore è altrettanto
spietato e violento (la caccia è altrettanto "tragica") in ambedue
le visioni, di Nastagio e del carbonaio di Niversa: ma mentre in
Passavanti la distanza dal quotidiano è volutamente marcata con l'insistenza
sul soprannaturale (si pensi a quel cavallo e quel cavaliere che spirano
fuoco dagli occhi, dal naso e dalla bocca) e sul sangue (cadendo
in terra con molto spargimento di sangue, la riprese per l'insanguinati
capelli), in Boccaccio il soprannaturale è limitato, per
così dire, allo stretto necessario (la rinascita della donna dopo lo
squartamento), ed anche l'opera del cacciatore, pur con i suoi
particolari raccapriccianti, è tutto sommato riconducibile alla
quotidianità di un lavoro da macelleria (il coltello sembra maneggiato
con una certa professionalità, quando il cacciatore dice aprola
per ischiena, e quel cuor [...] con
l'altre interiora insieme [...] le
caccio di corpo e dolle mangiare a questi cani ; e poi, di
fatto, quella
aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa dattorno,
a' due mastini il gittò); del resto, quel banchetto
preparato da Nastagio con cura e raffinatezza (fece
le tavole mettere sotto i pini dintorno [...],
fatti mettere gli uomini e le donne a tavola [...] essendo
adunque venuta l'ultima vivanda...) fa pensare ad una
cortese brigata che si accinge ad assistere ad un piacevole spettacolo,
ancorché a tinte forti, invece che ad una terribile visione: tutt'altra
atmosfera rispetto a quella, paurosa ed angosciante, che incombe sul
conte e il carbonaio di Niversa in attesa dell'evento. Se
ne può concludere, insomma, che Boccaccio tratta quel materiale
medievale con una sensibilità che non è più medievale, non solo
perché rovescia beffardamente le funzione di un exemplum
edificante, ma anche perché, coi modi stessi della narrazione, dimostra
di non avvertire, se non pretestuosamente, la presenza del divino (e del
diabolico) nelle vicende terrene. Così come, circa un secolo e mezzo
prima, non l'avvertiva Andrea Cappellano, il quale, altrettanto
pretestuosamente, per trattare d'amore si era servito del
soprannaturale. Nel
tramonto del Medioevo, è dunque la voce di Andrea che torna a farsi
sentire: la sua idea dell'amore che, fieramente osteggiata dalla
Chiesa, per sopravvivere aveva dovuto rinunciare alla sensualità e
ricoprirsi di vesti cristiane, torna con la sicurezza sorridente (e
irridente) di un autore, Boccaccio, che di certo non si sente trattenuto
da scrupoli e obiezioni di tipo religioso. Ma
l'etica cortese, cui Andrea aveva dato sistemazione nel suo trattato,
viene rivisitata e corretta alla luce dell'etica borghese, ormai
trionfante nella società cui Boccaccio appartiene. Si pensi, ad
esempio, a una certa aura di negatività che nella novella, a dispetto
del precetto cortese della liberalità, si riverbera da quello spendere
smisuratamente di Nastagio (talché i suoi parenti temono per
il patrimonio); o anche, ed è elemento davvero vistoso, alla scelta
finale del matrimonio 'onorevole', che contraddice seccamente quella
precettistica. Bisognerà appunto considerare che Boccaccio, per quanto
guardi con sincera nostalgia alle idealità di un mondo ormai lontano,
è pur sempre l'interprete di una società (borghese) in cui si sono
imposti altri valori, si rivolge ad un pubblico per il quale il lieto
fine non può essere dissociato dall'amministrazione oculata del
patrimonio e dal rispetto delle convenienze sociali.[xxxii] Si
potrebbe dire che etica cortese ed etica borghese si sono alleate,
individuando nell'etica cristiana il comune nemico. In altre parole,
riconoscere il tono parodistico della novella di Nastagio non vuol dire
negare a Boccaccio l'intenzione consapevole (del resto evidente in
tanti luoghi del Decamerone)
di sottrarre l'amore al regno del peccato per collocarlo in quello dei
bisogni naturali dell'uomo. Passavanti è lontano, ma è lontano anche
