17/1998
Studi di Estetica
III serie
anno XXVI, fasc. I

Andrea Battistini
Il "vento che più alte cime più percuote"
L'iperbole letteraria della realtà storica

 

 

La metafora che dà il titolo a questo intervento proviene dalla Divina Commedia, dove Dante, giunto in Paradiso al cospetto di Cacciaguida, è preso da un dubbio, da una riserva mentale indotta da un senso di opportunità che suona anche di opportunismo. Ormai il suo viaggio ultraterreno sta per terminare e, dovendo ritornare tra i mortali, viene a Dante uno scrupolo: accingendosi a stendere il suo reportage, teme che la raffigurazione dei tanti personaggi insigni della storia da lui sorpresi in condizioni di estremo degrado (un imperatore, Federico II di Svevia, in un'arca infuocata che punisce la sua eresia; più di un papa, Niccolò III, Bonifacio VIII e Clemente V, conficcati a testa in giù tra i simoniaci; un fondatore di una grande religione, Maometto, squarciato dal mento al deretano a mostrare come il cibo si trasforma in feci) possa procurargli ulteriori danni e vendette personali da aggiungere all'esilio appena confermatogli dal suo avo. La risposta di Cacciaguida è quella che tutti si aspettano: dinanzi alla verità storica Dante deve bandire ogni eufemismo, ogni reticenza, ogni censura. Anzi, la sua "voce" deve tramutarsi in un "grido", impetuoso come il "vento, / che le più alte cime più percuote" (Par., XVII, 133-134). Propriamente l'insegnamento impartito con tanta energia da Cacciaguida è di tipo morale e si appella all'incorruttibilità della coscienza che non deve mai piegarsi in alcun modo e senza alcun compromesso brandisce con coraggio la verità, come si conviene a chi ha ricevuto direttamente da Dio il privilegio di una missione vòlta a riscattare l'uomo dal peccato.

Dal nostro punto di vista però, per entrare subito nell'ottica di questo breve excursus, la ferma direttiva di Cacciaguida si presta anche a considerazioni di poetica e di retorica, destinate ad avere una lunga fortuna, almeno fino alla svolta epocale di fine Settecento, allorché, ragionando con i paradigmi della "longue durée" di Hans Robert Curtius, la tradizione letteraria, che nonostante tutto si conserva da Omero fino a Goethe, subisce una cesura irreversibile. Non per nulla l'antenato di Dante, sapendo di avere dinanzi un poeta dotato di altissima coscienza del proprio fare artistico e di spiccata attitudine legislativa, indugia ancora un poco sul proprio asserto, chiarendo un meccanismo psicologico che si traduce subito in avvertenza tecnica di come la letteratura deve trattare la materia storica:

 

[.] l'animo di quel ch'ode, non posa

né ferma fede per essempro ch'aia

la sua radice incognita e ascosa,

né per altro argomento che non paia.

                                             (Par., XVII, 139-142)

 

In altri termini, l'attenzione del lettore non si appaga né può concentrarsi su attori troppo umbratili, su vicende di scarso rilievo, la cui oscurità induce all'indifferenza o al disinteresse. Ecco perché, per tornare alla metafora vegetale di Cacciaguida, della storia si devono privilegiare "le più alte cime", le personalità più in vista, magari amplificate con lo strumento epidittico della retorica, lasciando invece da parte le umili "radici" costituite dalla folla degli individui anonimi e sconosciuti. A ben guardare, si tratta della stessa concezione aristocratica della storia già codificata nell'età classica. E anche se Dante ne conosceva pochi testi, affiorati dal naufragio dell'età altomedievale, la sua assunzione letteraria della storia condivideva ancora la parentela della poesia con l'oratoria sancita da Cicerone ("poëtis est proxima cognatio cum oratoribus"), per la necessità di rendere la realtà in versione iperbolica, in modo da convertirsi più facilmente in exemplum morale da imitare. A questo criterio si erano attenuti, per ricordare solo i casi paradigmatici che godranno di grande fortuna anche nell'età moderna, per un verso il greco Plutarco nelle Vite parallele, biografie di soli eroi, scritte, come scrive lui stesso, "guardando nello specchio della Storia" per individuare i "suoi grandi personaggi" e scegliere "fra le loro azioni quelle che furono le più importanti e le più degne di essere conosciute",[i] e per un altro verso il latino Cornelio Nepote nell'altra raccolta di biografie che hanno per protagonisti esclusivi i "viri illustres", come recita il titolo imitato poi da Petrarca e, al femminile, da Boccaccio.

