15/1997
Gillo
Dorfles Il mio compito, nel dare inizio a
questo convegno attorno all'opera di Anceschi, è davvero molto
impegnativo, perché spetta a me di rompere il ghiaccio e di
affrontare per primo un'analisi della sua opera e del suo
pensiero. E, tuttavia, è forse giusto che
sia io il primo a iniziare questa analisi, non
solo certo (e sarebbe davvero molto triste) per ragioni di età o
per la mia antica amicizia con Luciano - ma perché il problema
del Barocco - la "Disputa del Barocco" - è stato uno dei
primissimi argomenti trattati da Anceschi con assoluta autonomia e
originalità; e forse il primo dove da Anceschi è stata presa una
posizione decisamente battagliera rispetto alla situazione
creatasi in Italia in seguito al "magistero estetico" di
Benedetto Croce. Lo spiega lo stesso Anceschi nell'introduzione
che, nel 1984 (dunque quarant'anni dopo il primo suo scritto Del
barocco uscito come introduzione al Rapporto
sull'idea del barocco di E. D'Ors) ebbe a scrivere:[i]
"ecco, uscivo dagli studi giovanili con l'idea fortemente
incisa nella mente che 'il barocco è il brutto nell'arte'
secondo la tesi del neo-idealismo". (E si riferisce, appunto,
alla posizione crociana di allora) mentre "la disputa del
barocco era giunta a momenti di grande acutezza. Ne fui
affascinato. E leggere Bartoli e Gracián fu una vicenda piena di
impulsi". E qui occorre fare subito una
precisazione, soprattutto per coloro che non hanno vissuto come
noi (Anceschi e io stesso) il periodo degli anni trenta-quaranta.
Se, infatti, l'Italia aveva subito i suoi vent'anni di
dittatura fascista, non bisogna dimenticare che ebbe altrettanti e
più anni di una dittatura filosofica decisamente crociana. Sicché,
essere crociani equivaleva anche a essere o a proclamarsi
antifascisti; il che spiega come - durante il ventennio -
schierarsi contro Croce equivaleva in certo senso ad atteggiarsi a
fascisti. E tutto ciò accettando senza batter ciglio i tanti
giudizi del vecchio filosofo che oggi appaiono inattendibili e
addirittura assurdi: il suo disprezzo per Mallarmé, per Montale,
per la musica moderna; la sua stima incondizionata per alcuni
mediocri pittorastri locali; la simpatia per i critici nemici
dell'arte contemporanea; e, tra i tanti "assurdi", la sua
disistima per il barocco. Fatto sta che il disprezzo di Croce per
lo "stile barocco" (nonostante il suo geniale e imponente
saggio Storia dell'età
barocca) diventava quasi un imperativo, non solo per i
suoi discepoli, ma per alcuni storici dell'arte come Brandi o
Ragghianti. Ecco perché prendere posizione a favore dello stile
barocco per un giovane "accademico" o aspirante tale risultava
davvero pericoloso. Il fatto che Croce (e credo meriti
conto di soffermarsi almeno ancora per qualche riga su questo
argomento) scendesse così aspramente in lotta contro il
"decadentismo", contro l'onirico, il patologico,
l'abnorme, facendo piazza pulita di tutte quelle forme
artistiche lontane da "chiarezza", "purezza",
"equilibrio", ecc. spiega benissimo la sua antipatia per lo
spirito barocco, volto spesso in questa direzione, senza aver
compreso quanto di costruttivo, di fantasioso, di altamente
artistico, esistesse nelle produzioni di questa grande epoca
storica: dalla musica di Bach all'architettura di Borromini o di
Balthasar Neumann, dalle pagine di Marino a quelle di Gracián,
dalla filosofia del Canocchiale
aristotelico di Tesauro all'estetica di Hume e di
Gerard, dalla poesia di Gongora e di Marino a quella di Donne. Non
a caso recentemente è stato affermato, da uno dei più fedeli
seguaci di Croce (Mario Sansone): "la personalità di Croce
trova la sua più conforme rappresentazione nella 'sanità'
[...] per questo motivo avversava anche la sensibilità ''romantica'";
mentre "il Decadentismo che egli chiama futurismo e tutte le
poetiche degli stati d'animo ambigui, della fiacchezza, dei
compiacimenti narcisistici, sono tutte anticrociane".[ii] Ma veniamo, allora, alla vera e
propria vicenda degli studi barocchi di Anceschi. Che iniziano,
come ho già anticipato, con la densa e acuta introduzione al
volume di D'Ors Rapporto sull'idea del Barocco del '45, per proseguire
con il volume Del Barocco e
altre prove del '53 (che comprende il saggio sulla Poetica
del Bartoli, la Formazione
del Vico, Classico e
romantico secondo Ingres e Delacroix e un primo
"assaggio" sulla Possibile
poetica "lombarda"). Per proseguire negli anni
'58 con il saggio Bacone tra
Rinascimento e Barocco, Del
Wit: lettura di un passo di Locke, e Comportamento dell'idea nelle poetiche del 600 del '63. Certo, oggi, le teorizzazioni
dorsiane (che allora apparivano colme di umori inediti e
azzardati) possono sembrarci un po' ingenue e poco attendibili,
sia filosoficamente che filologicamente. Il suo concetto di
"eone" barocco - entità perennemente ripresentantesi lungo
la storia dell'umanità - ci appare quanto mai discutibile.