Dante. L'amore terreno non è più esecrato come causa di dannazione,
ma nemmeno è liberato dal peso della sua materialità perché possa
indirizzarsi al cielo: è semplicemente accettato come una forza
incomprimibile della natura, che determina, al pari e più di altre, i
comportamenti dell'uomo. E
naturalmente non desta meraviglia che a tale mutamento di prospettiva
dia voce un autore così rappresentativo di quell'età di transizione
in cui comincia ad affermarsi una nuova concezione dell'uomo e del
mondo. Non sarà un caso se alla fine del Quattrocento, Botticelli -
che pure opera in un ambiente di alta spiritualità quale quello
neo-platonico della corte di Lorenzo de' Medici - illustrerà
proprio la novella di Nastagio in quattro tavolette destinate a decorare
la cassa da corredo per una sposa;[xxxiii]
e se in pieno Rinascimento, Ariosto, visibilmente riallacciandosi a
quella tradizione che risaliva ad Andrea Cappellano, immaginerà punite
all'inferno, ancora una volta, le donne che non vollero amare ed
essere amate.[xxxiv] [i]
Dell'autore poco si sa, se non che fu attivo fra la seconda metà
del sec. XII e i primi decenni del secolo successivo, e,
presumibilmente, fu 'cappellano' (da cui l'appellativo con cui
è ricordato nei codici) prima alla corte di Maria di Champagne, poi
a quella del re di Francia Filippo Augusto. L'opera, a cui è
legata la sua fama, il De amore
(o De arte honeste amandi), è un trattato in tre libri, scritto
in latino e tradotto ben presto nelle principali lingue indo-europee
(lo cito nell'edizione a cura di G. Ruffini, Milano 1980). [ii]
Si tratta di una concezione sulle cui origini (latine, germaniche,
celtiche, arabe) molto si è discusso, ma che indubbiamente - quali
che siano gli stimoli culturali in essa confluiti: si pensi,
soprattutto, all'Ars amandi
di Ovidio - si pone come radicalmente nuova, sia rispetto alla
tradizione classica (che concepisce l'amore come sensuale, fonte
di gioia e dolore, ma sempre, in definitiva, come una malattia che
fa perdere il senno), sia, come diremo, rispetto alla concezione
cristiana. Nuova è l'idealizzazione della donna, cui l'uomo si
sottomette con umiltà e fedeltà di 'vassallo', e nuova è l'idea
dell'amore come un sentimento nobile e nobilitante, proprio
soltanto di chi ha costumi, ed animo, 'cortesi'. Ed è una
novità che impronterà di sé la cultura occidentale fino ai giorni
nostri. Della
vastissima bibliografia in merito, mi limiterò a ricordare gli
studi più significativi: M. Fauriel,
Histoire de la poésie
provençale, Parigi 1846; E. Wechssler,
Frauendienst und Vassalität,
in "Zeitschrift für französische Sprache und Literature", xxiv, Iena 1902; Das
Kulturproblem des Minnesangs, Halle 1909; J. Anglade, Les troubadours,
leurs vies, leurs ouvres, leur influence, Parigi 1908;
A. Jeanroy, La poésie lirique des Troubadours, Parigi 1934; C. S. Lewis,
The Allegory of Love,
Oxford, 1936 (tr. it., L'allegoria d'amore, Torino 1969); A.J. Denomy
C. S. B., An Inquiry into
the Origins of Courtly Love, in "Mediaeval Studies", vi,
Londra 1944; Fin'Amors: the
Pure Love of the Troubadours, its Amorality, and Possible Source,
ibid., vii, 1945; R. Nelli, L'érotique des
troubadours, Parigi 1974 [Tolosa 1963]; R. Bezzola, Les origines et la
formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200),
Parigi 1944-63; M. Lazar,
Amour courtois et "fin'amors"
dans la littérature du XIIe siècle, Parigi 1964; C. Camproux,
Le Joy d'Amor des Troubadours,
Montpellier 1965; A. Viscardi,
Tradizione latina e origini
romanze, in Le Origini,
Milano 1966 [1939]; I. Margoni,
Fin'amors, mezura e cortesia. Saggio sulla lirica provenzale del XII
sec., Milano 1965; E. Köhler,
Sociologia della fin'amors.
Saggi trobadorici, Padova 1976; H. Rey-Flaud,
La nevrose courtoise, Parigi 1983 (tr. it., Parma 1991).
Per altre indicazioni bibliografiche, rimando allo studio di R.
