11-12/1995 Leonardo Cozzoli Se ci si chiede "che cosa" sia l'Estetica, ancor prima di
azzardare una qualche risposta è davvero indispensabile
interrogarsi innanzitutto sul metodo
secondo il quale si accede ai suoi problemi, ai sui
luoghi "materiali", alla sua storia, dal momento che è
davvero in causa un campo quantomai vasto e variegato di
questioni le più annodate, la cui fisionomia è massimamente
condizionata proprio dal genere di approccio al quale ci si
affida per profilarla. In tal senso, in fatto di Estetica (quantomeno
in fatto di Estetica), la questione del "metodo" è
imprescindibile; talmente imprescindibile da risultare alla
fin fine cruciale non solo rispetto alla "materialità"
dell'Estetica come territorio, come area problematica, ma nei
confronti della stessa questione relativa al "che cosa"
essa dovrebbe mai essere, sulla cui legittimità e urgenza il
problma del "metodo" ha davvero molto da dire e da
insegnare. E in effetti, la ricostruzione dell'evoluzione storica di una
disciplina così complessa e dai confini tanto controversi
come è l'Estetica, appunto, ma ancor di più la sua
chiarificazione su un piano di comprensione teorica più
generale, difficilmente può riconciliarsi con quegli
atteggiamenti definitori che la stessa storia della
storiografia estetica può illustrarci in più occasioni come
affatto funzionali a esigenze extraestetiche, legate a
necessità di sistema, magari a fascinazioni teoriche
paradossalmente motivate da principi "estetici" molto
affini a quelli di "armonia", "simmetria",
"euritmia"... Ecco allora che una autentica comprensione della fisiologia
dell'Estetica che sorga dai dati stessi della sua evoluzione
attraverso i saperi e le culture i più diversi, non può e
non deve fermarsi di fronte alle contraddizioni, alle
differenti distonie, alle "contaminazioni" tra nozioni e
idee - che sono autenticamente tali solamente all'interno di
prospettive teoriche pregiudicate, euristicamente compromesse
- il cui senso va colto invece in modo genuino entro quella
continuità tra questioni e problemi, che sempre sussiste,
anche là dove non appare come qualcosa di semplicemente
progressivo, di piano e lineare. È in causa, insomma, una
promettente complessità, che solo una prospettiva finalistica
riduttiva, incentrata su accezioni aprioristiche
dell'Estetica (o addirittura dell'esteticità) del tutto
funzionali a disegni teorici fatalmente storicizzabili e essi
stessi parziali, può concepire come qualcosa di
intrinsecamente inaccettabile, da respingere, da esorcizzare.
E in tal senso, già la monumentale Storia
dell'estetica di W. Tatarkiewicz ha molto da
insegnare: in essa, l'indagine si muove all'interno di una
accezione generalissima della storia dell'Estetica come
"storia degli uomini che l'hanno formata", ovvero come
storia "degli autori, degli scrittori e degli artisti che
nei secoli" si sono pronunciati "sul bello, sull'arte,
sulla forma e sulla creatività", potenzialmente aperta nei
confronti di tutti quegli apporti che le poetiche, le
riflessioni pragmatiche, gli interventi critici, le attività
pratiche dei singoli autori e lo stesso senso comune di
un'epoca hanno di volta in volta elaborato all'interno di
contesti i più diversi. Un'apertura metodologica di grande rilievo, quest'ultima,
che ritorna senz'altro in una nuova, importante prova di W.
