| 15/1997 
 Niva
              Lorenzini     La riflessione critica di Luciano
          Anceschi si è sempre articolata nei modi di una ininterrotta lettura.
          I suoi autori Anceschi
          non li abbandona mai: li legge, li rilegge, e attraverso le continue
          riletture si accosta gradualmente al fare,
          al farsi della loro
          scrittura. Questo vale per i crepuscolari, i lirici nuovi, Sereni, e
          poi principalmente Leopardi, per quanto riguarda l'orizzonte
          italiano, o Baudelaire per quello francese. Leggere per Anceschi significa
          interrogare, nel rispetto della pluralità delle possibili scelte di
          campo. E si interroga solo dialogando, sottoponendo il testo e lo
          stesso potenziale interprete a un procedere investigativo fatto di
          domande che non approdano necessariamente a risposte, tantomeno se
          definitive. Se è vero infatti che nessuna vera opera d'arte "si
          lascia mai raggiungere" - come avvertono Gli
          specchi della poesia - restando un "chiuso enigma",
          la sola possibilità di confronto con lei consiste nell'impegno di
          chi si applica a rilevare i molteplici aspetti, le diverse sfumature e
          modulazioni della sua alterità.[i] Alla luce di queste considerazioni,
          nasce un primo nostro interrogativo. Sono davvero suoi Pascoli e
          D'Annunzio? O fino a che punto lo sono? Nei loro confronti Anceschi
          si muove con una sorta di percorso a fasi, passa cioè da momenti di
          distacco o vero rifiuto a momenti di un'attenzione più partecipe. E
          non è neppure giusto, d'altra parte, considerare i due autori in
          coppia indissolubile: altro è il comportamento del
          critico‑lettore Anceschi verso Pascoli, altro quello verso
          d'Annunzio. Verificare le fasi di quella
          lettura significa tra l'altro fare luce su orientamenti e mode
          culturali che riguardano gli ultimi quarant'anni di storia della
          critica in Italia. Ma non si tratta certo di solo interesse
          storiografico, perché poi quel che più conta - e che a noi qui
          importa davvero - resta la verifica di quanto il nostro presente, il
          presente di chi appartiene alle ragioni del pieno Novecento - si è
          lasciato segnare da quel passato. O meglio: quanto quel passato si è
          adempiuto - uso il termine in accezione benjaminiana - nel
          presente. Non esiste, sappiamo bene,
          tradizione del nuovo senza consapevolezza del confronto col passato,
          che va riletto proprio a partire dal nostro ora, dall'urto che esso
          riceve da quell'adempiersi:
          è questo l'unico modo di non abolire la distanza, anzi semmai di
          salvaguardarla conferendo simultaneamente profondità temporale
          all'oggi. E dunque Pascoli, D'Annunzio...
          Si registra intanto, dopo una scarna citazione del '36 interna al
          capitolo di Autonomia ed eteronomia
          dell'arte dedicato allo sviluppo in Europa della
          tradizione di poesia pura,[ii]
          un silenzio di quasi vent'anni, interrotto solo da una succinta
          risposta al Referendum
          su d'Annunzio indetto dalla rivista "Letteratura" nel marzo del
          '39. Occorrerà di fatto attendere gli
          inoltrati anni Cinquanta perché Pascoli e D'Annunzio divengano
          argomenti frequenti nella riflessione critica di Anceschi. Ciò
          significa - per chi è attento alle date - che nessun accenno se
          ne rintraccia sorprendentemente nell'antologia dedicata ai Lirici
          nuovi (1943), ove si sottolinea piuttosto la totale
          distanza tra l'uso dell'analogia operato per l'appunto dai
          lirici nuovi (e in particolare da Ungaretti) e quello
          dell'"analogia simbolista", su cui a torto - per Anceschi -
          si continua a insistere nelle sillogi letterarie. Scarsissimi restano i rilievi anche
          nella successiva antologia Lirica
          del Novecento, approntata per Vallecchi con Sergio
          Antonielli nel 1953, che prende in considerazione gli anni
          1905‑1945 con l'intento di mettere in luce (i corsivi sono nel
          testo) gli sviluppi del linguaggio
          lirico e di dichiarare "gli apporti particolari che i
          movimenti letterari, e, in essi, le singole personalità poetiche
          han portato al consolidamento della espressione contemporanea" (pp.