Nelli sopra citato (tomo II, pp. 383-97), nonché alla bibliografia
ragionata, a cura di A. M. Finoli, in appendice a M. Viscardi,
Le letterature d'oc e d'oil,
Firenze-Milano 1967 (pp. 429-52). [iii]
Ricordo che una visione piuttosto simile si trova nell'anonimo Lai
du trot, composto in lingua d'oil (lo si può leggere
in P. M. O'Hara Tobin,
Les lais anonymes des XIIe
et
XIIIe
siècles,
Genève 1976). Problemi di datazione non consentono di stabilire
quale dei due testi sia stato di modello all'altro, anche se è
presumibile un'anteriorità del trattato di Andrea. [iv]
"illae
omnium mulierum miserrimae, quae, dum viverent, cunctis amoris
intrare palatium clausere volentibus [...] omnes amoris postulantes
deservire militiae abiecerunt et tamquam sibi odiosos repulerunt [le
donne più miserabili di tutte, che, in vita, chiusero la porta a
tutti quelli che volevano entrare nel palazzo di amore ...
rifiutarono e respinsero come odiosi coloro che chiedevano di
servire in amore]" (De amore,
cit., p. 86). [v]
"mulieres
istae immundae, quae, dum viverent, non sunt veritae cunctorum se
voluptati exponere [donne immonde, che, in vita, non ebbero ritegno
di offrirsi al piacere di tutti]" (ibid.). [vi]
"beatissimae
feminae, quae, dum viverent, sapienter se amoris noverunt praebere
militibus et amare volentibus cunctum praestare favorem
[donne beatissime, che, in vita, seppero saggiamente
offrirsi ai cavalieri d'amore e concessero tutto il loro favore a
quelli che volevano amarle]" (ibid.). [vii]
In esso si distingue, è vero, fra amor
purus e amor mixtus ; ma l'amore 'puro', che è quello ideale,
da praticarsi dai veri amanti, lungi dall'essere un amore
spirituale, si risolve in un raffinato gioco erotico fondato sul
controllo del desiderio: sono concessi il bacio della bocca, le
carezze e l'abbraccio fra gli amanti nudi, "escluso il
congiungimento carnale" (extremo
praetermisso solatio); d'altra parte l'amore 'misto'
è, sì, inferiore, in quanto cede al desiderio e si sazia nell''ultimo'
piacere (in extremo opere Veneris
terminatur), ma non per questo è da evitarsi
assolutamente, giacché "anche l'amore misto è vero amore, da
lodarsi, origine di ogni bene" (nam
et mixtus amor verus est amor atque laudandus et cunctorum esse
dicitur origo bonorum). Cfr. De
amore, cit., pp. 162-4; e anche pp. 240-2. [viii]
Ciò non solo è evidente nella letteratura cortese, dalla lirica
provenzale ai romanzi cavallereschi, ma è espressamente dichiarato
proprio nel De amore:
"nulla etiam coniugata regis poterit amoris praemio coronari, nisi
extra coniugii foedera ipsius amoris militiae cernatur adiuncta
[nessuna donna, anche moglie di re, potrà essere degna di elogio in
amore, se non amerà fuori del vincolo coniugale]" (cit., p. 139) [ix]
"È adultero chi ama la propria moglie con troppo ardore... L'uomo
saggio deve amare la moglie con giudizio, non con passione... Non c'è
niente di più turpe che amare la moglie come un'adultera" (Adversus
Jovinianum, libro i,
§ 49, in Patrologia Latina,
xxiii, Turnhout 1969, p. 293). [x]
Anche la questione della ritrattazione è stata oggetto di varie
interpretazioni. A
me pare convincente la tesi, sostenuta da M. Grabmann
(Das Werk De amore des
Andreas Capellanus und das Verurteilungsdektret des Bischofs Stephan
Tempier von Paris vom 7. März 1277,
in "Speculum", vii,
1932, pp. 75-9) e successivamente ripresa da A. J. Denomy C. S. B. (The
[xi]
A questa problematica accenna D'Arco
S. Avalle, in Ai luoghi di
delizia pieni, Milano-Napoli 1977, pp. 23 e sgg. In
particolare sulla scuola di Chartres si possono vedere C.S. Lewis,
L'allegoria d'amore,
cit. (pp. 85-107) e E. Curtius,
Europäische und lateinisches
Mittelalter, Berna 1948 (tr. it., Letteratura
europea e Medioevo latino, Firenze 1992, pp. 123-45). [xii]
