15/1997
Liliana
Rampello per
Maria Anceschi Nel
preparare questo intervento mi è capitata una cosa forse normale
forse strana, non so. Mi è capitato di ritrovarmi a pensare al
lavoro di Luciano Anceschi nel suo complesso, quasi che, di fronte
al sigillo della sua morte, e in un convegno in sua memoria, io
dovessi fare piuttosto i conti con me stessa, per tentare di capire
quanto e come quello che penso oggi ha a che fare con il suo
insegnamento. In
un gioco aperto di dipendenza e indipendenza che non cerca
l'approfondimento o, peggio, la sistemazione, la ricapitolazione
opaca della sua riflessione, ma piuttosto il senso attuale del segno
che di lui per me è vivo. Di come uso questo segno sono, come si
suol dire, responsabile io sola. A
tutta prima, nel tentativo di tenere presente l'insieme vastissimo
del lavoro di Anceschi, mi è sembrato di non vedere nulla. Tutto e
niente se ne vanno spesso in coppia assieme. Ma
poi, piano piano, da quel fondo di torpore, quasi di sonno, come
racconta così bene Elvio Fachinelli nella sua Mente
estatica, è emerso un pensiero, anche questo a conferma
forse della necessità di quella che Baudelaire chiama l'ala
dell'imbecillità e Flannery 'O Connor il granello di stupidità. E
questo pensiero era un'immagine e, insieme, una domanda.
L'immagine: di un professore piccolo, con gli occhiali un po'
sghimbesci, che ormai quasi trent'anni fa leggeva, anche per me,
lentamente, in un'aula universitaria, alcuni versi, e poi taceva,
quasi a dar loro il tempo di agire silenziosamente, e poi magari,
per me allora inopinatamente, tirava fuori Socrate o Kant, o
l'amato Montaigne o qualcun altro. Mi sorprendeva, e a me sono
sempre piaciute le sorprese, per questo il ricordo è ancora così
chiaro. La domanda invece si è fatta più chiara, ora:
perché tanta passione per la poesia? Perché
la passione per la poesia, per l'arte, è la forma
che in Anceschi prende la passione per la condizione
umana. Per la vita. Ma senza confusione o sovrapposizione fra arte e
vita: fra questi due piani, ben distinti, sta per lui il cuneo
incandescente e mediatore della conoscenza. La
necessità dell'arte per l'uomo, la poesia come forma della
conoscenza sembrano essere proposizioni o acquisizioni banali, ma
non lo sono. Al contrario credo sia molto difficile stare
al senso autentico di queste proposizioni, farle lavorare e
produrre, sia socialmente, sia individualmente, e credo sia ancora
più difficile riuscire a trasmettere questo senso a più di una
generazione di giovani. Vorrei
anticipare qui, intanto, che la figura prima di questa passione e di
questa trasmissione mi pare essere proprio la lettura. Ma
per ora fermiamoci a pensare solo a qualcuna delle conseguenze che
discendono dall'affermare la necessità dell'arte per l'uomo.
Una duplice necessità, di creazione e di fruizione. Secondo vari,
diversi e specifici linguaggi: forme storicamente diverse di
produzione, forme storicamente diverse di ricezione. Questa
ricerca di verità attraverso la bellezza, che si radica
nell'esistere profondo dell'umano, per il suo vario e mobile
rappresentarsi non può essere chiusa nell'univocità di una
risposta di comprensione, non si fa intrappolare in nessuna
gerarchia già data del sapere. E proprio la riapertura continua e
inesausta della domanda è la forza sapiente dell'interrogazione
anceschiana, di una fenomenologia critica che giustamente, molto
giustamente, scardina il primato filosofico quando si presenta con
il volto del sistema chiuso, perché la vita dell'arte parli
autonomamente e, dentro
a questa vita, parli la sua radice esperienziale, umana. Lasciar
parlare l'arte perché ci sia ascolto possibile. Eccoli
qui, violentemente semplificati, tutti i ragionamenti di Anceschi
sulle poetiche e sulle estetiche, in un orizzonte di riflessione che
si nega a ogni gesto prepotente, imperioso, definitivo. Un
discorso antico e inflessibile, quello di Anceschi, già
controcorrente nelle sue primissime formulazioni, che fa intendere
forse un po' di più quel suo insistente dichiararsi per un
"umanesimo disilluso" o per un "relativismo umanista e non
angosciato" e che, nello stesso tempo, mette a nudo la fiducia
profonda che letteratura e poesia, come direbbe Calvino, perpetuano
un dispositivo
antropologico. Dentro aggiungerei, per chiarire meglio
come sto usando parole di altri, a quel dispositivo primo dello
scambio simbolico che è la lingua. Nell'esperienza