(Anche se D'Ors sembrava aver aperto la strada a una possibile
giustificazione non solo dell'autentico Barocco ma di tutti i
"barocchismi" passati e futuri, - dal barocchus
buddicus, al barocchus
archaicus, dall'alexandrinus
al goticus, al palladianus,
fino all'attuale "neobarocco").[iii] Del resto lo stesso Anceschi -
presentando e commentando il volumetto pubblicato allora da Rosa e
Ballo - ebbe ad affermare: (dopo aver ricordato le opinioni di
Milizia e di Lessing, la riabilitazione dovuta a Wölfflin, la
"Disputa del Barocco" a Pontigny, i rapporti con la
Controriforma, ecc.) "Pur senza condividere del tutto la tesi
del D'Ors, ho pensato che fosse cosa conveniente far conoscere
ai lettori italiani questi assaggi sul Barocco, per una ragione,
direi, di superiore pedagogia
spirituale", e appunto "ancora e soprattutto contro la
posizione così tenacemente difesa da Croce", di cui Anceschi a
bella posta riporta la nota definizione: "Il barocco, come ogni
sorta di brutto artistico,
ha il suo fondamento in un bisogno pratico [...] che si configura
in richiesta e godimento di cosa che diletta contro tutto e,
anzitutto, contro l'arte stessa".[iv] Mi sembra assurdo, a questo punto,
di riandare alle diverse impostazioni che l'idea e
l'interpretazione del Barocco ha avuto durante i tre secoli che
ci separano da quell'epoca e di quelle che si sono avvicendate
nel nostro secolo dopo la fondamentale "riscoperta" del suo
valore da parte di Wölfflin, e in seguito ai lavori, tutti
fondamentali, di Brinckmann, di Calcaterra, di Schmarsow, di
Weisbach, di Weingarten, fino a quelli di Paz, di Morpurgo
Tagliabue, di Giuseppe Conte, e tra gli ultimi di Deleuze... Occorrerebbe, solo per riassumerne
i principali temi, un intero volume - mentre già tanti ne sono
stati scritti e pubblicati. E, del pari, mi sembra pleonastico
riandare alle diverse interpretazioni che sono state fatte circa
il debito dell'età barocca e dei suoi protagonisti (soprattutto
filosofico-letterari) alla Retorica e alla Poetica di Aristotele;
al ruolo della metafora, appunto (secondo l'impostazione
aristotelica della stessa) e alle diverse connotazioni assunte dai
concetti filosofico-poetici che s'identificano, a seconda dei
tempi e degli autori, con l'agudeza,
il concettismo, il gongorismo, il wit. Anceschi - questo mi sembra più
importante per la nostra analisi - ha tenuto ben conto, tanto
degli studi già citati di Wölfflin, di Schmarsow, quanto del
significato che di volta in volta assumono i concetti di agudeza,
di concettismo, di arguzia, di ingegno, di wit. "Resta ancora
- scrive Anceschi[v]
- quando si pronunziano termini come concettismo, marinismo,
gongorismo, culteranismo, preziosismo, poesia metafisica (Donne),
un accento spregiativo". Mentre da parte di molti autori di
quell'epoca accade come per Herrera, che "difende la libertà
della fantasia con accento quasi da uomo del nostro secolo".
Mentre, ad esempio nella teorizzazione di "ingegno" e "agudeza",
la distinzione tra gongorismo e concettismo è sottile ma
profonda. Perché "proprio del gongorismo è l'esaltazione
della metafora". Quella metafora che è appunto la chiave di
volta di tutto il pensiero concettoso e "ingegnoso". E così,
- passando a considerare Gracián - Anceschi sottolinea la
distinzione compiuta da questo autore tra "prudencia" e "ingenio",
dunque tra moralità e esteticità. Finché - giungendo alla
impostazione degli empiristi inglesi, troviamo un Addison che
distingue tra "argutezza vera" (true
wit) e "argutezza falsa" (false
wit). Se, effettivamente, la concettosità
e l'arguzia sembrano dominare buona parte della letteratura del
Cinque-Seicento - da Robortello a Sforza Pallavicino, ecc. -
occorre anche ricordare - e sarebbe troppo lungo soffermarvisi
- come a questa condizione di argutezza e, diciamolo pure, di
ornamentalità della parola poetica e letteraria in genere
corrisponda una analoga ornamentalità architettonica e musicale.