È una tesi che ha suggestionato più di uno studioso. Valga, per
tutti, il bel libro di D. de Rougemont, L'Amour et
l'Occident, Parigi 1939 (tr. it., L'amore
e l'occidente, Milano 1977). [xiii]
Nel 1238 Albertano da Brescia, nel suo Liber
de amore et dilectione Dei et proximi, cita l'opera di
Andrea indicandola con le parole iniziali (Amor
est passio quaedam innata...). [xiv]
Le tesi di Andrea sulla natura dell'amore sono facilmente
riconoscibili nel sonetto di Jacopo da Lentini Amor
è uno desio che ven da core. D'Arco S. Avalle ha
mostrato poi come le stesse tesi ritornino in Guittone e Guinizzelli,
in versione, rispettivamente, "democratica" e "aristocratica"
(Due tesi sui limiti di amore,
in Ai luoghi di delizia pieni,
cit., pp. 25-38); e Guittone in particolare sembra avere redatto,
sulla base degli insegnamenti di Andrea, un vero e proprio "manuale
del libertino" (Il manuale del
libertino, ibid.,
pp. 56-86). Anche Cavalcanti e Cino da Pistoia, per restare ai
maggiori, dimostrano di conoscere Andrea: il primo lo cita
raffigurandolo "coll'arco in mano", e quindi identificandolo
addirittura con Amore; il secondo ricorda il "libro di Gualtieri",
confondendo, come succederà spesso in seguito, l'autore del De
amore con il personaggio a cui il libro è dedicato. [xv]
Da D. De Robertis (Il libro della
'Vita Nuova', Firenze 1961, pp. 51-2), il quale
arriva a suggerire una figliazione dell'oltretomba dantesco da
quello di Andrea. [xvi]
Ciò è evidente per la seconda terzina, il cui verso iniziale (Amor
ch'a nullo amato amar perdona) sembra riprodurre
fedelmente le regole ix (Amare
nemo potest, nisi qui amoris suasione compellitur) e xxvi
(Amor nil posset amori
denegare), elencate a conclusione del II libro del De
amore. Meno immediata, ma non meno facilmente
dimostrabile, la stessa derivazione per le altre due terzine (Amor
ch'al cor gentil ratto s'apprende...; Amor
condusse noi ad una morte...). Nel merito, si veda G. Contini,
Varianti e altra linguistica,
Torino 1979 [1970], pp. 343-8. Ricordo però che, sulla base di
altri riscontri, D'Arco S. Avalle (op. cit., pp. 39-40) contesta
tale derivazione, soprattutto a proposito della seconda terzina, e
sostiene che invece Francesca opera una forzatura rispetto ai
dettami di Andrea. [xvii]
Manca tuttora un'edizione critica dello Specchio.
Per le citazioni, mi servo di Racconti
esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G.
Varanini e G. Baldassarri,
Roma 1993, vol. ii,
pp. 549-53. Alla stessa opera (pp. 629-43) rinvio per le questioni
relative alla tradizione del testo. [xviii]
Bisognerà comunque ricordare che l'exemplum
non è originale, visto che lo stesso Passavanti indica
espressamente Elinando (o Eliando) come sua fonte. Si tratta di
Elinando, monaco di Froidmont, morto dopo il 1229, i cui Flores
sono giunti a noi attraverso Vincenzo di Beauvais (Speculum
historiale, xxix,
120): fra questi si trova appunto la storia del carbonaio di Niversa
(la si può leggere in Patrologia
latina, ccxii, Turnhout 1969, p. 734). La stessa, riassunta e
abbreviata, è riportata anche dall'Alphabetum
narrationum, un prontuario di exempla
compilato ad uso dei predicatori all'inizio del XIV secolo: ed è
presumibile che di qui abbia attinto Passavanti. Del resto, il
motivo della cosiddetta "caccia tragica" (o "infernale", o
"demoniaca"), d'origine germanica, ha anche altri precedenti
(si veda A. Monteverdi,
Gli "esempi" di Iacopo
Passavanti, in Studi e
saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli,
Milano-Napoli 1954, pp. 190-191; ma anche l'introduzione di A. Wesselofsky
alla Novella della figlia
del re di Dacia, Pisa 1866). [xix]
Mi pare che le cose stiano così, a differenza di quel che pensa
Grabher, il quale trova nell'episodio in questione l'atmosfera
di una visione macabra e "un certo gusto del deforme, un non so
