15/1997
Niva
Lorenzini La riflessione critica di Luciano
Anceschi si è sempre articolata nei modi di una ininterrotta lettura.
I suoi autori Anceschi
non li abbandona mai: li legge, li rilegge, e attraverso le continue
riletture si accosta gradualmente al fare,
al farsi della loro
scrittura. Questo vale per i crepuscolari, i lirici nuovi, Sereni, e
poi principalmente Leopardi, per quanto riguarda l'orizzonte
italiano, o Baudelaire per quello francese. Leggere per Anceschi significa
interrogare, nel rispetto della pluralità delle possibili scelte di
campo. E si interroga solo dialogando, sottoponendo il testo e lo
stesso potenziale interprete a un procedere investigativo fatto di
domande che non approdano necessariamente a risposte, tantomeno se
definitive. Se è vero infatti che nessuna vera opera d'arte "si
lascia mai raggiungere" - come avvertono Gli
specchi della poesia - restando un "chiuso enigma",
la sola possibilità di confronto con lei consiste nell'impegno di
chi si applica a rilevare i molteplici aspetti, le diverse sfumature e
modulazioni della sua alterità.[i] Alla luce di queste considerazioni,
nasce un primo nostro interrogativo. Sono davvero suoi Pascoli e
D'Annunzio? O fino a che punto lo sono? Nei loro confronti Anceschi
si muove con una sorta di percorso a fasi, passa cioè da momenti di
distacco o vero rifiuto a momenti di un'attenzione più partecipe. E
non è neppure giusto, d'altra parte, considerare i due autori in
coppia indissolubile: altro è il comportamento del
critico‑lettore Anceschi verso Pascoli, altro quello verso
d'Annunzio. Verificare le fasi di quella
lettura significa tra l'altro fare luce su orientamenti e mode
culturali che riguardano gli ultimi quarant'anni di storia della
critica in Italia. Ma non si tratta certo di solo interesse
storiografico, perché poi quel che più conta - e che a noi qui
importa davvero - resta la verifica di quanto il nostro presente, il
presente di chi appartiene alle ragioni del pieno Novecento - si è
lasciato segnare da quel passato. O meglio: quanto quel passato si è
adempiuto - uso il termine in accezione benjaminiana - nel
presente. Non esiste, sappiamo bene,
tradizione del nuovo senza consapevolezza del confronto col passato,
che va riletto proprio a partire dal nostro ora, dall'urto che esso
riceve da quell'adempiersi:
è questo l'unico modo di non abolire la distanza, anzi semmai di
salvaguardarla conferendo simultaneamente profondità temporale
all'oggi. E dunque Pascoli, D'Annunzio...
Si registra intanto, dopo una scarna citazione del '36 interna al
capitolo di Autonomia ed eteronomia
dell'arte dedicato allo sviluppo in Europa della
tradizione di poesia pura,[ii]
un silenzio di quasi vent'anni, interrotto solo da una succinta
risposta al Referendum
su d'Annunzio indetto dalla rivista "Letteratura" nel marzo del
'39. Occorrerà di fatto attendere gli
inoltrati anni Cinquanta perché Pascoli e D'Annunzio divengano
argomenti frequenti nella riflessione critica di Anceschi. Ciò
significa - per chi è attento alle date - che nessun accenno se
ne rintraccia sorprendentemente nell'antologia dedicata ai Lirici
nuovi (1943), ove si sottolinea piuttosto la totale
distanza tra l'uso dell'analogia operato per l'appunto dai
lirici nuovi (e in particolare da Ungaretti) e quello
dell'"analogia simbolista", su cui a torto - per Anceschi -
si continua a insistere nelle sillogi letterarie. Scarsissimi restano i rilievi anche
nella successiva antologia Lirica
del Novecento, approntata per Vallecchi con Sergio
Antonielli nel 1953, che prende in considerazione gli anni
1905‑1945 con l'intento di mettere in luce (i corsivi sono nel
testo) gli sviluppi del linguaggio
lirico e di dichiarare "gli apporti particolari che i
movimenti letterari, e, in essi, le singole personalità poetiche
han portato al consolidamento della espressione contemporanea" (pp.