Nonostante il radicale mutamento complessivo della cultura umanistica e rinascimentale rispetto alla visione medievale del mondo, la menzione degli scrittori classici Plutarco e Cornelio Nepote mette subito in chiaro che, almeno per la concezione della storia e soprattutto per i modi della sua assunzione in àmbito letterario, le cose sostanzialmente non mutano nel Quattro e Cinquecento. E come Dante per chiarire la necessità dei grandi esempi storici aveva fatto ricorso all'immagine degli alberi di più alto fusto, così Machiavelli ribadisce lo stesso concetto attraverso la similitudine "guerriera" degli arcieri. Quasi in apertura del Principe, un titolo vulgato più congruente di quello latino, De principatibus, perché il suo trattato politico è centrato sugli individui ancor più che sulle istituzioni da loro incarnate, l'autore avverte che non ci si deve stupire se verranno addotti "grandissimi esempli". La ragione è che la sua opera, dal valore pragmatico, intende offrire modelli da imitare, in linea con il canone rinascimentale della mimesi. Pertanto, meglio desumere dalla storia esemplari di "uomini grandi", ossia di "quelli che sono stati eccellentissimi imitare", in modo che, se la "virtù" del lettore comune, non altrettanto dotato, "non vi arriva, almeno ne renda qualche odore".[ii] La metafora olfattiva esprime meglio di ogni altra la dimensione sensibile, quasi animalesca, della percezione, in tutto degna di chi dovrebbe acquisire dalla lezione della storia una natura composita, di leone e di volpe, fino a diventare, ispirandosi a una filosofia di tipo pampsichistico, una sorta di centauro.

Il centauro del resto, che compare più avanti nelle vesti di Chirone, maestro "mezzo bestia e mezzo uomo" di Achille, è già preannunziato qui, nell'analogia che paragona l'aspirante principe agli arcieri prudenti, i quali, "parendo el loco dove disegnono ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato". Per ovviare alla modestia e ai limiti connaturati all'arciere, o, fuori di metafora, alle risorse del tutto normali dei comuni mortali, li si compensa prendendo la mira molto più alta del bersaglio che si intende colpire, "non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere, con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro".[iii] Ecco perché Machiavelli ripropone i casi di Mosé, Ciro, Romolo, Teseo. Già di per sé eccezionali, queste figure possono poi apparire ancora più gigantesche per l'arte iperbolica della letteratura, che fin da Aristotele consisteva, quando è chiamata a "consigliare, a lodare, a biasimare, ad accusare o difendere", nell'"amplificare" e nello "sminuire".[iv] Anche Machiavelli è consapevole dell'alone encomiastico che avvolge i fatti della storia con l'"accrescerli" e l'"illustrarli", fino a "forzare" i posteri a lodarli. E con il suo sguardo tagliente lo demistifica senza pietà, pur essendosene servito al momento di immortalare la magnanima figura di Cesare Borgia:

 

Perché il più degli scrittori in modo alla fortuna de' vincitori ubbidiscano che, per fare le loro vittorie gloriose, non solamente accrescano quello che da loro è virtuosamente operato, ma ancora le azioni de' nimici in modo illustrano, che qualunque nasce dipoi in qualunque delle due provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi ed è forzato sommamente laudarli ed amarli.[v]

Per avere mano più libera nell'opera di accrescimento, soprattutto i poeti sceglievano i loro soggetti storici da età non troppo prossime alla loro. È quanto teorizza Torquato Tasso, combattuto, in una nevrosi di schizofrenia manieristica, tra rispetto delle regole e invocazione di libertà, tra unità e varietà e, per ciò che qui ci riguarda più da vicino, tra "verisimile" e "maraviglioso". La sua soluzione è un compromesso in virtù del quale le vicende storiche prescelte per la Gerusalemme liberata per un verso non sono troppo vicine al suo tempo e neppure "di tanta autorità che siano inalterabili", in modo da potere intervenire con la propria invenzione personale, ma per un altro verso non sono troppo remote per evitare che sembrino vicende di pura fantasia. La cercata equidistanza temporale mira in ogni caso a salvaguardare "la grandezza e la nobiltà degli avvenimenti" e dei protagonisti, come già si è visto in Dante e in Machiavelli, ancorché tanto diversi da Tasso. Evidentemente anche il poema epico - anzi, a maggior ragione il poema epico, con i suoi ideali di eroismo - deve celebrare "una azione illustre", che appunto per questa sua acquisita celebrità non può non essere stata "scritta e passata alla memoria de' posteri con l'aiuto d'alcuna istoria". Se poi ciò che tramanda la storia non è sufficientemente elevato, offrono il loro supporto la "licenza del fingere" e il rincalzo di uno stile "grave" e "magnifico" fondato su figure retoriche che "fanno parer grandi le cose con le circonstanze, come l'ampliazione o le iperboli, che alzano la cosa sopra il vero".[vi]

Ormai, con il sopraggiungere del secolo XVII, connotato dalla passione per le pose magniloquenti e dalla dialettica ingegnosa tra l'occultamento della maschera e lo svelamento realizzato dai nuovi strumenti scientifici tra i quali il cannocchiale assurge presto a emblema del barocco, la storia e la poesia vengono investite di due ruoli antitetici e complementari, l'una delegata alla nuda verità, l'altra abbigliata di panneggiamenti sontuosi. Mentore di questa ipotiposi è naturalmente Giambattista Marino, che nell'Adone così personifica le due discipline:

 

Or mira al'ombra dela sacra pianta,

fregiata il crin del'onorate foglie,

la Poesia, che mentre scrive e canta

il fior d'ogni scienza insieme accoglie.