che di stranamente fantastico e malato" (cfr. C. Grabher,
Particolari influssi di Andrea
Cappellano sul Boccaccio, in "Annali della facoltà di
Lettere e Filosofia e di Magistero dell'Università di Cagliari",
xxi, ii,
1953, p. 72-4). [xx]
Decamerone,
V, 8. Per le citazioni, e per ogni altra osservazione sulla novella,
rimando alla edizione a cura di V. Branca,
Firenze 1960, pp. 657-67. [xxi]
Anche se Boccaccio conosceva lo Speculum
historiale di Vincenzo di Beauvais, e quindi lì poteva
aver letto l'exemplum
di Elinando, altrettanto accreditata, sulla base dei raffronti
linguistici, è l'ipotesi che la sua fonte fosse la narrazione di
Passavanti (cfr. A. Monteverdi,
Gli "esempi" di Iacopo Passavanti, in Studi
e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli,
cit., pp. 192-3). L'ostacolo cronologico (la composizione del Decamerone
precede di qualche anno lo Specchio
di vera penitenza) è superato immaginando che Boccaccio
ascoltasse dalla viva voce del frate le prediche da lui tenute in
Santa Maria Novella. Francamente, a me pare che il problema rimanga,
perché è difficile giustificare le analogie linguistiche sulla
base di una conoscenza orale di quella narrazione (a meno di non
pensare ad un Passavanti che legge la sua predica già scritta e ad
un Boccaccio che prende appunti!). D'altra parte c'è anche chi
ha voluto vedere nella caccia tragica narrata da Boccaccio il
ricordo di una tradizione locale ravennate (A. Wesselofsky,
nella già citata introduzione alla Novella
della figlia del re di Dacia, pp. xlv
e sgg.). Certamente evidenti sono le reminiscenze della Commedia
dantesca, particolarmente del canto XIII dell'Inferno, dove si
descrive la pena dei suicidi e degli scialacquatori (e sono
reminiscenze appropriate, visto che quell'amore disperato aveva
portato Nastagio a spendere smisuratamente, e poi a desiderare di
uccidersi; e davvero si era suicidato il cavaliere-cacciatore della
visione). Su questi aspetti, e in particolare sulle influenze
dantesche, offre altre indicazioni N. Scarano,
La novella di Nastagio degli
Onesti, in Studi
letterari e linguistici dedicati a P. Raina, Firenze
1911, pp. 423-51. Infine, analogie (tematico-strutturali, nonché
sintattico-lessicali) sono state riscontrate anche con la prima
stanza della petrarchesca canzone delle visioni (Rime,
cccxxiii), da M. Giacon,
La novella di Nastagio e la canzone delle visioni, in "Studi
sul Boccaccio", viii,
Firenze 1974, pp. 226-49. [xxii]
C'è qui una contraddizione, perché il cacciatore parla
esplicitamente di condanna alle pene del ninferno, ma poi precisa che si tratta di una pena
temporanea (tanti anni... quanti
mesi ella fu contro a me crudele). Si può pensare ad un
residuo, non risolto, delle fonti, dove la caccia veniva presentata
come pena di Purgatorio (e quindi temporanea); o anche, che la
caccia sia una specie di pena aggiuntiva provvisoria, nel contesto
di altre, e ovviamente eterne, pene infernali. [xxiii]
Per la verità c'è anche una piccola coda maliziosa, laddove il
narratore ci dice che da allora in poi tutte le donne di Ravenna troppo
più arrendevoli a' piaceri degli uomini furono che prima state
non erano. [xxiv]
È vero che, come si dice chiaramente, la donna è punita per aver
causato il suicidio dell'innamorato respinto e per essersene
compiaciuta; ma dal senso complessivo della novella, avvalorato
dalla stessa conclusione, si capisce bene che tale aspetto passa in
secondo piano (come l'uxoricidio nell'exemplum
di Passavanti) rispetto a quello dell'amore negato. [xxv]
L'ha notato V. Sklovskij,
in Una teoria della prosa,
Torino 1976 [Mosca 1929], p. 61, e l'ha mostrato, nell'ambito di
un'analisi dettagliata della novella di Nastagio, C. Segre
(La novella di Nastagio
degli Onesti: i due tempi della visione, in Semiotica