          X‑XI dell'Introduzione
          anceschiana). Sono del resto gli anni in cui
          Anceschi si interessa a Pound, Eliot, alle traduzioni, a Linea
          lombarda (1952) e a Valéry, guardando di preferenza a un
          orizzonte europeo. Di Pascoli e D'Annunzio si limita
          dunque a scrivere: "forse" - un avverbio che funziona da segnale
          nello stile autointerrogativo di Anceschi - si dovrebbe cominciare
          da certo Pascoli o da certo
          D'Annunzio, "in cui s'avvertono taluni presentimenti, e,
          addirittura, origini", e documentare "tutta una zona intermedia
          tra il linguaggio dell'ultimo ottocento e quello del primo
          novecento" (XVI). Ma non lo si farà, e per due
          ragioni: intanto perché l'antologia punta a illustrare la storia
          della parola poetica della prima metà del Novecento attraverso
          i movimenti letterari, e ha quindi il diritto di aprirsi
          col fatto che si impone come "primo moto del secolo" (si tratta,
          naturalmente, dei crepuscolari). In secondo luogo - ed è motivo ben
          più importante e sostanziale per Anceschi - l'inizio del 1905
          trova le proprie giustificazioni direttamente su un linguaggio e una
          cultura poetica cui Pascoli e D'Annunzio risultano in quel momento
          evidentemente estranei. La verifica, per chi la vuole trovare, è
          nelle citazioni dirette riservate ai due poeti "laureati": cinque
          in tutto e talmente irrilevanti che non fa conto riferirne in
          dettaglio (si accenna a Pascoli trattando di Rebora e del primo Luzi,
          a D'Annunzio analizzando l'uso dell'enjambement
          in Corazzini o a residui decadenti in Marinetti). Si può pertanto affermare che
          ancora all'altezza della Lirica
          del Novecento né Pascoli né D'Annunzio sono considerati
          da Anceschi poeti in grado di dare significato al tempo presente o di
          rinnovare il linguaggio poetico, se si precisa, in quello stesso
          contesto, che solo i gruppi e i movimenti successivi sapranno portare
          la poesia "d'un balzo (dopo tanto isolamento) a contatto della
          cultura poetica europea con una volontà d'individuazione nuova" (XLIX). Occorrerà attendere - lo si
          annunciava - gli anni della "stanchezza" della poesia, e dunque
          per un Anceschi che non nasconde disagio, se non sincero fastidio per
          le sistematizzazioni, i pieni anni Cinquanta, il periodo in cui si
          passa dalla "storia che si fa" alla "storia che si scrive":
          quella stagione, insomma, non più propizia alla scrittura ma alla
          scoperta di legami, al ritrovamento di fili. "Lo spettacolo è finito" -
          commenta con amarezza il critico, e con esso le proposte innovative. E
          quel che è peggio, mentre viene meno "quella violenza e prepotenza
          della diversità della forma che è il segno dei rinnovamenti
          radicali", non si affaccia neppure lo sforzo di una presente
          conclusione, sostituita piuttosto da una meno impegnativa e
          meno impegnata presente situazione
          ferma (CIII). È insomma giunto il momento, in assenza
          della poesia che si fa, di fare il punto, con dibattiti critici, sulla
          poesia che si è fatta. Tocca per primo a Pascoli, il cui
          centenario della nascita cade alla metà del decennio, venire
          rivisitato; subito dopo, all'inizio degli anni Sessanta, sarà la
          volta di D'Annunzio. Anche se di Pascoli Anceschi si era
          in verità già occupato nelle pagine conclusive di Lirica
          del Novecento, tra qualche dubbio e perlomeno una forte
          certezza: "Qualcuno - scriveva a p. CIII - potrebbe, a un certo
          punto, prendere le difese del Pascoli, e chiedere perché questa
          nostra raccolta non si apra de jure
          con il suo nome. Ebbene, non mi par dubbio: nei tre poeti della fine
          del secolo si avvertono presentimenti delle nuove ragioni
