11-12/1995
Studi di Estetica
III serie
anno XXIII, fasc. I/II

Leonardo Cozzoli
Tatarkiewicz e la storia delle idee estetiche* 

 

 Se ci si chiede "che cosa" sia l'Estetica, ancor prima di azzardare una qualche risposta è davvero indispensabile interrogarsi innanzitutto sul metodo secondo il quale si accede ai suoi problemi, ai sui luoghi "materiali", alla sua storia, dal momento che è davvero in causa un campo quantomai vasto e variegato di questioni le più annodate, la cui fisionomia è massimamente condizionata proprio dal genere di approccio al quale ci si affida per profilarla. In tal senso, in fatto di Estetica (quantomeno in fatto di Estetica), la questione del "metodo" è imprescindibile; talmente imprescindibile da risultare alla fin fine cruciale non solo rispetto alla "materialità" dell'Estetica come territorio, come area problematica, ma nei confronti della stessa questione relativa al "che cosa" essa dovrebbe mai essere, sulla cui legittimità e urgenza il problma del "metodo" ha davvero molto da dire e da insegnare.

E in effetti, la ricostruzione dell'evoluzione storica di una disciplina così complessa e dai confini tanto controversi come è l'Estetica, appunto, ma ancor di più la sua chiarificazione su un piano di comprensione teorica più generale, difficilmente può riconciliarsi con quegli atteggiamenti definitori che la stessa storia della storiografia estetica può illustrarci in più occasioni come affatto funzionali a esigenze extraestetiche, legate a necessità di sistema, magari a fascinazioni teoriche paradossalmente motivate da principi "estetici" molto affini a quelli di "armonia", "simmetria", "euritmia"...

Ecco allora che una autentica comprensione della fisiologia dell'Estetica che sorga dai dati stessi della sua evoluzione attraverso i saperi e le culture i più diversi, non può e non deve fermarsi di fronte alle contraddizioni, alle differenti distonie, alle "contaminazioni" tra nozioni e idee - che sono autenticamente tali solamente all'interno di prospettive teoriche pregiudicate, euristicamente compromesse - il cui senso va colto invece in modo genuino entro quella continuità tra questioni e problemi, che sempre sussiste, anche là dove non appare come qualcosa di semplicemente progressivo, di piano e lineare. È in causa, insomma, una promettente complessità, che solo una prospettiva finalistica riduttiva, incentrata su accezioni aprioristiche dell'Estetica (o addirittura dell'esteticità) del tutto funzionali a disegni teorici fatalmente storicizzabili e essi stessi parziali, può concepire come qualcosa di intrinsecamente inaccettabile, da respingere, da esorcizzare. E in tal senso, già la monumentale Storia dell'estetica di W. Tatarkiewicz ha molto da insegnare: in essa, l'indagine si muove all'interno di una accezione generalissima della storia dell'Estetica come "storia degli uomini che l'hanno formata", ovvero come storia "degli autori, degli scrittori e degli artisti che nei secoli" si sono pronunciati "sul bello, sull'arte, sulla forma e sulla creatività", potenzialmente aperta nei confronti di tutti quegli apporti che le poetiche, le riflessioni pragmatiche, gli interventi critici, le attività pratiche dei singoli autori e lo stesso senso comune di un'epoca hanno di volta in volta elaborato all'interno di contesti i più diversi.

Un'apertura metodologica di grande rilievo, quest'ultima, che ritorna senz'altro in una nuova, importante prova di W. Tatarkiewicz recentemente tradotta da Olimpia Burba e Krystina Jaworska, la Storia di sei Idee, che una articolata prefazione della stessa Jaworska e una postfazione sintetica e incisiva di Luigi Russo concorrono a illustrare in tutta la sua rilevanza proprio in rapporto a questioni essenziali connesse alla storia dell'estetica come "problema". Così come la Storia dell'estetica insisteva su autori, la Storia di sei Idee è "storia di problmi", di "teorie estetiche". O meglio ancora, storia di "termini", di "concetti", di "categorie" da intendersi di fatto come percorsi "plurali" che non sempre si snodano in sincronia, in parallelo, in concomitanza. Ebbene, le sei idee in causa sono quelle di Arte (capp.I-III), Bello (capp.IV-VI), Forma (cap.VII), Creatività (cap.VIII), Imitazione (capp.IX-X), Esperienza estetica (cap. XI).

La loro trattazione è però assolutamente articolata, plurivoca, dagli esiti intimamente complementari. Alla evoluzione storica del Bello come "concetto", si accosta infatti la storia del Bello come "categoria" e del Bello come "problema". Ancora: la storia della Forma è composta come "storia di un termine e cinque concetti" (cui se ne aggiungono, a dire il vero, diversi altri), così come l'Imitazione, nuovamente, è concepita da Tatarkiewicz ora come "storia del rapporto dell'arte con la realtà", ora come "storia del rapporto dell'arte con la natura e con la verità" . Tutto questo, secondo un disegno sistematico che comporta, come osserva efficacemente la Jaworska, "inquadramento dei fenomeni, collegamento e distinzione dei fenomeni tra di loro, sintesi storiche non apriori ma empiriche, interesse per la continuità e la durata non solo per il nuovo e l'originale, atteggiamento positivo verso gli autori studiati, precisione e chiarezza terminologica" (p.20). Si tratta di un "pluralismo storiografico" che vive in connessione diretta con accezioni dell'Estetica e della sua storia essenzialmente difformi, naturalmente, e anzi alternative in senso forte, rispetto all'idea che la prima viva solamente come Estetica filosofica, e dunque che la seconda risulti affatto irrilevante ai fini di una sua qualche conoscenza "essenziale", tanto da ridursi semplicemente a una sorta di "storia di premesse", destinata peraltro a esaurirsi all'occasione di una qualche maturazione concettuale definitiva di ciò che l'Estetica "deve essere". Opinione, quest'ultima, che ha alimentato una parte non piccola delle imprese storiografiche e teorico-speculative dedicate alla questione estetica tra Ottocento e Novecento, entro le quali occupa un posto ragguardevole, come è noto, la stessa Estetica di Croce.