La Favola è con lei, ch'orna ed ammanta

le vaghe membra di pompose spoglie;

l'accompagna l'Istoria, ignuda donna,

senza vel, senza fregio e senza gonna.

                                                                    (Adone, X, 139)

 

Al riparo dell'alloro che dispensa la fama, si compie con largo anticipo sui nostri formalisti la distinzione tra storia e récit, tra la sequenza effettiva e disadorna dei fatti e la loro rielaborazione narrativa, arricchita di elementi amplificanti. Per il gusto lussureggiante del XVII secolo alla letteratura compete un surplus di ornamento, come spiega nella sua Poetica Tommaso Campanella, per il quale "dipinge la poesia con traslati e figurati, con epiteti alti e risonanti, che fanno numero e piacevolezza al gusto accomodate [sic], il che non fa l'istorico, perché delinea solamente quello che narra".[vii] Questa eccedenza non è però una semplice decorazione perché anzi la poesia, secondo quanto già Aristotele aveva sottolineato,[viii] mira anche a obiettivi più elevati di quelli cui può aspirare la storia, nel senso che invece di accontentarsi di conoscere il particolare ambisce ad attingere all'universale. Non per caso questa tesi si trova riaffacciata in due filosofi, i quali evidentemente sono convinti che la lente d'ingrandimento cui la letteratura sottopone i fatti storici consenta anche l'acquisizione di un diverso grado gnoseologico, raggiunto integrando la memoria con la fantasia. L'uno, Francesco Bacone, sostiene che se è vero che anche la poesia si occupa di individui, "finti a similitudine di quelli che vengono ricordati nella storia vera", nondimeno succede che essa "spesso esce fuori da ogni misura e mette insieme e introduce a piacere cose che in natura non si sarebbero mai incontrate".[ix] L'altro, Giambattista Vico, applicando la teoria degli "universali fantastici" a Goffredo di Buglione, figura storica eletta a protagonista poetico della Gerusalemme liberata, conclude addirittura che "'l vero capitano di guerra, per esemplo, è 'l Goffredo che finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri capitani di guerra".[x] Il paradosso si spiega con il fatto che il Goffredo storico, realmente vissuto, è soggetto ai limiti del contingente, alle peculiarità specifiche di un individuo, laddove la sua versione poetica può assumere alla perfezione tutte le qualità tipiche ed esemplari del condottiero, diventandone il concetto personificato. Il personaggio storico, trasposto in àmbito letterario, subisce le metamorfosi cui si va incontro con la figura dell'antonomasia o con la teoria dell'evemerismo.

Con Vico il discorso si è già inoltrato nel Settecento, allorché questa predisposizione della letteratura a far proprie le grandi personalità della storia magari irrobustendone i tratti per altro già di per sé superlativi comincia, come si vedrà tra poco, a essere messa in serio dubbio. Una sua estrema persistenza si riscontra però, in maniera molto marcata, ancora nel teatro tragico di Alfieri. Qui i personaggi sono scolpiti nel marmo, riflettendo nel bene come nel male l'estremismo di cui il loro stesso autore si diceva amante. Prendendo a modello i ritratti a tutto tondo di Plutarco, le cui "vite dei veri grandi" gli avevano fatto trascorrere "ore di rapimento e beate",[xi] Alfieri scelse di preferenza gli eroi superlativi della storia antica e, non pago dell'esasperazione dei tratti già posseduti nelle sue fonti, venerate con la deferenza di un classicista, contribuì di suo ad accentuarli ulteriormente. Assecondando i personalissimi slanci e il "bollore" delle passioni sempre vibranti e incontenibili, egli volle rappresentare uomini privi di chiaroscuri, tesi e condensati in una tragica grandezza in cui a dominare è l'esuberanza, l'eccesso di calore. E quando da Bruto o da Agide si provò a discendere a soggetti di una storia più recente, Alfieri ne trasse un'impressione di inadeguatezza, per l'assenza della "grandezza vera dei personaggi", la cui carenza impediva di "innalzare un eroe, che a chi lo ascolta egli venga a parere veramente sublime".[xii]