          poetiche; e, si sa, il Pascoli (il Pascoli di Myricae),
          poi, si stacca, forse, dagli altri "come artista in cui s'erano
          annunciati" in modo particolarissimo, i "nuovi sensi del ritmo,
          del linguaggio, del processo immaginativo" (Cecchi, Flora); e,
          tuttavia, c'è qualche cosa - una differenza sostanziale - che
          separa Pascoli dai poeti del novecento". La diagnosi è stesa con mano
          ferma, e chiama in causa - ad avvalorarla - il giudizio di un
          poeta veramente nuovo: in Pascoli, in definitiva, "non si trova
          consapevole quella 'nuova arte del tormento critico' (di critica e
          di crisi) di cui argomentò una volta Montale e in cui si riconosce
          una vera 'palpitazione del tempo'". Certo intorno alla metà degli anni
          Cinquanta del Pascoli si faceva un gran discutere, da Contini a
          Schiaffini a Antonielli a Spagnoletti a un precoce Pasolini, ormai
          prossimo a scrivere del Pascoli su "Officina" (1, maggio 1955),
          nel saggio posto ad apertura della rivista.[iii]
          E proprio Pasolini era stato ricordato da Anceschi nel suo primo breve
          intervento su Pascoli intitolato Questioni
          del Novecento (in "Aut Aut", marzo 1954), in cui si
          negava risolutamente a Pascoli la fisionomia di poeta del Novecento o
          addirittura di "iniziatore del secolo": così facendo - si
          argomentava - si finisce tra l'altro per snaturare la sua poesia,
          per decontestualizzarla. Quando piuttosto vanno riconosciuti al
          Pascoli "presentimenti non esteriori, anzi assai intimi, del nuovo
          stile", insieme però alla percezione di una mancanza: quella di una
          consapevolezza - tutta, pur con i suoi errori, propria del nostro
          secolo - della "necessità organica del sistema espressivo" di
          ogni poeta; e quella "volontà di "nudità" della parola, che è
          propria dell''uomo solo', dell''uomo buio'", e che iniziò
          davvero solo con i crepuscolari.[iv] Quel giudizio si conserverà a
          lungo, e forse non verrà mai del tutto rinnegato: modificato,
          piuttosto, in successivi approfondimenti, in nuove analisi, verifiche.   Fondamentale quella del 1958
          (occasione: il convegno pascoliano del marzo - successivamente
          pubblicata nel "Verri", 4, dicembre 1958, poi in Barocco
          e Novecento 1960), a partire da un titolo, Pascoli "verso" il Novecento, che non verrà mai proposto
          per d'Annunzio. È in questo saggio che Anceschi fa della lettura o rilettura
          di Pascoli "dopo i lirici nuovi" un problema, appunto, di lettura,
          cioè del trasformarsi della poesia secondo la situazione in cui si
          colloca chi la legge. Scrive infatti: a rileggere oggi il
          Pascoli, nella nostra situazione,
          "accade a noi lettori di sorprenderlo in un gesto inatteso, di
          avvertire qualcosa di nuovo e di strano nella figura che ci era
          familiare del poeta". E aggiunge: "Lo sentiamo, per così dire, più
          vicino; e il testo ci parla con una voce che [...] acquista vibrazioni
          e animazioni disformi".[v] Fa certo parte della forza della
          poesia di "presentarsi sempre un poco diversa": ma la diversità
          consiste qui in una assimilazione di Pascoli ai lirici nuovi
          ("Riletto dopo i
          lirici nuovi s'è fatto, per certi lati, nuovo coi nuovi").[vi] Se non dovessimo procedere spediti,
          potremmo incunearci nei gangli vitali di questa rilettura: ma
          perlomeno andranno sottolineate certe citazioni ritagliate davvero
          tutt'altro che casualmente: un modo di pensare, quello di Pascoli,
          che trasporta negli "abissi della verità", una poesia, la sua,
          intesa come "visione che comunica visione", una "poesia pura",
          anche, da intendersi come maniera sui
          generis di conoscenza visionaria e rivelatrice. E si parla
          anche di "massima energia poetica nella massima energia