Eppure, proprio qui mi sembra di dover intravvedere una sorta di
riscatto del nostro giudizio positivo verso il barocco contro le
tante accuse di frivolezza mosse ad autori di quell'epoca (come
Marino o Gracián). Ormai quasi nessuno, credo, si
azzarda più a considerare la architettura barocca come esente di
inventiva e di grandiosità rispetto al precedente periodo
manierista. (Si rifletta al confronto tra Soria e Borromini,[vi]
nelle due chiese finitime di S. Maria della Vittoria e di San
Carlino in via XX Settembre a Roma.)
Per cui anche l'apparente eccesso di decorativismo (poi
trionfante nel Rococò) rientra nelle caratteristiche positive di
questo stile. Ebbene, qualcosa di analogo alla
evoluzione stilistica architettonica possiamo sostenere a
proposito della grande poesia dei Donne, dei Gerhardt, degli
Scheffler (Angelus Silesius) e persino di un Montaigne "prebarocco",
come Anceschi ebbe a definirlo. L'incontro e l'osmosi tra
poesia e pensiero filosofico costituisce del resto uno dei momenti
più ricchi di sviluppi dell'estetica sei-settecentesca,
soprattutto anglosassone, e chi ne ha saputo trarre straordinarie
conseguenze è stato certamente Bacone, quando afferma: "La
poesia è una parte della cultura per lo più legata a regole
nella misura delle parole, ma per tutto il resto estremamente
libera, e si riferisce veramente all'immaginazione,
che non essendo legata dalle leggi della materia può ad arbitrio
congiungere ciò che la natura ha disgiunto".[vii] E, infatti, come ha visto bene Anceschi:
"Così Bacone può vedere l'attività artistica come una sorta
di felicity al di là delle regole e dei cànoni; ma non si tratta
della felicità d'un'estasi platonica, è l'arguta e libera
connessione di dati sensibili in una gradevole unità
espressiva".[viii]
La poesia, insomma, come immaginazione e il wit come "a kind of
felicity" sono i primi spunti che trovano poi - in Donne,
Cowley, Herbert, ecc. - ulteriori elaborazioni. "Tanto gli
elisabettiani che i secentisti - afferma ancora Anceschi -
sostituivano una figura logica con una immaginativa, usavano le
antitesi, e cercavano un'eco straordinaria nell'esprimere una
sentenza attraverso l'associazione intuitiva di oggetti distanti
[...] con una capacità di visione metaforica [...] atta a
sviluppare in modo immaginativo i concetti metafisici".[ix] È facile, allora, comprendere come
il grande sviluppo preso dal wit e il valore gnoseologico
attribuito alla metafora e agli altri tropi retorici, fosse non
solo concorde con buona parte della filosofia empirista, ma
rivalutasse in pieno il nesso indivisibile (e stoltamente
incompreso da tanti, ad esempio da Croce) tra fantasia e
concettualità, tra immaginazione e ragione. In definitiva - giacché le
citazioni non bastano certo a proporre in tutta la sua originalità
l'operazione anceschiana - vorrei concludere ricordando almeno
quale importanza, non solo letteraria ma filosofica e in
particolare estetica, si debba attribuire alla rivalutazione
barocca d'un elemento di "artificio", di ricerca del
fantastico, del sarcastico, di tutto ciò in una parola che
permetta all'arte - in qualsivoglia sua manifestazione - di
andare oltre la razionalità; senza peraltro scadere a mero dato
"intuitivo", o a mera nebulosità onirica, ma invece ponendosi
come l'elemento essenziale per giungere a saldare il pensiero
logico e quello mitico, il dato reale e quello immaginario, in una
sintesi che forse l'età barocca, più di ogni altra, è
riuscita a promuovere e ad anticipare. [i]
L. Anceschi, L'idea del
Barocco, Nuova Alfa Ed., Bologna, 1984, p. VII. [ii]
Cfr. G. Burghi, Intervista a Mario
Sansone, in "CroceVia", Edizioni scientifiche
Italiane, giugno 1995, n. 1, p. 7. [iii]
E. D'Ors, Del Barocco,
Rosa e Ballo Ed., Milano, 1945. Le
speci del genere Barocco, p. 88 sgg. "Il Barocco
wölffliniano non è che uno degli infiniti barocchi
possibili". E a p. 92: "In realtà si può estendere
questo nome ad una grande parte dell'Oriente antico".
Nelle pagine che seguono si parla di "Barocchus alexandrinus",
"Barocchus goticus", "Barocchus tridentinus", ecc. [iv]
Op. cit.,
p. 20: "Croce nei suoi vari studi [...] e nella sua
eruditissima Storia
dell'età Barocca in Italia, tentò di riproporre
ancora il Barocco come una 'varietà del brutto'". [v]
L. Anceschi, op. cit.,
p. 118. [vi]
Cfr. il mio Barocco
nell'architettura moderna, Tamburini, Milano,
1952. [vii]
F. Bacone, De Argumentis, II, 1. [viii]
L. Anceschi, op. cit.,
p. 237. [ix] Ibid., p. 141. |
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