I nobili ideali pedagogici che volevano educare alla virtù civile della libertà finivano però per fare violenza alla storia che, stretta con troppa energia dall'abbraccio esaltante della letteratura, rischiava di venirne soffocata per eccesso di astrazione idealizzante, oltre tutto in una stagione in cui ormai il megafono con cui le aveva dato voce stava per essere sostituito da una più dimessa sordina, specie da quando il principio di imitazione, venendo meno, rendeva superflua l'insistenza sui grandi e integri modelli di eroismo. Da questo punto di vista, è significativo che nell'età romantica si siano levate su Alfieri riserve provenienti perfino dai suoi stessi ammiratori. Uno di questi fu Carlo Tenca, un critico acuto che attraverso l'analisi del teatro alfieriano ci fornisce una nitida denuncia dell'idealizzazione cui per tanto tempo la letteratura aveva costretto la storia ogni volta che questa entrava nei suoi territori. In questo modo però, lamentava Tenca con il pensiero rivolto ad Alfieri, "i suoi protagonisti sono quasi altrettante individualità astratte, di cui il nome storico non è che un accidente". E sia pure con rammarico doveva riconoscere che "l'uomo da lui dipinto, ne si perdoni l'ardir della frase, è l'uomo astratto della psicologia, piuttostoché l'uomo vero e vivente della storia".[xiii] La scelta programmatica della "lontananza dell'età" ne abbelliva i contorni, e se ciò non bastava, la si filtrava comunque "nelle illusioni di una splendida letteratura, nella identità dei poeti, nelle vestigia sorprendenti della passata grandezza romana", fino a "dar corpo e vita ad una creazione astratta", finalmente soddisfacente ai "bisogni del suo intelletto e della sua immaginazione".[xiv]

La conseguenza è "una non so quale affettata tendenza al maestoso ed al grande, che forse non è sempre in natura", dal momento che la realtà storica "vicina, vivente [.] lascia vedere insieme ai grandi atti i miseri appetiti e le ignobili passioni", e "in un fittizio frastuono altera i nomi e l'importanza delle cose", generando disagio in chi come Alfieri si educò "piuttosto ai tranquilli ideali del pensiero, che non alle lezioni della storia", resa "ingrata e disarmonica" dalle sue meschine contraddizioni intrinseche alla condotta effettuale di esseri deboli e non di rado corrotti. A differenza di Alfieri, ancorato a un "eroismo sterile", Tenca sapeva bene che "l'uomo, quale ce lo dipinge la storia, ha qualche cosa di diverso", perché sotto la pressione invincibile "dei pregiudizi e delle credenze" "egli mescola talora il buono e il cattivo, il vizio e la virtù, improntando le sue azioni di una particolare fisionomia".[xv] La psicologia sensistica e poi la rivoluzione romantica avevano battuto in breccia le divisioni classicistiche degli stili e la creazione di una tipologia ideale e perfetta, sostituite dalla mescolanza dei toni e dei registri, con una predilezione inedita, incoraggiata dal decollo del romanzo, per le situazioni più modeste e oscure della vita quotidiana. Anziché spaziare "nel campo dell'astrazione", dove Alfieri trovava agevole idealizzare la storia proiettandola nel campo dell'assoluto, Tenca raccomandava di andare "dietro alle severe indagini della storia" abbandonando la prevenzione "sdegnosa della minuta e diligente ricerca dei fatti", fino a immergere anche la letteratura "negli accidenti dei luoghi, dei costumi e del tempo". Ormai era venuto il momento che in letteratura venissero meno "l'idolatria dei nomi, il fanatico culto", e in loro vece ci si dedicasse "a più razionali, più tranquille estimazioni del valore degli uomini e delle cose".[xvi]

Se in Italia, avvezza per tradizione retorica alle fanfare dell'enfasi, le pronunce di Tenca potevano suonare, ancora a metà Ottocento, alquanto insolite per la sordina che le connotavano, in Inghilterra e poi in Francia, sede dei primi grandi romanzi moderni, ci si era abituati a sentirle da almeno un secolo. Fin dal 1762 Diderot aveva manifestato tutto il suo entusiasmo per Richardson proprio perché nei suoi romanzi borghesi "le monde où nous vivons est le lieu de sa scène". D'altro canto per capire di più della vita non c'è bisogno di gonfiare le gote e cantare uomini celebri perché eccezionali. I personaggi di Pamela, Clarissa, Grandison "sont communs", e solo i lettori sventati credono che "c'est ce qu'on voit tous les jours", mentre è proprio "ce qui se passe tous les jours sous vos yeux" ciò che meno si riesce a vedere veramente se non interviene il grande artista capace di mostrare "une circonstance fugitive qui vous avait échappé". L'illusione della letteratura si fonda per Diderot su "cette multitude de petites choses" e nella stessa stagione in cui Laurence Sterne tesseva nel Tristram Shandy l'elogio dei particolari minimi e delle digressioni mostrava di apprezzare incondizionatamente "les détails de Richardson", destinati non già a "un homme frivole et dissipé", ma "pour l'homme tranquille et solitaire, qui a connu la vanité du bruit et des amusements du monde, et qui aime à habiter l'ombre d'une retraite, et à s'attendrir utilement dans le silence".[xvii]