          nominale"...[vii] Lo sforzo, pare di intendere, è
          quello di mettere in luce non tanto la poesia del Pascoli in sé, ma i
          modi in cui essa si misura con le profonde ragioni del secolo,
          occupando "quella regione della poesia che non è ancora
          la poesia, che è  prima
          della poesia, ma senza la quale la poesia non si ha".[viii] Dunque, finalmente, un Pascoli
          precursore "degli sviluppi e delle ragioni del Novecento perlomeno
          per il presentimento della crisi di ciò che fu sacro nel secolo in
          cui egli nacque e si formò". La conclusione provvisoria è che
          non si nega affatto l'influenza del Pascoli sulla poesia del
          Novecento: e si avverte tra le righe il fastidio di doversi difendere
          da polemiche che si conoscono tutt'altro che pacate (si accennerà,
          in un articolo del '58 dedicato alle Ipotesi
          di lavoro sui rapporti tra D'Annunzio e la lirica del Novecento,
          pubblicato in "Convivium", a quei critici che, a proposito di
          Pascoli, "si sollecitano più o meno cordialmente l'un
          l'altro").[ix]
          Tra le polemiche va senz'altro segnalata quella con Pasolini, sicuro
          destinatario dell'accenno riservato a chi appartiene a correnti
          "avaramente sospettose verso le più tipiche innovazioni
          novecentesche", e si serve pretestuosamente di un Pascoli incaricato
          di portare in sé la lirica del Novecento, ma con intenti solo
          riduttivi. Lo stile di Anceschi allora si
          turba, si contrae, fino a divenire quasi irriconoscibile: "Una
          azione larga del Pascoli c'è, non potrebbe essere altrimenti, non
          l'abbiamo certo negata mai, e non si vede ragione e possibilità
          alcuna di negarla".[x]
          Mai Anceschi parla così dei suoi autori amati. E mai riparlerà così
          neppure di Pascoli, riprendendo la sua interrogazione nelle Poetiche del Novecento in Italia (1961): è qui che, dopo una
          sanzione senza appello - "La lirica del Novecento non fu [...] né
          pascoliana né dannunziana. Cercò vie sue, e diverse" (semmai si
          limitò a giovarsi di una situazione della cultura e del1a parola
          poetica pascoliana e dannunziana "che consentiva nuove ricerche e
          apriva diverse possibilità")[xi]
          - si fa spazio alla prima verifica attenta all'affoltirsi degli
          oggetti, alla liberazione della parola dal peso dell'utilità, al
          recupero del realismo ma in chiave turbata, fin
          de siècle. La seguirà una seconda verifica
          ancora più meditata nel 1963, Pascoli
          e le istituzioni del Novecento (ora nelle Istituzioni della poesia, 1968). È questo per altro
          l'ultimo scritto sistematico su Pascoli, in cui si fissa la diversità
          tra la "poetica delle cose" pascoliana e l'idea del simbolo
          oggettivo, l'"emblema" montaliano. Non possiamo ora inoltrarci
          nell'analisi; ma neppure sarà consentito passare sotto silenzio il
          fatto che al poeta di San Mauro, pieno
          di futuro anche se non ancora in grado di attuare la lirica
          del Novecento, viene ascritto a merito, per la prima volta e con
          forza, la percezione del rapporto poetica‑poesia, la voglia di
          compromettere il lettore in una "complicità emotiva", la forza di
          proporre una "'poesia pura', anti-letteraria, non esornativa",
          di agire sull'oggetto per renderlo poeticamente attivo,
          sottoponendolo a un trattamento nuovo.[xii]
          Qualità che vengono negate, nel medesimo contesto, a d'Annunzio. Già, D'Annunzio. È sicuramente
          più rapido seguire l'itinerario delle letture che Anceschi gli
          dedica, ma non meno coinvolgente e intrigante. Data del 1958 il primo intervento
          organico: Ipotesi di lavoro sui
          rapporti tra D'Annunzio e la lirica del Novecento (in "Convivium",
          poi in Barocco e Novecento).