Tatarkiewicz recentemente tradotta da Olimpia Burba e Krystina
Jaworska, la Storia di sei
Idee, che una articolata prefazione della stessa
Jaworska e una postfazione sintetica e incisiva di Luigi Russo
concorrono a illustrare in tutta la sua rilevanza proprio in
rapporto a questioni essenziali connesse alla storia
dell'estetica come "problema". Così come la Storia
dell'estetica insisteva su autori, la Storia di sei Idee è "storia di problmi", di "teorie
estetiche". O meglio ancora, storia di "termini", di
"concetti", di "categorie" da intendersi di fatto come
percorsi "plurali" che non sempre si snodano in sincronia,
in parallelo, in concomitanza. Ebbene, le sei idee in causa
sono quelle di Arte
(capp.I-III), Bello
(capp.IV-VI), Forma
(cap.VII), Creatività
(cap.VIII), Imitazione
(capp.IX-X), Esperienza
estetica (cap. XI). La loro trattazione è però assolutamente articolata,
plurivoca, dagli esiti intimamente complementari. Alla
evoluzione storica del Bello
come "concetto", si accosta infatti la storia del Bello
come "categoria" e del Bello
come "problema". Ancora: la storia della Forma
è composta come "storia di un termine e cinque concetti"
(cui se ne aggiungono, a dire il vero, diversi altri), così
come l'Imitazione,
nuovamente, è concepita da Tatarkiewicz ora come "storia
del rapporto dell'arte con la realtà", ora come "storia
del rapporto dell'arte con la natura e con la verità" .
Tutto questo, secondo un disegno sistematico che comporta,
come osserva efficacemente la Jaworska, "inquadramento dei
fenomeni, collegamento e distinzione dei fenomeni tra di loro,
sintesi storiche non apriori ma empiriche, interesse per la
continuità e la durata non solo per il nuovo e l'originale,
atteggiamento positivo verso gli autori studiati, precisione e
chiarezza terminologica" (p.20). Si tratta di un
"pluralismo storiografico" che vive in connessione diretta
con accezioni dell'Estetica e della sua storia essenzialmente
difformi, naturalmente, e anzi alternative in senso forte,
rispetto all'idea che la prima viva solamente come Estetica
filosofica, e dunque che la seconda risulti affatto
irrilevante ai fini di una sua qualche conoscenza
"essenziale", tanto da ridursi semplicemente a una sorta
di "storia di premesse", destinata peraltro a esaurirsi
all'occasione di una qualche maturazione concettuale
definitiva di ciò che l'Estetica "deve essere". Opinione,
quest'ultima, che ha alimentato una parte non piccola delle
imprese storiografiche e teorico-speculative dedicate alla
questione estetica tra Ottocento e Novecento, entro le quali
occupa un posto ragguardevole, come è noto, la stessa Estetica
di Croce. Certo, la coscienza della necessità di un'apertura
sistematica nei confronti di un materiale storico, quello
dell'Estetica, appunto, che si è sempre giovato di un nesso
osmotico profondo con i prodotti delle arti, con gli indirizzi
del gusto, con le riflessioni della critica, le tesi dei
filosofi, le istanze delle differenti culture non ha mancato
di emergere nell'ambito della tradizione storiografica anche a
noi meno prossima. E. Véron, ad esempio, nella sua L'Esthétique,
edita nell'ultimo quarto dell'Ottocento (1878), riconosceva
con accenti fortemente polemici quante volte l'Estetica fosse
caduta nei lacci dei metafisici approdando a un'inutile
"amalgama di fantasticherie" (amalgame
de fantaisies); e lo stesso Zimmermann, che pure fa
propria una accezione senz'altro filosofica dell'Estetica
riducendo i materiali storici di quest'area problematica a
semplice "preistoria" (Vorgeschichte), non può non rilevare che i suoi concetti
"sono più vecchi dell'Estetica" (älter
sind als die Aesthetik) come scienza, e che
"questa si riferisce sempre nuovamente a quelli" (diese
sich auf dieselben stets wieder bezieht).