Gli eventi epocali e iperbolici della storia intimidiscono, tengono a distanza i comuni mortali che possono contemplarli solo dal basso, eretti come sono sul monumentale e ingombrante piedistallo della gloria. Molto meglio, per instaurare una familiare intimità con il lettore, fargli immaginare, "à la vérité et à la chaleur de l'entretien, qu'il s'agissait d'un voisin, d'un parent, d'un ami, d'un frère, d'une sour".[xviii] Del resto il Settecento è un'epoca in cui si preferisce abbandonare gli appartamenti ufficiali e di parata per ridursi nell'intimità dei boudoirs, proprio mentre l'Encyclopédie registra la voce "déshabillé", la veste da camera da indossare in casa, fuori da occasioni troppo impettite.[xix] In questo clima meno propenso ai clamori, anche la morale, che nell'excursus in cui si sono toccati Dante, Machiavelli, Tasso, Marino, Campanella, Bacone, Vico e Alfieri preferiva affidarsi agli esempi eclatanti e alle massime di portata universale, si adegua al gusto mutato e, per dirla di nuovo con Diderot, "tout ce que Montaigne, Charon [sic, per Charron], La Rochefoucault et Nicole ont mis en maximes, Richardson l'a mis en action". La differenza, davvero sostanziale, è che

 

une maxime est une règle abstraite et générale de conduite, dont on nous laisse l'application à faire. Elle n'imprime par elle-même aucune image sensible dans notre esprit: mais celui qui agit, on le voit, on se met à sa place ou à ses côtés; on se passionne pour ou contre lui.[xx]

 

Per un altro paradosso, l'epoca del razionalismo e dello spirito critico richiede all'arte l'emozione, il coinvolgimento più diretto, non tanto l'ufficio di dimostrare la verità, quanto di farla "sentire".[xxi] Nel topico paragone tra letteratura e storia, anche Diderot assegna il primato alla prima, ma per ragioni quasi opposte a quelle avanzate nei periodi precedenti, ossia non più per le sue doti amplificanti ma per la capacità di cogliere gli uomini nelle loro azioni più consuete, condivisibili da tutti, solo che si attenda ai momenti di abbandono della vita di tutti i giorni. Nel romanzo inglese, è stato detto, il processo del Bildungsroman consegue una piena integrazione con il mondo e il protagonista si prefigge il fine di rendersi riconoscibile a ogni lettore. Di fatto, l'eroe, per la sua normalità, è un "antieroe", è una "very common person", una persona qualunque.[xxii] E di quest'arte Richardson è stato maestro, tanto che a lui si deve se il romanzo è potuto diventare "une bonne histoire", mentre si verifica spesso che la storia scada a "mauvais roman":

 

O Richardson! j'oserai dire que l'histoire la plus vraie est pleine de mensonges et que ton roman est plein de vérités. L'histoire peint quelques individus, tu peins l'espèce humaine: l'histoire attribue à quelques individus ce qu'ils n'ont ni dit, ni fait ; tout ce que tu attribues à l'homme, il l'a dit et fait: l'histoire n'embrasse qu'une portion de la durée, qu'un point de la surface du globe; tu as embrassé tous les lieux et tous les temps. [.] Sous ce point de vue j'oserai dire que souvent l'histoire est un mauvais roman, et que le roman, comme tu l'as fait, est une bonne histoire.[xxiii]

 

Contrariamente a quanto enunciano certi logori luoghi comuni scaduti a stereotipi, il XVIII secolo non è affatto un'età antistorica; semmai è un periodo particolarmente sensibile all'attendibilità della storia e critico verso le sue aberrazioni, avendo fatto tesoro delle denunce dissacranti ed eversive dei libertini.[xxiv] Sicché in quest'epoca non solo si domanda alla letteratura di non imitare più gli episodi solo magistrali della storia, ma si pretende anche da questa di non indulgere più ai casi solo superlativi, perché la sua perdita di credibilità deriva proprio dai suoi eccessi. Un singolare abate del Settecento, Giammaria Ortes, fornito di buoni studi matematici, aveva perfino preteso, giusto a metà secolo, di effettuare un Calcolo sopra la verità dell'istoria, al termine del quale notificò agli storici l'accusa di giudicare degne di ricordo solo le "azioni che contengono del maraviglioso" che, si sa, ha una misura soggettiva, dettata dall'"immaginazione di ciascuno". Inclinando "a figurarsi gran virtù o gran vizi, si propone diversi idoli da adorare o da detestare". E gli "idola" di baconiana ascendenza, causa di gravi deformazioni della realtà, nascono dal dedicare la maggiore considerazione agli individui che, "colla stravaganza del trattamento, dell'impiego o del pensare si espongono più degli altri alla lode e alla derisione pubblica". Ma badando solo a queste "poche persone" di spicco non si può poi pretendere di "aver conosciuto tutti i fenomeni della specie umana".[xxv]