          A quell'altezza non si era ancora riaperto il problema D'Annunzio,
          di cui si ricomincerà a discutere sistematicamente solo a partire dai
          convegni e dibattiti indetti per il centenario della nascita (1963).
          La testimonianza di Anceschi appare subito preziosa per indicare non
          solo un personale orientamento di gusto, ma per delineare con tratto
          sicuro i caratteri di una situazione critica e di una risposta
          generazionale tutt'altro che favorevoli al vate pescarese. Nessuna mediazione, dunque, ma un
          mirare direttamente al cuore del problema, muovendo da una
          affermazione decisa: "Si sa - si legge quasi ad apertura del
          saggio -, la nostra generazione, in ciò che ebbe di meglio e di
          proprio, non ha di fatto mai amato D'Annunzio, anche se non ne ignorò
          la forza; anzi, nata tra gli ultimi clamori di una grande avventura
          retorica, essa tese come a liberarsi dal modello, a trovare misure più
          adeguate e dirette con un più affabile e contemporaneo contatto con
          l'Europa viva, in un senso delle cose fatto più intimo e intenso,
          calcolato e profondo, sciolto da quelle troppo splendenti, e vistose,
          e spesso incredibili macchine del dire in un'aria morale più nuda e
          raccolta".[xiii] Ben diversa, si è visto, è la
          considerazione riservata alla poesia del Pascoli in quello stesso
          1958. E il giudizio non si modifica certo nelle pagine successive,
          anzi si fa se possibile anche più severo, pure fra qualche
          attenuazione tonale: specie ove si parla del rapporto complesso e non
          riducibile a unità di D'Annunzio con la lirica del Novecento, un
          rapporto che a parere di Anceschi si instaura "non senza una sua
          comprensibile, inevitabile ambiguità e una sorta di doppio gioco fin
          dal tempo dei crepuscolari: una ammirazione non priva di ironia, un
          rifiuto non privo di recuperi".[xiv] La conclusione è drastica: solo di
          recuperi personali si potrà parlare, di riprese lessicali o
          stilistiche molto circostanziate: ma ciò non scalfisce la convinzione
          di fondo che la poesia di D'Annunzio non proponga né istituisca il
          sistema nuovo su cui i poeti seguenti potranno lavorare ("Sembra
          veramente - si sottolinea, quasi a sancire una sostanziale
          differenziazione rispetto a Pascoli - che nessuna particolare e
          fondamentale novità istituzionale egli porti verso
          la 'lirica del Novecento'"). E le ipotesi di lavoro che vengono di lì a poco indicate, a
          conclusione di un primo approccio valutativo, non lasciano certo
          aperte molte possibilità di revisione del giudizio. In tre punti
          successivi si considera "assolutamente infondato veder D'Annunzio
          come uno di quei poeti che danno inizio ad una civiltà di poeti" (a),
          e neppure a "un sistema parziale di istituzioni" (b), al punto che si considera il suo sistema "irriducibile
          alle intenzioni che uniscono gli svariati sistemi della "lirica del
          Novecento" nel loro movimento aperto e variato" (c). Nulla muta, rispetto a quelle
          ipotesi, nelle Poetiche del
          Novecento. La prima novità si avverte semmai in Poetiche
          e istituzioni in un D'Annunzio "sperimentale" (1961,
          poi in Le istituzioni della poesia
          1968). Qui l'accento si sposta sull'attività inesausta del poeta
          sperimentatore di poetiche e forme, di cui si comincia ad avvertire un
          controcanto segreto: D'Annunzio - riconosce ora Anceschi - non
          si può comprendere con strumenti logici, né si devono cercare in lui
          "simboli verificabili".[xv]
          Egli istituisce piuttosto uno stato
          simbolico della parola (che coincide con l'ulteriorità,