X‑XI dell'Introduzione
anceschiana). Sono del resto gli anni in cui
Anceschi si interessa a Pound, Eliot, alle traduzioni, a Linea
lombarda (1952) e a Valéry, guardando di preferenza a un
orizzonte europeo. Di Pascoli e D'Annunzio si limita
dunque a scrivere: "forse" - un avverbio che funziona da segnale
nello stile autointerrogativo di Anceschi - si dovrebbe cominciare
da certo Pascoli o da certo
D'Annunzio, "in cui s'avvertono taluni presentimenti, e,
addirittura, origini", e documentare "tutta una zona intermedia
tra il linguaggio dell'ultimo ottocento e quello del primo
novecento" (XVI). Ma non lo si farà, e per due
ragioni: intanto perché l'antologia punta a illustrare la storia
della parola poetica della prima metà del Novecento attraverso
i movimenti letterari, e ha quindi il diritto di aprirsi
col fatto che si impone come "primo moto del secolo" (si tratta,
naturalmente, dei crepuscolari). In secondo luogo - ed è motivo ben
più importante e sostanziale per Anceschi - l'inizio del 1905
trova le proprie giustificazioni direttamente su un linguaggio e una
cultura poetica cui Pascoli e D'Annunzio risultano in quel momento
evidentemente estranei. La verifica, per chi la vuole trovare, è
nelle citazioni dirette riservate ai due poeti "laureati": cinque
in tutto e talmente irrilevanti che non fa conto riferirne in
dettaglio (si accenna a Pascoli trattando di Rebora e del primo Luzi,
a D'Annunzio analizzando l'uso dell'enjambement
in Corazzini o a residui decadenti in Marinetti). Si può pertanto affermare che
ancora all'altezza della Lirica
del Novecento né Pascoli né D'Annunzio sono considerati
da Anceschi poeti in grado di dare significato al tempo presente o di
rinnovare il linguaggio poetico, se si precisa, in quello stesso
contesto, che solo i gruppi e i movimenti successivi sapranno portare
la poesia "d'un balzo (dopo tanto isolamento) a contatto della
cultura poetica europea con una volontà d'individuazione nuova" (XLIX). Occorrerà attendere - lo si
annunciava - gli anni della "stanchezza" della poesia, e dunque
per un Anceschi che non nasconde disagio, se non sincero fastidio per
le sistematizzazioni, i pieni anni Cinquanta, il periodo in cui si
passa dalla "storia che si fa" alla "storia che si scrive":
quella stagione, insomma, non più propizia alla scrittura ma alla
scoperta di legami, al ritrovamento di fili. "Lo spettacolo è finito" -
commenta con amarezza il critico, e con esso le proposte innovative. E
quel che è peggio, mentre viene meno "quella violenza e prepotenza
della diversità della forma che è il segno dei rinnovamenti
radicali", non si affaccia neppure lo sforzo di una presente
conclusione, sostituita piuttosto da una meno impegnativa e
meno impegnata presente situazione
ferma (CIII). È insomma giunto il momento, in assenza
della poesia che si fa, di fare il punto, con dibattiti critici, sulla
poesia che si è fatta. Tocca per primo a Pascoli, il cui
centenario della nascita cade alla metà del decennio, venire
rivisitato; subito dopo, all'inizio degli anni Sessanta, sarà la
volta di D'Annunzio. Anche se di Pascoli Anceschi si era
in verità già occupato nelle pagine conclusive di Lirica
del Novecento, tra qualche dubbio e perlomeno una forte
certezza: "Qualcuno - scriveva a p. CIII - potrebbe, a un certo
punto, prendere le difese del Pascoli, e chiedere perché questa
nostra raccolta non si apra de jure
con il suo nome. Ebbene, non mi par dubbio: nei tre poeti della fine
del secolo si avvertono presentimenti delle nuove ragioni
poetiche; e, si sa, il Pascoli (il Pascoli di Myricae),
poi, si stacca, forse, dagli altri "come artista in cui s'erano
annunciati" in modo particolarissimo, i "nuovi sensi del ritmo,
del linguaggio, del processo immaginativo" (Cecchi, Flora); e,
tuttavia, c'è qualche cosa - una differenza sostanziale - che
separa Pascoli dai poeti del novecento". La diagnosi è stesa con mano
ferma, e chiama in causa - ad avvalorarla - il giudizio di un