Non è soltanto la letteratura a dover mettere da parte gli exempla altisonanti: allorché, come ha insegnato Koselleck, la storia cessa di essere "magistra vitae" per l'avvento di una "irripetibile unicità temporale" del tutto diversa dai paradigmi del passato, i modelli non sono più riproponibili e il rilievo gerarchico passa dalle res fictae alle res factae, non più selezionate in funzione della loro esemplarità, ma in funzione di una "histoire véritable", ancorché più modesta e dimessa. Così "le pretese della storia e della poetica si intrecciavano"[xxvi] e verrà il giorno, rilevato da Roland Barthes, in cui si può cominciare a capire al tempo stesso Balzac e Michelet, giacché romanzo e storia vengono ad avere in comune la stessa dimensione distesa del racconto,[xxvii] ricco di dettagli e di particolari, senza più essere tenuto a selezionare come per il passato vicende insigni scelte per il loro valore pedagogico.[xxviii] Grazie a questo riavvicinamento delle due discipline, foriero della fortuna ottocentesca del romanzo storico, un poeta, Ugo Foscolo, può, con una perorazione notissima, esortare gli italiani "alle storie". E se nei Sepolcri, ancora intonato alla lezione di Alfieri, canterà le "urne de' forti", come quelle che "a egregie cose il forte animo accendono", nondimeno nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis le vicende politiche che ruotano intorno al trattato di Campoformio vengono vissute dal punto di vista proporzionalmente marginale di Jacopo, la cui storia d'amore per Teresa diventa la trasfigurazione personale del suo amore per la patria, tradito dal comportamento del padre di lei, analogo a quello di Napoleone verso Venezia. Attraverso l'esperienza di Ortis si ricava un modello ridotto di eventi tanto più grandi, rispetto ai quali il romanzo autobiografico di Foscolo rappresenta "la società in miniatura", simbolo di una realtà storica molto più vasta osservata da una specola che, anche per essere periferica, la si può indagare con la lente d'ingrandimento.[xxix]

La metafora spaziale dello sguardo ravvicinato non è, del resto, peregrina, visto che vi ricorre anche Manzoni proprio nel suo intervento Del romanzo storico, nel quale la storia viene paragonata a una "carta geografica, dove sono segnate le catene de' monti, i fiumi, le città, i borghi, le strade maestre d'una vasta regione", mentre il suo corrispettivo letterario è come una "carta topografica, nella quale, e tutto questo è più particolarizzato (dico quel tanto che ne può entrare in uno spazio molto più ristretto di paese), e ci sono di più segnate anche le alture minori, e le disuguaglianze ancor meno sensibili del terreno, e i borri, le gore, i villaggi, le case isolate, le viottole". "Luogo naturalmente più circoscritto", il romanzo storico garantisce in compenso una cognizione più ravvicinata conseguita "per mezzo d'una rappresentazione, dirò così, animata e in atto".[xxx] La differenza è simile a quella già sentita da Diderot, che oltre tutto aveva distinto, sempre in termini spaziali, la maggiore ricchezza di particolari nella letteratura, con cui si può abbracciare "tous les lieux et tous les temps". Anziché concentrarsi su "un point de la surface du globe", come quando si scolpiscono le doti di un solo individuo eccezionale, anche Manzoni si era preoccupato di rappresentare nei Promessi Sposi un intero sistema sociale, variegato, vitale, iridescente, visto oltre tutto dal basso, perché, se ancora vi sono introdotti taluni grandi uomini della storia, la prospettiva si è rovesciata e i protagonisti autentici sono antieroi, dall'esperienza incolta e mediocre. Renzo Tramagliano è un popolano, un contadino, umile filatore di seta, definito "ignorante" da Don Abbondio.