          la forzatura in senso visivo, sonoro), una eccitazione
          della parola che chiama il lettore alla complicità. E però si
          confermano l'immaturità umana, l'esteriorizzazione nella musica
          verbale e nell'analogia, di cui D'Annunzio, a differenza di
          Pascoli, non avverte "profondamente né la forza espressiva ed
          inventiva, né il significato metafisico". Eppure D'Annunzio ha una sua
          modernità, che sta intricando sempre più il lettore Anceschi. Di
          questa, in fondo, tratta l'intervento preparato per il convegno del
          '73 su D'Annunzio e il
          simbolismo europeo, in cui il critico si dedica, nello
          specifico, ad approfondire il rapporto tra D'Annunzio
          e il sistema dell'analogia.[xvi]
          Se è vero, infatti, che il limite del poeta gli appare ancora bene
          evidente nel tentativo di forzare l'analogia in funzione di "una
          nuova purezza e impeccabilità formale", e dunque con fini ancora
          estetizzanti, si svelano però con una incidenza nuova alcuni tratti
          del suo essere moderno: e cioè una poetica del travestimento che
          utilizza innumerevoli maschere, sottopone la tradizione a continue
          risemantizzazioni, concepisce la poesia come scrittura di secondo
          grado, metapoesia che diviene argomento centrale, invenzione inesausta
          e inesauribile. Lungo questa via, si perviene a un
          primo riconoscimento importante: proprio D'Annunzio, il poeta della
          fuga nell'irrazionale, nell'evasione dal presente, fu invece,
          forse, "un inconsapevole segnale della crisi radicale del tempo in
          cui visse. Ma non seppe avvertirla, non ne intese la forza
          sconvolgente e terribile e nuova, non riconobbe gli uomini che la
          annunciavano". Ancora un passo,`e siamo all'Introduzione
          ai Versi d'amore e di gloria (1982).[xvii]
          Nel ricostruire le fasi di un lavoro così imponente, per quantità e
          varietà di risultati, e nel ricomporre la fisionomia di un poeta
          quant'altri mai labirintico, inafferrabile, Anceschi si sentiva
          sempre più attirato dal momento genetico, aurorale di questa poesia.
          Il momento del dubbio di sé, della decisione, da parte del
          giovanissimo pescarese, di farsi poeta. Forse Anceschi calca la mano,
          attribuendo al grande istrione un'inquietudine esistenziale che ce
          ne restituisce un volto enigmatico. Ma la sua lettura affascina,
          coinvolge: sembra veramente - scrive - che quest'uomo (l'omino
          "erettile" di cui si è discusso in termini spregiativi) "abbia
          passato un momento di dubbio profondo di se stesso forse sconvolgente,
          certo determinante, proprio agli esordi del tempo ricco, confuso, e
          fragile della nascita della poesia" (XV). Di D'Annunzio comincia
          ad attirarlo l'inquietudine, la trasformazione continua,
          l'autenticità che si coniuga con l'artificio, la "mostruosità
          dirompente che deve essere domata continuamente con gesti rituali":
          la letteratura di seconda istanza, ancora.   Anche se di quell'inafferrabile
          personalità gli resta e gli resterà lontano il distacco senza
          ironia, qualità ineliminabile e indisgiungibile dalla passione, per
          definire un autore non solo moderno, appunto, ma contemporaneo - e
          di fatto la modernità di D'Annunzio ha poco da spartire, si precisa
          subito dopo, con la sostanza umana e artistica di poeti che sentiamo
          "propriamente e strettamente 'novecenteschi'" (XVI‑XVII). Così anche l'idea fissa che
          occupò D'Annunzio per tutta la vita, e cioè l'idea della poesia,
          che gli consentì di salvarsi "nella letterarietà, con la