della lingua si apre la possibilità
della rappresentazione stessa dell'esperienza umana, del poter
dire, nella
rappresentazione, cos'è il mondo per noi e cosa siamo noi nel
mondo. E
basti qui un esempio, per me fortissimo e incontrovertibile di ciò
che intendo: quando ho cercato di capire e di sapere, in forma viva,
e secondo relazioni vive, che cosa aveva significato, nei secoli
fino ad oggi, essere una donna e non un uomo, non mi ha aiutato, se
non secondariamente, nessuna disciplina né umanistica né
scientifica, né la filosofia, né la storia, né la biologia, né
la medicina, ciò che potevo imparare a sapere, sui libri, oltreché
nella mia stessa vita è evidente, di questa differenza e della
convivenza materiale fra uomini e donne, mi si è rivelato, con la
forza di una vera e propria epifania
dell'esperienza, nei racconti, nei romanzi, nella poesia. Di
uomini e di donne. Senza racconto, da quello biblico e mitico fino a
quello contemporaneo, io non saprei nulla dell'esistenza femminile
concreta e insieme possibile, inventata ma insieme radicata, avrei
per le mani solo il riverbero, storico e teorico, della
razionalizzazione di un'esistenza in larga misura muta. Troppo
poco per un verso, troppo per l'altro. Sistemi privi di relazioni
viventi. Declino
in modo molto personale, è evidente, quel "ritorno alle cose"
su cui tanto ha insistito Anceschi, ma è proprio il dato della
inesauribilità delle cose, della modalità del loro possibile
riscatto che sempre mi ha colpito (e del resto la donna è stata,
nei diversi sistemi, non certo nelle pratiche, a lungo cosa fra
cose, fenomeno fra i fenomeni, immanenza priva di trascendenza, se
non vogliamo dimenticare almeno due testi del nostro '900, Sesso
e carattere, di Otto Weininger, straordinaria apoteosi
della misoginia, e, di contro, l'indimenticabile Secondo
sesso, di Simone de Beauvoir) questa inesauribilità mi
ha colpito, dicevo, perché puntava al cuore di un sistema di
relazioni sempre pronte a modificarsi. Non
c'è una evidenza delle cose, non c'è una univocità della
risposta. Le cose urtano e spingono il pensiero, attraverso la
lingua, per raggiungere l'espressione, alla
forma di questa espressione può rispondere solo
l'apertura continua, la domanda storicamente mobile in grado di
produrre una più intensa coscienza della realtà. L'arte
così intesa diviene paradigma di come le cose possano e sappiano
raggiungere non una qualunque espressione, ma la
necessaria espressione, ovvero quella misura
che il linguaggio dà a noi e non noi al linguaggio. Sto
spostando qui, in altro contesto, e cioè all'interno del
paradigma dell'arte, un importante ragionamento che, a partire
dalla misura materna della lingua, ha utilmente proposto, a
proposito di uso e abuso del linguaggio, Luisa Muraro (in
particolare nei suoi ultimi testi, ma già balenante nel suo Maglia
e uncinetto, sul bisticcio e l'inimicizia tra metafora
e metonimia). Ma non è uno spostamento casuale, se penso che
l'assenza di misura può essere mortale come, in altra chiave,
suggerisce Ingeborg Bachmann quando dice: "le parole sono quello
che sono, vanno bene così, ma il modo in cui noi le mettiamo e le
usiamo raramente va bene. E quando va male ci uccideranno". Questo
modo che raramente va bene non parla solo del piacere estetico ma di
una nuova capacità di comprensione e di giudizio del reale. E
ritorno, per questa via, all'arte, alla poesia, alla letteratura
come forma di conoscenza. Conoscenza, in primis, dicevo, della
condizione umana, ovvero delle donne e degli uomini concreti, fatti
di carne, di sensi, di pensiero, creature viventi di un mondo che
ha, a sua volta, una potente fisicità. In questa precisa forma di
conoscenza due atti,
non due idee, si incrociano e si intrecciano in un modo
perpetuamente rinnovato e rinnovabile, lo scrivere e il leggere. Nel
pieno di una relazione che si fonda sulla materialità del corpo:
proprio parlando della concretezza come caratteristica della
narrativa, e nell'occuparsi del lettore nel suo "fondamentale
senso umano", Flannery 'O Connor in un suo bellissimo testo, Nel
territorio del diavolo (e non è che un esempio fra i
molti che si potrebbero fare), dice che "la natura della narrativa
è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato
percettivo. La conoscenza umana ha inizio attraverso i sensi, e lo
scrittore di narrativa inizia laddove inizia la percezione umana.