filologica, Torino 1979, pp. 87-96). L'ha negato
invece, in nome della serietà artistica della novella, L. Russo
(Postilla critica a
Nastagio degli Onesti, in Il
Decamerone, venticinque novelle scelte e ventisette postille
critiche, Firenze 1939, pp. 391-8). [xxvi]
La conoscenza accurata da parte di Boccaccio del trattato di Andrea
è evidente non solo nella novella di Nastagio, ma in tanti altri
luoghi della sua opera, giovanile e matura, come ampiamente
dimostrato da V. Branca,
in Boccaccio medievale e altri
studi sul Decameron, Firenze 1996 [1956], pp. 20-2,
223-35. E comunque, a dimostrazione di quanto intensi fossero
sentiti dai lettori i rapporti di Boccaccio con il De
amore, basterà ricordare che nel Seicento si finì per
attribuire all'autore del Decamerone
la paternità dell'opera di Andrea (Laberinto
d'Amore di Messer Giovanni Boccaccio, aggiuntovi nuovamente un
Dialogo d'Amore molto dilettevole, Venetia, appresso
Gratioso Perchacino, mdcxi). L'esistenza
di una vera e propria tradizione, relativamente al motivo delle
donne punite perché renitenti all'amore, è stata messa in luce
da W. A. Neilson, The purgatory of
cruel beauties, in "Romania", xxix,
Parigi 1900, pp. 85-93. Ma non è dimostrabile che Boccaccio
conoscesse altri testi, oltre al De
amore. Piuttosto, non bisognerà dimenticare un
precedente classico, e cioè il racconto con cui, nelle Metamorfosi
di Ovidio (xiv, vv.
622 e sgg.), Vertumno convince Pomona a cedergli. [xxvii]
Boccaccio aveva senz'altro in mente i versi in cui Dante,
nominando proprio quelle famiglie, rievocava con nostalgia la
Ravenna dei primi decenni del Duecento: ... la casa Traversara e li Anastagi / (e l'una gente e l'altra è
diretata), / le donne e i cavalier, li affanni e li agi, / che ne
'nvogliava amore e cortesia... (Purg. xiv,
107-11). [xxviii]
De amore,
cit., pp. 33 e sgg. [xxix]
De amore,
cit, p. 94 (Avaritiam sicut
nocivam pestem effugias et eius contrarium amplectaris) e
p. 282 (Amor semper consuevit ab
avaritiae domiciliis exulare). Ma il valore della
liberalità (largueza,
in lingua d'oc) è ripetutamente esaltato nella letteratura
cortese, sia francese che provenzale. [xxx]
Anche qui ritorna l'eco dei versi di Dante: .la divina foresta
spessa e viva.../ tal qual di ramo in ramo si raccoglie / per la
pineta in sul lito di Chiassi, /... (Purg. xxviii,
2-20). [xxxi]
È un'affinità già notata da C. Grabher (nel già citato Particolari
influssi di Andrea Cappellano sul Boccaccio, pp. 75-88),
il quale peraltro estende l'analisi a tutta l'opera del
Boccaccio, per riscontrare che il gusto per il paesaggio ameno sia
risente del De amore
di Andrea sia preannuncia "quel sogno di perfetta armonia a cui in
tanti modi anelava il Rinascimento". [xxxii]
È la stessa logica riconoscibile nella novella, immediatamente
successiva, di Federico degli Alberighi (Decamerone,
v, 9), il quale, dopo aver dilapidato il patrimonio spendendo
in cortesia, alla fine sposa la donna amata e miglior
massaio fatto, terminò gli anni suoi. [xxxiii]
Le tavole, presumibilmente dipinte da allievi della scuola su
disegni del maestro, sarebbero state realizzate nel 1487 in
occasione del matrimonio di Lucrezia di Francesco Pucci con Pier
Francesco Bini ("in casa Pucci - scrive il Vasari a proposito di
Botticelli - fece di figure piccole la novella del Boccaccio di
Nastagio degli Onesti in quattro quadri di pittura molto vaga e
bella"). [xxxiv] Orlando furioso, xxxiv, 6 e sgg. Ricordo peraltro che, fra Boccaccio ed Ariosto, lo stesso motivo ritorna in altri due testi: in un capitolo composto da Francesco Malecarni per il Certame Coronario e nell'Hypnerotomachia Poliphili, un romanzo anonimo (attribuito a Francesco Colonna), stampato a Venezia nel 1499.
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