poeta veramente nuovo: in Pascoli, in definitiva, "non si trova
consapevole quella 'nuova arte del tormento critico' (di critica e
di crisi) di cui argomentò una volta Montale e in cui si riconosce
una vera 'palpitazione del tempo'". Certo intorno alla metà degli anni
Cinquanta del Pascoli si faceva un gran discutere, da Contini a
Schiaffini a Antonielli a Spagnoletti a un precoce Pasolini, ormai
prossimo a scrivere del Pascoli su "Officina" (1, maggio 1955),
nel saggio posto ad apertura della rivista.[iii]
E proprio Pasolini era stato ricordato da Anceschi nel suo primo breve
intervento su Pascoli intitolato Questioni
del Novecento (in "Aut Aut", marzo 1954), in cui si
negava risolutamente a Pascoli la fisionomia di poeta del Novecento o
addirittura di "iniziatore del secolo": così facendo - si
argomentava - si finisce tra l'altro per snaturare la sua poesia,
per decontestualizzarla. Quando piuttosto vanno riconosciuti al
Pascoli "presentimenti non esteriori, anzi assai intimi, del nuovo
stile", insieme però alla percezione di una mancanza: quella di una
consapevolezza - tutta, pur con i suoi errori, propria del nostro
secolo - della "necessità organica del sistema espressivo" di
ogni poeta; e quella "volontà di "nudità" della parola, che è
propria dell''uomo solo', dell''uomo buio'", e che iniziò
davvero solo con i crepuscolari.[iv] Quel giudizio si conserverà a
lungo, e forse non verrà mai del tutto rinnegato: modificato,
piuttosto, in successivi approfondimenti, in nuove analisi, verifiche. Fondamentale quella del 1958
(occasione: il convegno pascoliano del marzo - successivamente
pubblicata nel "Verri", 4, dicembre 1958, poi in Barocco
e Novecento 1960), a partire da un titolo, Pascoli "verso" il Novecento, che non verrà mai proposto
per d'Annunzio. È in questo saggio che Anceschi fa della lettura o rilettura
di Pascoli "dopo i lirici nuovi" un problema, appunto, di lettura,
cioè del trasformarsi della poesia secondo la situazione in cui si
colloca chi la legge. Scrive infatti: a rileggere oggi il
Pascoli, nella nostra situazione,
"accade a noi lettori di sorprenderlo in un gesto inatteso, di
avvertire qualcosa di nuovo e di strano nella figura che ci era
familiare del poeta". E aggiunge: "Lo sentiamo, per così dire, più
vicino; e il testo ci parla con una voce che [...] acquista vibrazioni
e animazioni disformi".[v] Fa certo parte della forza della
poesia di "presentarsi sempre un poco diversa": ma la diversità
consiste qui in una assimilazione di Pascoli ai lirici nuovi
("Riletto dopo i
lirici nuovi s'è fatto, per certi lati, nuovo coi nuovi").[vi] Se non dovessimo procedere spediti,
potremmo incunearci nei gangli vitali di questa rilettura: ma
perlomeno andranno sottolineate certe citazioni ritagliate davvero
tutt'altro che casualmente: un modo di pensare, quello di Pascoli,
che trasporta negli "abissi della verità", una poesia, la sua,
intesa come "visione che comunica visione", una "poesia pura",
anche, da intendersi come maniera sui
generis di conoscenza visionaria e rivelatrice. E si parla
anche di "massima energia poetica nella massima energia
nominale"...[vii] Lo sforzo, pare di intendere, è
quello di mettere in luce non tanto la poesia del Pascoli in sé, ma i
modi in cui essa si misura con le profonde ragioni del secolo,
occupando "quella regione della poesia che non è ancora
la poesia, che è prima
della poesia, ma senza la quale la poesia non si ha".[viii] Dunque, finalmente, un Pascoli
precursore "degli sviluppi e delle ragioni del Novecento perlomeno
per il presentimento della crisi di ciò che fu sacro nel secolo in
cui egli nacque e si formò". La conclusione provvisoria è che
non si nega affatto l'influenza del Pascoli sulla poesia del
Novecento: e si avverte tra le righe il fastidio di doversi difendere
da polemiche che si conoscono tutt'altro che pacate (si accennerà,
in un articolo del '58 dedicato alle Ipotesi
di lavoro sui rapporti tra D'Annunzio e la lirica del Novecento,
pubblicato in "Convivium", a quei critici che, a proposito di