Agisce attraverso i sensi, e sui sensi non si può agire con delle
astrazioni. Ai più riesce molto meglio enunciare un'idea astratta
anziché descrivere e quindi ricreare un oggetto che hanno davanti
agli occhi. Ma il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di
materia...". Poco oltre aggiunge: "La narrativa è più che mai
un'arte incarnatoria". Più secca, di fianco, metterò una
citazione dall'Ora
della stella, di Clarice Lispector: "Pensare è un
atto, sentire è un fatto". Credo
però si possa dire anche di più di questo, e cioè che la
relazione che passa tra il leggere e lo scrivere mette in movimento,
dà un vero e proprio impulso, come suggerisce Todorov, al nostro
apparecchio di interpretazione simbolica, chiamando in causa,
proprio nel medium del linguaggio, storia e antropologia, perché
questo circolo virtuoso, che pure vive di due vizi e due piaceri, la
scrittura e la lettura, non è un circolo simmetrico, ma è un
circolo asimmetrico. La
dipendenza di un atto dall'altro apre uno spazio, una distanza
fatta di cesure, di salti, di accentuazioni, di sottolineature che
scompigliano ogni possibilità di scansione lineare del tempo, perché
passato, presente e futuro si presentano sempre nel momento della
loro attualizzazione. L'attualizzazione pertiene tanto allo
scrivere quanto al leggere, ma in forma diversa e per questo in una
processualità asimmetrica. Ogni opera d'arte è tale in ragione
di un'invenzione linguistica che è il proprio dell'esercizio di
verità del suo creatore e non viceversa, come dice Elsa Morante (e
di nuovo siamo al richiamo alle cose) e questa impennata verticale
nella percezione ci restituisce del presente il suo futuro possibile
(quello che Anceschi nella sua Ultima
lezione chiama "questo inesistente che esiste"), ma
nell'attimo stesso in cui diviene nuova conoscenza della realtà
si situa alle nostre spalle come passato. Per via traversa, e non
potrebbe essere altrimenti, qui, si presenta abbagliante
l'immagine del benjaminiano Angelus Novus. Nella
letteratura e nella poesia tutto il passato si riversa nel presente
alla luce di una potente anticipazione del futuro. Ma una tale
stramberia dei tempi, impensabile sul piano del semplice ordito di
un'esistenza, si accende di possibile verità solo nella lettura,
nell'atto che salva il testo dal sempre incombente pericolo di
essere e rimanere lettera morta. Nella
coppia scrittore-lettore la tanto abusata polarità attivo-passivo
è sempre rimessa in questione, rigiocata, esattamente come nella
relazione amorosa, relazione dinamicamente dispari
per eccellenza, sempre. Il lettore autentico è un lettore
appassionato, ma non
solo vittima di una passione, lo scrittore autentico è
uno scrittore appassionato, ma non solo
viziato da una passione. La passione comune è la ricerca di sé
attraverso l'altro da sé. Ma allora cosa c'è di diverso in
questo rapporto fra i due che pure è d'amore e di seduzione? Di
diverso c'è che questa forma d'amore e di seduzione non prevede
e non permette il possesso
dell'altro, né per via di assimilazione, né per via di
imitazione, né per via di identificazione, né per via di
immedesimazione. Chi scrive non può possedere chi legge e
viceversa, se non a rischio di se stesso, della propria morte; lo
spazio che si apre fra i due è necessariamente uno spazio
intersoggettivo che si modifica in ragione della scoperta e della
modificazione di sé e non della modificazione dell'altro. Siamo
nel cerchio di un "disinteressato" interesse da parte di
entrambi, e se il vero scrittore, come ci insegna Marcel Proust, sa
tradurre in via analogica non le cose, ma il rapporto fra le cose,
le sensazioni e le impressioni, sì che nel
testo la rivelazione che è data al singolo viene raccontata a
tutti, la genesi si fa generazione, racconto della rivelazione -
per tutti - leggere è la pratica
simbolica di un ascolto che si incarna nella figura del
dialogo, quella conversazione euristica così cara ad Anceschi,
sempre occupato, indaffarato, appunto, in una pratica di lettura al
massimo "comprensiva e disoccultante", "lettura
relazionale", come lui stesso la definisce. Ho
nominato l'ascolto come pratica simbolica e non come capacità
naturalisticamente intesa, semplice dote soggettiva, perché una
pratica è anche una tecnica che si raffina e si precisa
autotrasformandosi nel tempo e nell'ampiezza e profondità degli
incontri. Nell'assumersi il compito di dare una posterità
all'opera, che almeno tenti
di rispettare l'intenzione estetica dell'autore coniugandola con
quel senso delle cose che sempre si perde e si ritrova storicamente,
il lettore getta sì la sua rete, l'anceschiana rete "con la sua