          letterarietà, per la letterarietà" (XXX) non è mai sfiorata dal
          sospetto e dal distacco ironico: e tuttavia, per Anceschi, non nasce
          da una adesione irriflessa e spontanea, ma da un trauma, da una
          condizione rimossa di originaria penuria e dispersione. Ecco allora il suo
          D'Annunzio, quello che lo irretisce e lo respinge: il poeta che ha
          vivo il senso di uno sfuggire, di un perdersi della poesia fino al
          sospetto di un suo non esserci (XXX), fino a dedicare la vita intera
          di poeta ad "addormentare" quel dubbio, e a trasformare la poesia,
          per risarcimento di sé, in un atto di "decisione risoluta",
          continuamente attenta alle ragioni del proprio fare fino al mito della
          parola che salva dall'errore del tempo. Un mito assoluto perseguito
          fra turbamenti continui, sospetti, incertezze, nonostante lo
          corrodesse la percezione della morte dell'arte, del suo destino
          ormai segnato di dissacrazione e riconsacrazione laica. Alla fine, tuttavia, il poeta di
          labirinti e labirintico, modernissimo appunto per il "dominio
          d'invenzione illusionistica su una straordinaria e labirintica (e
          pur dominante) dispersione", resta, nel suo manierismo, "difficile
          da avvicinare, e, per quanto è possibile, comprendere" (LIX). Non gli riusciva insomma di
          afferrarlo, di trovare il filo di quel labirinto. Ma neppure era
          facile staccarsi da lui, dopo quella tesa esperienza di lettura: e al
          vate, infatti, sarà concesso l'onore, consentito davvero a
          pochissimi altri poeti, di due fascicoli monografici del "Verri"
          (5‑6, 7-8, l985). È però un Anceschi perfido e
          ironico quello che, identificandosi con un caustico James, ne
          riferisce senza commento il pensiero: "Già ai suoi tempi - scrive
          - (1904) Henry James in un saggio davvero invidiabile sottolineava
          certe sottili perplessità di lettore esperto verso un artista non
          raffinato il cui tema costante è la raffinatezza, e parlava di
          D'Annunzio con una perfidia di ammiratore argutissimo capace di
          scoprire, sotto lo splendore, certi risvolti negativi".[xviii] Anceschi e James... "Che cosa ci
          dice oggi D'Annunzio? Come si convive con lui?" - chiede
          Anceschi a bruciapelo. Non c'è risposta: noi - conclude -
          leggiamo "ancora un poco stupefatti" quel poeta la cui "indubbia
          grandezza fa spesso fatica ad accordarsi col nostro desiderio di una
          affettuosa convivenza" (al punto che "l'ipotesi di un suo
          proporsi come Modello Generale per i Poeti d'Oggi - nonostante
          alcune tentazioni post‑moderne - pare davvero cosa oscura, o
          controversa, e, in definitiva, improbabile"). Siamo alla conclusione. Pascoli,
          D'Annunzio sono certo per Anceschi ciò che il Novecento non è più
          e non vorrà più essere. Ma in che senso possiamo ancora parlare
          della loro poesia? Che cosa è, che cosa è stata la loro poesia? Per Anceschi, è stata ciò
          che ha fatto ma insieme ciò che il lettore del Novecento
          di volta in volta sa cercare in lei, con la consapevolezza di una alterità
          inconciliabile: la tradizione è da ricreare sempre secondo le
          esigenze del presente. In ogni caso l'inchiesta resta
          fino all'ultimo aperta, se possiamo ritrovare a sorpresa
          D'Annunzio in un appunto su Cézanne interno al volume Che
          cos'è la poesia?. Lo si chiama in causa
          all'improvviso, coi suoi "procedimenti inconsueti e sorprendenti
          di un singolare manierismo", ma anche con la consapevolezza del tema
          ricorrente della "morte dell'arte" e del significato di questa
          affermazione nella cultura di fine secolo, "significato a cui il