Coscienza, quest'ultima, è vero, che nell'indagine di
Zimmermann si rivela alla fine tutt'altro che produttiva, ma
che pure in essa sussiste; tutt'altro che produttiva, se non
altro per via del fatto che nella Geschichte
der Aesthetik als philosophischer Wissenschaft
(1858) si afferma l'opportunità di escludere dall'Estetica
"non soltanto tutte le componenti tecniche, ma anche tutte
le componenti storiche, persino le più sistematiche, come
pure quelle relative alle singole dottrine dell'arte" (nicht
nur alle technischen, sondern auch alle historischen, ja
selbst die mehr systematischen Bestandtheile der Aesthetik,
sowie der einzelnen Kunstlehren sind von der Geschichte
ausgeschlossen). E pure non è disutile tornare a rileggere in tal senso i
presupposti metodologici di un Bosanquet, ad esempio, tra i
quali figura qualcosa di essenziale per l'Estetica là dove
egli afferma che la sua storia deve occuparsi senz'altro di
come avviene "la filiazione delle [sue] idee" (affiliation
of ideas), il loro passaggio da un contesto
all'altro, riproducendolo nel modo più completo possibile,
accanto al "rango individuale e al merito degli autori"(the
individual rank and merit
of the writers) che
si sono occupati di esse. Un compito, quest'ultimo, continua
sempre Bosanquet nel suo A History of Aesthetic (1892), che si può portare avanti soltanto se si sta lontani da
"una mera descrizione della teoria speculativa" (a mere account of speculative theory). Egli infatti muoveva i
passi della propria indagine in forza non soltanto del
presupposto che la storia delle idee estetiche va
necessariamente trattata "in una certa connessione con la
storia della morale o delle belle arti " (in
some connection with the history of morals or of fine art),
ma che la stessa storia delle belle arti sia la storia
dell'effettiva consapevolezza estetica come fenomeno
concreto" (the History of
Fine Art is the history of the actual aesthetic consciousness,
as a concrete phenomenon). E anzi, sempre per
Bosanquet, la teoria estetica dovrebbe addirittura consistere
nell'analisi filosofica di tale consapevolezza, sicché la
"conoscenza della sua storia" (the
knowledge of its history) diviene
in questo senso una condizione essenziale per l'estetologo.
È dunque nuovamente in causa la coscienza della necessità di
sottoporsi, in materia di Estetica, "alla disciplina della
storia" (to the
discipline of history), affatto complementare a
quella che si profila con chiarezza pure in autori come
Gilbert e Kuhn, ad esempio, per cui la questione del bello (o
dell'arte) non è certo cosa che si risolva in "due frasette";
al contrario essa può acquistare "la [sua] pienezza di
senso" (fullness of
significance) solo a partire dalla distillazione di
ciò che prende parte a quel processo entro cui maturano
"tutte le [sue] definizioni" (all
the definings)... Dal canto suo, Tatarkiewicz ha elaborato la propria
impostazione metodologica per gradi: nella sua ricerca, come
ci ricorda ancora la Jaworska, "dalla riflessione sulle
teorie estetiche si è passati all'analisi concettuale e
terminologica per arrivare all'enumerazione storico-empirica"
(p.15). Un processo, questo, che alla acquisizione della
storicità dell'apparato terminologico-concettuale, viene a
sommare non solo l'abbandono definitivo di qualsiasi
prospettiva teorica che voglia essere "omnicomprensiva" ma
pure la consapevolezza, per un verso, della fallibilità
dell'indagine, e per un altro della plurivocità, della
polifonia che marcano dovunque il dato storico-empirico, il
cui rilievo comporta pertanto la ricostruzione di tutte le
immancabili connessioni che lo legano alla concretezza dei
suoi contesti. E del resto, lo snodarsi a volte veloce delle osservazioni di
Tatarkiewicz non vuole certamente sottrarsi all'intrinseca
problematicità di una rassegna di concetti estetici sempre
intrecciata e risonante. Si può avvertire in essa, ad
esempio, la mancanza della dottrina kantiana del bello là
dove si discute, sia pure brevemente, la questione dell'arte
come espressione (pp. 61-2); oppure l'assenza delle idee
estetiche di un Locke là dove è in causa quella tradizione
soggettivista della bellezza che "trovò" in epoca
illuminista "molti sostenitori e propagandisti, in Francia e
ancor più in Inghilterra" (p. 249); ma è ancor vero che la
Storia di sei Idee non è storia di autori ma
storia di termini, concetti, problemi... Una storia
dell'Estetica, come sintetizza opportunamente L. Russo, che
"non è più il luogo, anzi il background,
in cui un'astratta "purezza" noetica traccia i
propri imperscrutabili disegni" (pp.433-4), ma che nemmeno
pretende di mettere tra parentesi il suo autore, aspirando a
una qualche malcelata
superiore e astratta "oggettività". Sicché, in tal
senso, essa è massimamente rilevante non solamente per gli
apporti materiali che organizza in maniera funzionale alla
loro comprensione più piena ed estesa, ma pure in rapporto
alla stessa immagine che è lecito attendersi da una
disciplina sulle cui articolazioni, sulla cui fisionomia ancor
oggi non si è cessato di discutere e di congetturare. Pensiamo, ad esempio, alla recente prova di M. Sherringham,
che nella sua Introduction
à la philosophie esthétique (Paris 1992)[i]
considera l'Estetica in chiave esclusivamente filosofica, e
non si fa scrupolo di ricorrere a referenti di ascendenza
epistemologica per coglierne l'identità (l'idea di
"paradigma"), mutuati in maniera davvero problematica da
La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Th.