trama chiusa e il suo ordito aperto, con i suoi molti fili e molti
nodi nella mobilità sollecitata anche dal minimo incresparsi
dell'acqua", ma così facendo diviene autore di una nuova opera
in cui cercando l'altro trova se stesso. Per sé e per altri
ancora, se questo lettore scriverà, e del resto non si può
scrivere senza pensiero di sé, e ancor prima senza
saper leggere. Non
sto tentando di ripristinare, surrettiziamente, l'idea di un
lettore assoluto, e questo per molte e ovvie ragioni, perché ho ben
presente "l'esperienza della diversità diacronica e sincronica
del libro e della lettura" (e queste sono sempre parole di
Anceschi), ma realisticamente perché sarebbe risibile, in questa
fine secolo, comunque in debito con Freud, pensare anche solo alla
possibilità di essere lettori
assoluti di se stessi, quando l'io compatto e dominus
mundi ha dapprima violentemente vacillato e poi si è
letteralmente squadernato sotto ai nostri occhi nelle sue luci e
nelle sue ombre, nel suo intricato e inestricabile viluppo di
conscio e inconscio; sto più semplicemente pensando che quella
relazione immaginaria e moltiplicatrice di senso che lega chi scrive
a chi legge ha la
forza materiale e simbolica per produrre una
modificazione del lettore tale da aprirgli una diversa via per la
conoscenza di sé. Un sé che non risponde alla presunzione di una
soggettività felicemente piena, ma che se mai allude a una singolarità
strutturalmente aperta al mondo e agli altri come insegna
Simone Weil. Si esce trasformati dalla lettura di un testo, ci si
ritrova nuovamente trasformati nella rilettura dello stesso testo,
dopo un giorno o dopo anni. Questa è l'esperienza più comune; ma
allora chi incontriamo, ad esempio, quando rileggiamo? Forse non
tanto e principalmente un diverso autore, né il nostro io di un
tempo, quasi potessimo consegnarci a una scheggia immobile del
tempo, tocchiamo piuttosto, sensibilmente, il lavoro di
trasformazione che anche quella prima lettura ha operato in noi, nel
nostro sguardo cambiato. Cambia
lo sguardo, cambia l'orecchio: tono, ritmo, colore del testo sono
ancora una volta nuovi per il nostro nuovo io. E
si potrebbe dire che il lettore è un pezzo d'opera, suo frutto
relazionale, sicché da un lato è chiamato dall'opera, che lo
sceglie fra tanti, dall'altro si costruisce come sua parte attiva,
capace di prolungarla in un tempo proprio e appropriato. Insomma
per concludere queste mie brevi osservazioni, questa strana coppia,
così laboriosa, svolge un sotterraneo compito molto importante, che
definirei produttivo di civiltà, perché rinnova, attaverso la
lingua e il suo ascolto, quel necessario legame fra i viventi che
costruisce polis, quella comunità sempre a rischio quotidiano di
rinnovata e antica barbarie. Vi
lascerò con tre citazioni: Da
Hetty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943: "Dammi un piccolo
verso al giorno, mio Dio, e se non potrò sempre scriverlo perché
non ci sarà più carta e perché mancherà la luce, allora lo dirò
piano, alla sera, al tuo gran cielo. Ma dammi un piccolo verso di
tanto in tanto". Da
Elsa Morante: "Il mondo vivente si ridurrebbe a un campo di
maledizione e di sterminio se gli uomini cessassero di riconoscere
dei simboli di verità poetica nelle cose reali". Da
Luciano Anceschi: "Ma cosa importa chi parla?". Testi
utilizzati: Elvio
Fachinelli, La
mente estatica, Adelphi, Milano 1989 Luciano
Anceschi, Gli
specchi della poesia, Einaudi, Torino 1989 -
Itinerario aperto,
Pratiche, Parma 1990 -
L'esercizio della lettura,
Pratiche, Parma 1995 Italo
Calvino, Lezioni
americane, Garzanti, Milano 1988 Otto
Weininger, Sesso
e carattere, Feltrinelli, Milano 1976 Simone
de Beauvoir, Il
secondo sesso, il Saggiatore, Milano 1978 Luisa
Muraro, Maglia
e uncinetto, Feltrinelli, Milano 1981 -
L'ordine
simbolico della madre, Ed. Riuniti, Roma 1991 -
Lo splendore
di avere un linguaggio, in "Aut Aut" n.260-261,
marzo-giugno 1994 Ingeborg
Bachmann, In
cerca di frasi vere, Laterza, Bari 1989 -
Letteratura
come utopia, Adelphi, Milano 1993 Clarice
Lispector, L'ora
della stella, Feltrinelli, Milano 1989 Tzvetan
Todorov, La
vie commune, Seuil, Paris 1995
Elsa
Morante, Pro
o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi,
Milano 1987 Liliana
Rampello, La
grande ricerca, Pratiche, Parma 1994 Simone
Weil, Ecrits
de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957
(nella lettura di Chiara Zamboni, L'azione
perfetta, Edizioni Centro Culturale Virginia Woolf Gruppo
B, Roma 1994) Hetty
Hillesum, Diario
1941-1943, Adelphi, Milano 1987
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