          poeta diede con lucidità una particolare curvatura semantica".[xix] Quanto a Pascoli, ancora diversa e
          nuova appare ad Anceschi, negli Specchi
          della poesia (1989), la sua immagine, e protesa verso il
          Novecento in modo ben diverso "dalle considerazioni tradizionali".[xx]
          A quell'altezza Anceschi ha letto l'interpretazione del Perugi, ed
          è disposto a riconsiderare la consapevolezza dell'arte che lega
          Pascoli a Leopardi, Poe, Baudelaire, Valéry, Benn, Pound... I suoi autori... il discorso non si chiude: la lettura, come esperienza e ridiscussione continua, accompagna davvero la vita di chi fa, ha fatto, della curiosità intellettuale lo stile della propria esistenza.   [i]
              Al problema del leggere è dedicato in particolare il capitolo Il
              critico‑lettore; il critico‑scrittore; il
              critico‑saggista in L. Anceschi,
              Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica,
              Torino, Einaudi, 1989, pp. 118‑130. Si rinvia anche al
              postumo L'esercizio della
              lettura, Parma, Pratiche, 1995. [ii] 
              Cfr. L. Anceschi,
              Autonomia ed eteronomia
              dell'arte, (1936), Milano, Garzanti, 1992, p. 219,
              ove si parla di Fortuna e sviluppo della tradizione della poesia pura, che in
              Italia, coincide con "taluni momenti del D'Annunzio o del
              dannunzianesimo, Il Convito,
              il Conti, Pascoli e la sua teoria del 'fanciullino'". È
              l'unico accenno contenuto nel volume. [iii]
              P.P. Pasolini, Pascoli,
              pp.1‑8 della ristampa anastatica, Bologna, Pendragon, 1993.  [iv] 
              Il saggio si articola in cinque brevi sezioni (I. Pascoli
              e il Novecento; II. Pascoli
              e Montale; III. Pascoli
              e Onofri; IV. La
              formazione del Pascoli; V. I
              "Crepuscolari" e il Novecento). Le citazioni sono
              tratte da p. 142.  [v]
              L. Anceschi, Barocco e
              Novecento, Milano, Rusconi e Paolazzi Editori, 1960, p.
              95. [vi]
              Ibid.,
              p. 97. [vii]
              Anceschi cita soprattutto la prosa del Fanciullino
              nelle pp. 106‑107. [viii]
              Ibid.,
              p. 98. La citazione che segue appartiene a p. 101. [ix] 
              L'articolo apparve sulla rivista nel dicembre 1958, e fu
              poi ristampato in Barocco e
              Novecento. Si cita dal volume, p. 132. [x]
              L. Anceschi, Pascoli
              "verso" il Novecento, in Barocco
              e Novecento, cit., p. 109. [xi]
              Le poetiche del Novecento in
              Italia, (1961), a cura di L. Vetri, Padova, Marsilio,
              1990, p. 110. [xii]
              Le istituzioni della poesia,
              Milano, Bompiani, 1983, pp.142, 149, 151. [xiii]
              Barocco e Novecento,
              cit., p. 125. [xiv]
              Ibid.,
              p. 126. Seguono citazioni dalle pp. 131 e 134. [xv]
              L. Anceschi, Le istituzioni
              della poesia, cit., p. 189. Le citazioni che seguono
              sono delle pp.189‑190, 192.  [xvi]Cfr. Atti
              del Convegno su D'Annunzio e
              il simbolismo europeo, Gardone 1973, Milano, Il
              Saggiatore, 1976, p. 92. [xvii]
              G. D'Annunzio, Versi
              d'amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N.
              Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982, vol. I. [xviii]
              L. Anceschi, Intervento,
              in "il Verri", nn. 5‑6, 1985, pp. 5‑6. [xix]
              Appunto, a proposito di una
              frase di Cézanne, in Che cosa è la poesia?, Bologna, Zanichelli, 1986, p. 153. [xx] Gli specchi della poesia, cit., p. 37. | |