Pascoli, "si sollecitano più o meno cordialmente l'un
l'altro").[ix]
Tra le polemiche va senz'altro segnalata quella con Pasolini, sicuro
destinatario dell'accenno riservato a chi appartiene a correnti
"avaramente sospettose verso le più tipiche innovazioni
novecentesche", e si serve pretestuosamente di un Pascoli incaricato
di portare in sé la lirica del Novecento, ma con intenti solo
riduttivi. Lo stile di Anceschi allora si
turba, si contrae, fino a divenire quasi irriconoscibile: "Una
azione larga del Pascoli c'è, non potrebbe essere altrimenti, non
l'abbiamo certo negata mai, e non si vede ragione e possibilità
alcuna di negarla".[x]
Mai Anceschi parla così dei suoi autori amati. E mai riparlerà così
neppure di Pascoli, riprendendo la sua interrogazione nelle Poetiche del Novecento in Italia (1961): è qui che, dopo una
sanzione senza appello - "La lirica del Novecento non fu [...] né
pascoliana né dannunziana. Cercò vie sue, e diverse" (semmai si
limitò a giovarsi di una situazione della cultura e del1a parola
poetica pascoliana e dannunziana "che consentiva nuove ricerche e
apriva diverse possibilità")[xi]
- si fa spazio alla prima verifica attenta all'affoltirsi degli
oggetti, alla liberazione della parola dal peso dell'utilità, al
recupero del realismo ma in chiave turbata, fin
de siècle. La seguirà una seconda verifica
ancora più meditata nel 1963, Pascoli
e le istituzioni del Novecento (ora nelle Istituzioni della poesia, 1968). È questo per altro
l'ultimo scritto sistematico su Pascoli, in cui si fissa la diversità
tra la "poetica delle cose" pascoliana e l'idea del simbolo
oggettivo, l'"emblema" montaliano. Non possiamo ora inoltrarci
nell'analisi; ma neppure sarà consentito passare sotto silenzio il
fatto che al poeta di San Mauro, pieno
di futuro anche se non ancora in grado di attuare la lirica
del Novecento, viene ascritto a merito, per la prima volta e con
forza, la percezione del rapporto poetica‑poesia, la voglia di
compromettere il lettore in una "complicità emotiva", la forza di
proporre una "'poesia pura', anti-letteraria, non esornativa",
di agire sull'oggetto per renderlo poeticamente attivo,
sottoponendolo a un trattamento nuovo.[xii]
Qualità che vengono negate, nel medesimo contesto, a d'Annunzio. Già, D'Annunzio. È sicuramente
più rapido seguire l'itinerario delle letture che Anceschi gli
dedica, ma non meno coinvolgente e intrigante. Data del 1958 il primo intervento
organico: Ipotesi di lavoro sui
rapporti tra D'Annunzio e la lirica del Novecento (in "Convivium",
poi in Barocco e Novecento).
A quell'altezza non si era ancora riaperto il problema D'Annunzio,
di cui si ricomincerà a discutere sistematicamente solo a partire dai
convegni e dibattiti indetti per il centenario della nascita (1963).
La testimonianza di Anceschi appare subito preziosa per indicare non
solo un personale orientamento di gusto, ma per delineare con tratto
sicuro i caratteri di una situazione critica e di una risposta
generazionale tutt'altro che favorevoli al vate pescarese. Nessuna mediazione, dunque, ma un
mirare direttamente al cuore del problema, muovendo da una
affermazione decisa: "Si sa - si legge quasi ad apertura del
saggio -, la nostra generazione, in ciò che ebbe di meglio e di
proprio, non ha di fatto mai amato D'Annunzio, anche se non ne ignorò
la forza; anzi, nata tra gli ultimi clamori di una grande avventura
retorica, essa tese come a liberarsi dal modello, a trovare misure più
adeguate e dirette con un più affabile e contemporaneo contatto con
l'Europa viva, in un senso delle cose fatto più intimo e intenso,
calcolato e profondo, sciolto da quelle troppo splendenti, e vistose,
e spesso incredibili macchine del dire in un'aria morale più nuda e
raccolta".[xiii] Ben diversa, si è visto, è la
considerazione riservata alla poesia del Pascoli in quello stesso
1958. E il giudizio non si modifica certo nelle pagine successive,
anzi si fa se possibile anche più severo, pure fra qualche