Kuhn. Pensiamo ancora ai tentativi a noi contemporanei di
riprendere e esaltare un'accezione dell'Estetica puramente
filosofica, completamente affrancata dalle "bassure" in
cui vivono, ad esempio, le questioni "empiriche"
dell'arte; una sorta di presupposto da comprendere all'interno
di un piano astratto e ideale secondo cui dovrebbe evolversi
la realtà del processo esperienziale, conoscitivo in genere.
Si tratta di preformazioni in senso forte che certamente si
pongono sullo stesso piano di quelle tradizionali prese di
posizione sulla natura del campo dell'Estetica, tutte condotte
sulla scorta di un semplice gesto teorico sempre monolaterale
e parziale, entro il quale l'evoluzione storica e tematica
dell'Estetica stessa perdono gran parte - se non la totatiltà
- della loro rilevanza e del loro significato. Ecco allora che le tracce e gli esempi di quest'atteggiamento
preformante e astratto non cessano mai di risultare
istruttivi, di insegnare qualcosa di essenziale. Si pensi, ad
esempio, a The History of Taste (1932) di F. P. Chambers, in cui si afferma che "ogni gusto
potrebbe essere interpretato in rapporto a ciò che noi
abbiamo imparato a chiamare "classicismo" e
"romanticismo", (all
taste could be interpreted in its relation to what we have
learned to call "classicism" and "romanticism")
sicché la storia del gusto già trova sin dall'inizio la
propria armatura categoriale; analogamente a quanto accade,
poniamo, alla storia dell'arte nel famoso dise-gno bipolare
composto dal Worringer in Abstraktion und Einfühlung (1907), la cui fisionomia risulta talmente costretta in uno schema
teorico aprioristico e assolutizzato da divenire di fatto
"antistorica" e conoscitivamente inefficace. E ancora non è disutile ritornare, allora, in materia di
indebite astrazioni e assolutizzazioni, allo stesso Baeumler,
nella cui Ästhetik
(1934) il capitolo primo è inaugurato dalla affermazione
davvero recisa del fatto che "la riflessione estetica non si
è accesa alla comparsa dell'arte, bensì alla comparsa del
bello" (die aesthetische
Reflexion hat sich nicht an der Erscheinung der Kunst, sondern
an der Erscheinung des Schönen entzündet). Ma
ancor più istruttivo, in tal senso, è forse la condivisione
da parte di Baeumler delle tesi di M. Dessoir (riprese con
tanta evidenza nell'Ästhetik
und Allgemeine Kunstwissenschaft), per cui sarebbe
del tutto naturale, dal punto di vista metodologico che
"qualcuno potesse redigere un sistema completo dell'Estetica
senza sapere nulla della vita di una poesia, di una musica, di
una pittura" (jemand könnte
ein vollständiges System aufstellen, ohne von dem Dasein
einer Dichtkunst, einer Musik, einer Malerei zu wissen). Ora, è chiaro quanto grande sia lo iato che separa posizioni
di questo genere dalla presa di coscienza, da parte dello
storico dei problemi estetici, della necessità di partire
dalla concretezza dei rilievi sulla realtà delle tecniche,
sulle tesi poetiche le più diverse, sulle stesse indicazioni
teoriche racchiuse nell'ambito della dimensione pragmatica del
fare artistico. Indicazioni, queste, che sono maturate
adeguatamente nel campo loro congeniale dell'Estetica di
tipo fe-nomenologico, di cui ci hanno dato rilevanti
testimonianze in Italia prima le ricerche di Antonio Banfi e
quindi quelle di Luciano Anceschi. Davvero nulla di più lontano, poniamo, dalle convinzioni di