Ormai della storia il romanziere che si accingeva al primo tentativo del Fermo e Lucia prediligeva piuttosto le "habitudes domestiques", come comunicava in una lettera del 1821 all'amico Fauriel. E in questa scelta c'era in Manzoni anche un dichiarato intento critico verso la letteratura che si appropria soltanto della storia dei grandi, parodizzata nei Promessi Sposi nei richiami farseschi alle vicende di Bruto e di Catilina, presentati con i travestimenti satirici di un ricalco grottesco, in cui "bersaglio polemico è sempre il mito dell'eroe consacrato dalla cultura umanistica dell'"amplificazione"".[xxxi] La caricatura contro la storia degli "illustri Campioni che [.] fanno messe di Palme e d'Allori",[xxxii] per dirla con le parole tronfie dell'Anonimo al quale Manzoni dà la parola in apertura del romanzo, è la stessa che colpisce la mitologia greco-romana e rientra nella polemica con cui August Schlegel nel Cours de littérature dramatique contrapponeva il "génie statuaire" dei classici al "génie pittoresque" dei romantici, interessato alla realtà minuta del quotidiano, l'unico contesto in cui si può comprendere davvero l'individuo, come funzione dell'insieme, all'interno della società.[xxxiii] Nei Promessi sposi l'angoscia della storia e le passioni collettive vengono filtrate, senza perdere in nulla la loro intensità, dal tepore casalingo di una cronaca minore, forse addirittura più drammatica della Storia descritta secondo i modelli eroici imbalsamati nelle "Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi", come recita ancora la prosa abbondante di maiuscole dell'Anonimo manzoniano.

I veri protagonisti storici dei Promessi Sposi sono invece fatti della stessa grana grossa di cui sono fatti Renzo e Lucia, giacché nell'edizione del 1842 il romanzo uscì recando in appendice la Storia della colonna infame, ricostruzione documentatissima di un processo che ebbe per imputati due uomini di basso ceto, Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, torturati e condannati a morte con l'accusa, ingiusta e assurda, di essere untori. Forse l'atrocità dell'episodio potrebbe dare ragione al disincantato Leopardi, per il quale soprattutto chi è giovane "non crede alle storie, benché sappia che son vere" in quanto "spera di trovare il mondo assai diverso", e in compenso "crede pienamente a' poemi e romanzi, benché sappia che sono falsi", per lasciarsi "persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel modo, e crede di trovarlo così".[xxxiv] Eppure, per quanto dimessa o crudele fosse la realtà della storia, non sembrava più possibile rifugiarsi nell'olimpo perfetto delle virtù di maniera. Per riprendere di nuovo i giudizi di Carlo Tenca, questa volta intervenuto a dialogare Del romanzo storico con l'ormai vecchio Manzoni, la finzione letteraria non può più "alterare i fatti per innalzarli ad una grandezza che non comportano".[xxxv] Tra Sette e Ottocento la letteratura che si siede alla tavola della storia, per tanto tempo imbandita di luccicanti e prelibate leccornie, consolatorie ma di fatto inavvicinabili, trova ormai portate ubbidienti a ben altre ricette, le stesse offerte sulle mense che si incontrano nei Promessi Sposi: la "piccola polenta bigia", lo "stracchino", il "cavolo", le "polpette", lo "stufato", tutti piatti più frugali, ma in fondo più saporiti e più umani.[xxxvi] Per rifarsi per un'ultima volta all'antitesi parodistica tra l'Anonimo manzoniano e il suo arguto trascrittore, non si sente più il bisogno del "rimbombo de' bellici Oricalchi", ma, tutt'al più, di una "rettorica discreta, fine, di buon gusto".[xxxvii]

 



[i] Plutarco, Timoleonte e Emilio Paolo, in Vite parallele, trad. it. a cura di C. Carena, Milano, Mondadori, 1974, proemio, II, p. 313.

[ii] N. Machiavelli, Il Principe, VI, in Il Principe e i Discorsi, a cura di S. Bertelli, Milano, Feltrinelli, 19734, p. 30.

[iii] Ibid.

[iv] Aristotele, Retorica, II, 18, 1391b, 30-32, in Opere, X, trad. it. di A. Plebe, Bari, Laterza, 1973, p.105.

[v] N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II, proemio, in Il principe e i Discorsi, cit., p. 271.

[vi] T. Tasso, Discorsi dell'arte poetica, I e III, in Discorsi dell'arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma, Bari, Laterza, 1964, pp. 10-1, 4, 43.

[vii] T. Campanella, Poetica, redazione italiana giovanile, in Tutte le opere, I: Scritti letterari, a cura di L. Firpo, Milano, Mondadori, 1954, p. 322.

[viii] Aristotele, Poetica, 9, 1451a, 36-1451b, 10, in Opere X, cit., trad. it. di M. Valgimigli, p. 211.

[ix] F. Bacon, De augmentis scientiarum, II, 1, in The Works, a cura di J. Spedding, R.L. Ellis, D.D. Heath, London, Longman, 1858, I, p. 494. Il testo latino recita così: "[.] Poësis, eo sensu quo dictum est, etiam individuorum est, confictorum ad similitudinem illorum quae in historia vera memorantur; ita tamen ut modum saepius excedat, et quae in rerum natura nunquam conventura aut eventura fuissent ad libitum componat et introducat".

[x] G. Vico, Principj di Scienza nuova [1744], in Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, p. 513.