attenuazione tonale: specie ove si parla del rapporto complesso e non
riducibile a unità di D'Annunzio con la lirica del Novecento, un
rapporto che a parere di Anceschi si instaura "non senza una sua
comprensibile, inevitabile ambiguità e una sorta di doppio gioco fin
dal tempo dei crepuscolari: una ammirazione non priva di ironia, un
rifiuto non privo di recuperi".[xiv] La conclusione è drastica: solo di
recuperi personali si potrà parlare, di riprese lessicali o
stilistiche molto circostanziate: ma ciò non scalfisce la convinzione
di fondo che la poesia di D'Annunzio non proponga né istituisca il
sistema nuovo su cui i poeti seguenti potranno lavorare ("Sembra
veramente - si sottolinea, quasi a sancire una sostanziale
differenziazione rispetto a Pascoli - che nessuna particolare e
fondamentale novità istituzionale egli porti verso
la 'lirica del Novecento'"). E le ipotesi di lavoro che vengono di lì a poco indicate, a
conclusione di un primo approccio valutativo, non lasciano certo
aperte molte possibilità di revisione del giudizio. In tre punti
successivi si considera "assolutamente infondato veder D'Annunzio
come uno di quei poeti che danno inizio ad una civiltà di poeti" (a),
e neppure a "un sistema parziale di istituzioni" (b), al punto che si considera il suo sistema "irriducibile
alle intenzioni che uniscono gli svariati sistemi della "lirica del
Novecento" nel loro movimento aperto e variato" (c). Nulla muta, rispetto a quelle
ipotesi, nelle Poetiche del
Novecento. La prima novità si avverte semmai in Poetiche
e istituzioni in un D'Annunzio "sperimentale" (1961,
poi in Le istituzioni della poesia
1968). Qui l'accento si sposta sull'attività inesausta del poeta
sperimentatore di poetiche e forme, di cui si comincia ad avvertire un
controcanto segreto: D'Annunzio - riconosce ora Anceschi - non
si può comprendere con strumenti logici, né si devono cercare in lui
"simboli verificabili".[xv]
Egli istituisce piuttosto uno stato
simbolico della parola (che coincide con l'ulteriorità,
la forzatura in senso visivo, sonoro), una eccitazione
della parola che chiama il lettore alla complicità. E però si
confermano l'immaturità umana, l'esteriorizzazione nella musica
verbale e nell'analogia, di cui D'Annunzio, a differenza di
Pascoli, non avverte "profondamente né la forza espressiva ed
inventiva, né il significato metafisico". Eppure D'Annunzio ha una sua
modernità, che sta intricando sempre più il lettore Anceschi. Di
questa, in fondo, tratta l'intervento preparato per il convegno del
'73 su D'Annunzio e il
simbolismo europeo, in cui il critico si dedica, nello
specifico, ad approfondire il rapporto tra D'Annunzio
e il sistema dell'analogia.[xvi]
Se è vero, infatti, che il limite del poeta gli appare ancora bene
evidente nel tentativo di forzare l'analogia in funzione di "una
nuova purezza e impeccabilità formale", e dunque con fini ancora
estetizzanti, si svelano però con una incidenza nuova alcuni tratti
del suo essere moderno: e cioè una poetica del travestimento che
utilizza innumerevoli maschere, sottopone la tradizione a continue
risemantizzazioni, concepisce la poesia come scrittura di secondo
grado, metapoesia che diviene argomento centrale, invenzione inesausta
e inesauribile. Lungo questa via, si perviene a un
primo riconoscimento importante: proprio D'Annunzio, il poeta della
fuga nell'irrazionale, nell'evasione dal presente, fu invece,
forse, "un inconsapevole segnale della crisi radicale del tempo in
cui visse. Ma non seppe avvertirla, non ne intese la forza
sconvolgente e terribile e nuova, non riconobbe gli uomini che la
annunciavano". Ancora un passo,`e siamo all'Introduzione
ai Versi d'amore e di gloria (1982).[xvii]
Nel ricostruire le fasi di un lavoro così imponente, per quantità e
varietà di risultati, e nel ricomporre la fisionomia di un poeta
quant'altri mai labirintico, inafferrabile, Anceschi si sentiva
sempre più attirato dal momento genetico, aurorale di questa poesia.