autori come M. C. Beardsley, per cui ci sono molte questioni,
le quali, più che all'estetica, dovrebbero appartenere
"probabilmente alla storia della critica letteraria o della
critica musicale o a qualche altra area " (probably
belong to the history of literary criticism or music criticism
or some other area). È solamente in un genere di
prospettiva critica intrinsecamente antidogmatica, del resto,
che acquista un senso la tesi metodologicamente molto ricca e
promettente per cui persino nel concreto di un'opera d'arte si
dà sempre una valenza estetica; tesi, questa, che
Tatarkiewicz fa propria in modo efficace, ad esempio, nella
sua Storia dell'estetica,
là dove egli osserva che essa "non contiene solamente le
enun-ciazioni esplicite degli studiosi della materia, ma anche
quelle implicite del gusto corrente e delle stesse opere
d'arte" (vol. I, p. 10). È a tesi di questo genere, del resto, che si deve una
proficua estensione materiale dell'orizzonte entro il quale
ricostruire una immagine fondata davvero "nelle cose"
dell'Estetica e della sua storia. Una immagine, la cui
composizione comporta senz'altro, nel contempo, quel legittimo
sospetto, quella diffidenza sostanziata e motivata da non
pochi capitoli, anche a noi contemporanei, della "storia
della storiografia estetica", nei confronti dell'assolutezza
di presup-posti improntati a delle esigenze di ordine
puramente teorico, condivisa del resto in alcune prove
esemplari da autori come Kristeller; prove, queste, che si
sono significativamente sviluppate a lato delle " teorie
metafisiche sul bello o di teorie particolari concernenti una
o più arti, al di fuori della loro realtà storica" (Il sistema moderno delle arti, tr. it. di D. Drudi, Firenze
1977, p. 2). Dal canto suo, Tatarkiewicz produce nella Storia
di sei Idee una risposta degna del massimo
interesse alla stessa questione della rilevanza dell'indagine
storico-empirica per l'Estetica, proprio là dove ci propone
una immagine generale della sua storia come tessuto di
"termini" e di " significati"; tessuto di significati
e termini che va ricostruito sulla scorta di una
"sedimentazione storica" sempre espressa sul piano di una
terminologia a un tempo non univoca e contestualmente
rigorosa, integralmente affrancata da un qualsiasi disegno
finalistico orientato verso qualche concetto "risolutivo"
e "risolutore". E tutto questo altro non è che una
conseguenza del fatto che nelle concrete evoluzioni
dell'Estetica, "quando i concetti parevano finalmente
stabiliti, cambiavano i loro nomi; non appena erano state
fissate le denominazioni, mutavano i concetti" (p. 383); e
un campo così "vario e complesso", frammisto di
"oggetti diversi" da sistemare e ordinare, da ricondurre a
motivi costanti ma nel rispetto della "loro molteplicità",
se dev'essere autenticamente compreso, non può non giovarsi
di un metodo che faccia proprio della flessibilità la sua
regola; che sappia comprendere tra le sue istanze fondamentali
quella proficua consapevolezza della propria fallibilità per
cui è sempre consentito, in via di principio, alle cose
stesse di aprirsi a nuove interrogazioni, nella prospettiva
genuinamente euristica di "far nascere tentativi migliori,
più completi, più sistematici di comparazione dei concetti,
delle idee, delle teorie" (p. 393). |
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