[xi] V. Alfieri, Vita, a cura di G. Dossena, Torino, Einaudi, 1967, p. 90.

[xii] V. Alfieri, Parere sul 'Don Garzia', in Tragedie, a cura di G. Zuradelli, Torino, Utet, 1973, II, p. 1882.

[xiii] C. Tenca, Vittorio Alfieri [1850], in Saggi critici, a cura di G. Berardi, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 28-29.

[xiv] Ibid., p. 27.

[xv] Ibid., pp. 29, 35. Dinanzi ad Alfieri, Tenca insomma era sorpreso dallo stesso interrogativo che oggi si è posto E. Gombrich, A cavallo di un manico di scopa. Saggi di teoria dell'arte [1963], trad. it., Torino, Einaudi, 1971, p. 164: "Chi, dopo avere visitato i solenni mosaici di Ravenna, ricorda che anche i ragazzini bizantini avranno fatto il chiasso? E chi tiene in mente che nelle Fiandre di Rubens vi saranno stati anche contadini affamati e sparuti?".

[xvi] C. Tenca, Vittorio Alfieri, cit., pp. 36, 29, 37.

[xvii] D. Diderot, Éloge de Richardson [1762], in Ouvres complètes, XIII (1980): Arts et lettres (1739-1766), a cura di J. Varloot, Paris, Hermann, pp. 194, 197-8.

[xviii] Ibid., p. 200.

[xix] Sono notazioni antropologiche di G. Gusdorf, Naissance de la conscience romantique au siècle des lumières, Paris, Payot, 1976, p. 340.

[xx] D. Diderot, Éloge de Richardson, cit., pp. 192-3.

[xxi] La tesi per cui quando scienza e tecnologia fanno i loro progressi maggiori si invoca in poesia un ritorno alla magia, al primitivismo e al pathos è sostenuta da G. Costa, Vico e l'Europa, Napoli-Milano, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici-Guerini e Associati, 1996, cap. III.

[xxii] F. Moretti, Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1988, p. 298.

[xxiii] D. Diderot, Éloge de Richardson, cit., p. 202.

[xxiv] Il fenomeno non investì solo la storiografia scritta ma anche le arti visive, come mostra il magistrale lavoro di F. Haskell, Le immagini della storia, trad. it., Torino, Einaudi, 1997, dove si rammenta la fase di scetticismo che in pittura coinvolse i "ritratti molto più lusinghieri dell'originale" (p. 67).

[xxv] G. Ortes, Calcolo sopra la verità dell'istoria e altri scritti, a cura di B. Anglani, Genova, Costa & Nolan, 1984, pp. 57, 75.

[xxvi] R. Koselleck, "Historia magistra vitae". Sulla dissoluzione del "topos" nell'orizzonte di mobilità della storia moderna, in Futuro passato, trad. it., Genova, Marietti, 1986, pp. 44, 41-2.

[xxvii] R. Barthes, La scrittura del Romanzo, in Il grado zero della scrittura, trad. it., Torino, Einaudi, 1982, p. 23.

[xxviii] Un modello cogente di questa impostazione fu, tra Cinque e Settecento, il sistema educativo dei gesuiti, fondato su esempi storici paradigmatici da emulare, con esercizi dati, notava un loro allievo secentesco, "quasi sempre sopra a qualche fatto illustre, antico o moderno, guerriero o letterario, che abbia dell'heroico" (N. Fabrini, Un documento bolognese inedito su le scuole dei Gesuiti, Roma, "Stella Matutina", 1946, p. 34).

[xxix] "La società in miniatura" è battuta dello stesso Ortis, in U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Ioli, Torino, Einaudi, 1995, p. 16. Sul valore simbolico dell'Ortis è intervenuto con efficacia M. Rak, Sette conversazioni di sociologia della letteratura, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 96.

[xxx] A. Manzoni, Del romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d'invenzione, in Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1973, II, pp. 1727-8.

[xxxi] E. Raimondi, Il romanzo senza idillio, Torino, Einaudi, 1974, p. 224. Ma è da vedere l'intero capitolo, "Il personaggio in cornice".

[xxxii] A. Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, Milano, Principato, 1987, p. 1.

[xxxiii] E. Raimondi, Il romanzo senza idillio, cit., p. 225.

[xxxiv] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, in Tutte le opere, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 19616, I, p. 956. Pensiero del 2 agosto 1821.

[xxxv] C. Tenca, Del romanzo storico [1850], in Saggi critici, cit., p. 95.

[xxxvi] Si veda la lettura sub specie culinaria dei Promessi Sposi in G. P. Biasin, I sapore della modernità. Cibo e romanzo, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 43-61, che deve qualcosa anche a uno spunto di E. Raimondi, Il romanzo senza idillio, cit., p. 78.

[xxxvii] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cit., pp. 1 e 3.

 

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