Il momento del dubbio di sé, della decisione, da parte del
giovanissimo pescarese, di farsi poeta. Forse Anceschi calca la mano,
attribuendo al grande istrione un'inquietudine esistenziale che ce
ne restituisce un volto enigmatico. Ma la sua lettura affascina,
coinvolge: sembra veramente - scrive - che quest'uomo (l'omino
"erettile" di cui si è discusso in termini spregiativi) "abbia
passato un momento di dubbio profondo di se stesso forse sconvolgente,
certo determinante, proprio agli esordi del tempo ricco, confuso, e
fragile della nascita della poesia" (XV). Di D'Annunzio comincia
ad attirarlo l'inquietudine, la trasformazione continua,
l'autenticità che si coniuga con l'artificio, la "mostruosità
dirompente che deve essere domata continuamente con gesti rituali":
la letteratura di seconda istanza, ancora. Anche se di quell'inafferrabile
personalità gli resta e gli resterà lontano il distacco senza
ironia, qualità ineliminabile e indisgiungibile dalla passione, per
definire un autore non solo moderno, appunto, ma contemporaneo - e
di fatto la modernità di D'Annunzio ha poco da spartire, si precisa
subito dopo, con la sostanza umana e artistica di poeti che sentiamo
"propriamente e strettamente 'novecenteschi'" (XVI‑XVII). Così anche l'idea fissa che
occupò D'Annunzio per tutta la vita, e cioè l'idea della poesia,
che gli consentì di salvarsi "nella letterarietà, con la
letterarietà, per la letterarietà" (XXX) non è mai sfiorata dal
sospetto e dal distacco ironico: e tuttavia, per Anceschi, non nasce
da una adesione irriflessa e spontanea, ma da un trauma, da una
condizione rimossa di originaria penuria e dispersione. Ecco allora il suo
D'Annunzio, quello che lo irretisce e lo respinge: il poeta che ha
vivo il senso di uno sfuggire, di un perdersi della poesia fino al
sospetto di un suo non esserci (XXX), fino a dedicare la vita intera
di poeta ad "addormentare" quel dubbio, e a trasformare la poesia,
per risarcimento di sé, in un atto di "decisione risoluta",
continuamente attenta alle ragioni del proprio fare fino al mito della
parola che salva dall'errore del tempo. Un mito assoluto perseguito
fra turbamenti continui, sospetti, incertezze, nonostante lo
corrodesse la percezione della morte dell'arte, del suo destino
ormai segnato di dissacrazione e riconsacrazione laica. Alla fine, tuttavia, il poeta di
labirinti e labirintico, modernissimo appunto per il "dominio
d'invenzione illusionistica su una straordinaria e labirintica (e
pur dominante) dispersione", resta, nel suo manierismo, "difficile
da avvicinare, e, per quanto è possibile, comprendere" (LIX). Non gli riusciva insomma di
afferrarlo, di trovare il filo di quel labirinto. Ma neppure era
facile staccarsi da lui, dopo quella tesa esperienza di lettura: e al
vate, infatti, sarà concesso l'onore, consentito davvero a
pochissimi altri poeti, di due fascicoli monografici del "Verri"
(5‑6, 7-8, l985). È però un Anceschi perfido e
ironico quello che, identificandosi con un caustico James, ne
riferisce senza commento il pensiero: "Già ai suoi tempi - scrive
- (1904) Henry James in un saggio davvero invidiabile sottolineava
certe sottili perplessità di lettore esperto verso un artista non
raffinato il cui tema costante è la raffinatezza, e parlava di
D'Annunzio con una perfidia di ammiratore argutissimo capace di
scoprire, sotto lo splendore, certi risvolti negativi".[xviii] Anceschi e James... "Che cosa ci
dice oggi D'Annunzio? Come si convive con lui?" - chiede
Anceschi a bruciapelo. Non c'è risposta: noi - conclude -
leggiamo "ancora un poco stupefatti" quel poeta la cui "indubbia
grandezza fa spesso fatica ad accordarsi col nostro desiderio di una
affettuosa convivenza" (al punto che "l'ipotesi di un suo
proporsi come Modello Generale per i Poeti d'Oggi - nonostante
alcune tentazioni post‑moderne - pare davvero cosa oscura, o
controversa, e, in definitiva, improbabile"). Siamo alla conclusione. Pascoli,
D'Annunzio sono certo per Anceschi ciò che il Novecento non è più
e non vorrà più essere. Ma in che senso possiamo ancora parlare
della loro poesia? Che cosa è, che cosa è stata la loro poesia? Per Anceschi, è stata ciò
che ha fatto ma insieme ciò che il lettore del Novecento
di volta in volta sa cercare in lei, con la consapevolezza di una alterità
inconciliabile: la tradizione è da ricreare sempre secondo le
esigenze del presente. In ogni caso l'inchiesta resta
fino all'ultimo aperta, se possiamo ritrovare a sorpresa
D'Annunzio in un appunto su Cézanne interno al volume Che
cos'è la poesia?. Lo si chiama in causa
all'improvviso, coi suoi "procedimenti inconsueti e sorprendenti
di un singolare manierismo", ma anche con la consapevolezza del tema
ricorrente della "morte dell'arte" e del significato di questa
affermazione nella cultura di fine secolo, "significato a cui il
poeta diede con lucidità una particolare curvatura semantica".[xix] Quanto a Pascoli, ancora diversa e
nuova appare ad Anceschi, negli Specchi
della poesia (1989), la sua immagine, e protesa verso il
Novecento in modo ben diverso "dalle considerazioni tradizionali".[xx]
A quell'altezza Anceschi ha letto l'interpretazione del Perugi, ed
è disposto a riconsiderare la consapevolezza dell'arte che lega
Pascoli a Leopardi, Poe, Baudelaire, Valéry, Benn, Pound... I suoi autori... il discorso non si chiude: la lettura, come esperienza e ridiscussione continua, accompagna davvero la vita di chi fa, ha fatto, della curiosità intellettuale lo stile della propria esistenza. [i]
Al problema del leggere è dedicato in particolare il capitolo Il
critico‑lettore; il critico‑scrittore; il
critico‑saggista in L. Anceschi,
Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica,
Torino, Einaudi, 1989, pp. 118‑130. Si rinvia anche al
postumo L'esercizio della
lettura, Parma, Pratiche, 1995. [ii]
Cfr. L. Anceschi,
Autonomia ed eteronomia
dell'arte, (1936), Milano, Garzanti, 1992, p. 219,
ove si parla di Fortuna e sviluppo della tradizione della poesia pura, che in
Italia, coincide con "taluni momenti del D'Annunzio o del
dannunzianesimo, Il Convito,
il Conti, Pascoli e la sua teoria del 'fanciullino'". È
l'unico accenno contenuto nel volume. [iii]
P.P. Pasolini, Pascoli,
pp.1‑8 della ristampa anastatica, Bologna, Pendragon, 1993. [iv]
Il saggio si articola in cinque brevi sezioni (I. Pascoli
e il Novecento; II. Pascoli
e Montale; III. Pascoli
e Onofri; IV. La
formazione del Pascoli; V. I
"Crepuscolari" e il Novecento). Le citazioni sono
tratte da p. 142. [v]
L. Anceschi, Barocco e
Novecento, Milano, Rusconi e Paolazzi Editori, 1960, p.
95. [vi]
Ibid.,
p. 97. [vii]
Anceschi cita soprattutto la prosa del Fanciullino
nelle pp. 106‑107. [viii]
Ibid.,
p. 98. La citazione che segue appartiene a p. 101. [ix]
L'articolo apparve sulla rivista nel dicembre 1958, e fu
poi ristampato in Barocco e
Novecento. Si cita dal volume, p. 132. [x]
L. Anceschi, Pascoli
"verso" il Novecento, in Barocco
e Novecento, cit., p. 109. [xi]
Le poetiche del Novecento in
Italia, (1961), a cura di L. Vetri, Padova, Marsilio,
1990, p. 110. [xii]
Le istituzioni della poesia,
Milano, Bompiani, 1983, pp.142, 149, 151. [xiii]
Barocco e Novecento,
cit., p. 125. [xiv]
Ibid.,
p. 126. Seguono citazioni dalle pp. 131 e 134. [xv]
L. Anceschi, Le istituzioni
della poesia, cit., p. 189. Le citazioni che seguono
sono delle pp.189‑190, 192. [xvi]Cfr. Atti
del Convegno su D'Annunzio e
il simbolismo europeo, Gardone 1973, Milano, Il
Saggiatore, 1976, p. 92. [xvii]
G. D'Annunzio, Versi
d'amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N.
Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982, vol. I. [xviii]
L. Anceschi, Intervento,
in "il Verri", nn. 5‑6, 1985, pp. 5‑6. [xix]
Appunto, a proposito di una
frase di Cézanne, in Che cosa è la poesia?, Bologna, Zanichelli, 1986, p. 153. [xx] Gli specchi della poesia, cit., p. 37. |
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