Certo, la coscienza della necessità di un'apertura sistematica nei confronti di un materiale storico, quello dell'Estetica, appunto, che si è sempre giovato di un nesso osmotico profondo con i prodotti delle arti, con gli indirizzi del gusto, con le riflessioni della critica, le tesi dei filosofi, le istanze delle differenti culture non ha mancato di emergere nell'ambito della tradizione storiografica anche a noi meno prossima. E. Véron, ad esempio, nella sua L'Esthétique, edita nell'ultimo quarto dell'Ottocento (1878), riconosceva con accenti fortemente polemici quante volte l'Estetica fosse caduta nei lacci dei metafisici approdando a un'inutile "amalgama di fantasticherie" (amalgame de fantaisies); e lo stesso Zimmermann, che pure fa propria una accezione senz'altro filosofica dell'Estetica riducendo i materiali storici di quest'area problematica a semplice "preistoria" (Vorgeschichte), non può non rilevare che i suoi concetti "sono più vecchi dell'Estetica" (älter sind als die Aesthetik) come scienza, e che "questa si riferisce sempre nuovamente a quelli" (diese sich auf dieselben stets wieder bezieht). Coscienza, quest'ultima, è vero, che nell'indagine di Zimmermann si rivela alla fine tutt'altro che produttiva, ma che pure in essa sussiste; tutt'altro che produttiva, se non altro per via del fatto che nella Geschichte der Aesthetik als philosophischer Wissenschaft (1858) si afferma l'opportunità di escludere dall'Estetica "non soltanto tutte le componenti tecniche, ma anche tutte le componenti storiche, persino le più sistematiche, come pure quelle relative alle singole dottrine dell'arte" (nicht nur alle technischen, sondern auch alle historischen, ja selbst die mehr systematischen Bestandtheile der Aesthetik, sowie der einzelnen Kunstlehren sind von der Geschichte ausgeschlossen).

E pure non è disutile tornare a rileggere in tal senso i presupposti metodologici di un Bosanquet, ad esempio, tra i quali figura qualcosa di essenziale per l'Estetica là dove egli afferma che la sua storia deve occuparsi senz'altro di come avviene "la filiazione delle [sue] idee" (affiliation of ideas), il loro passaggio da un contesto all'altro, riproducendolo nel modo più completo possibile, accanto al "rango individuale e al merito degli autori"(the individual rank and merit of the writers) che si sono occupati di esse. Un compito, quest'ultimo, continua sempre Bosanquet nel suo A History of Aesthetic (1892), che si può portare avanti soltanto se si sta lontani da "una mera descrizione della teoria speculativa" (a mere account of speculative theory). Egli infatti muoveva i passi della propria indagine in forza non soltanto del presupposto che la storia delle idee estetiche va necessariamente trattata "in una certa connessione con la storia della morale o delle belle arti " (in some connection with the history of morals or of fine art), ma che la stessa storia delle belle arti sia la storia dell'effettiva consapevolezza estetica come fenomeno concreto" (the History of Fine Art is the history of the actual aesthetic consciousness, as a concrete phenomenon). E anzi, sempre per Bosanquet, la teoria estetica dovrebbe addirittura consistere nell'analisi filosofica di tale consapevolezza, sicché la "conoscenza della sua storia" (the knowledge of its history) diviene in questo senso una condizione essenziale per l'estetologo. È dunque nuovamente in causa la coscienza della necessità di sottoporsi, in materia di Estetica, "alla disciplina della storia" (to the discipline of history), affatto complementare a quella che si profila con chiarezza pure in autori come Gilbert e Kuhn, ad esempio, per cui la questione del bello (o dell'arte) non è certo cosa che si risolva in "due frasette"; al contrario essa può acquistare "la [sua] pienezza di senso" (fullness of significance) solo a partire dalla distillazione di ciò che prende parte a quel processo entro cui maturano "tutte le [sue] definizioni" (all the definings)...

Dal canto suo, Tatarkiewicz ha elaborato la propria impostazione metodologica per gradi: nella sua ricerca, come ci ricorda ancora la Jaworska, "dalla riflessione sulle teorie estetiche si è passati all'analisi concettuale e terminologica per arrivare all'enumerazione storico-empirica" (p.15). Un processo, questo, che alla acquisizione della storicità dell'apparato terminologico-concettuale, viene a sommare non solo l'abbandono definitivo di qualsiasi prospettiva teorica che voglia essere "omnicomprensiva" ma pure la consapevolezza, per un verso, della fallibilità dell'indagine, e per un altro della plurivocità, della polifonia che marcano dovunque il dato storico-empirico, il cui rilievo comporta pertanto la ricostruzione di tutte le immancabili connessioni che lo legano alla concretezza dei suoi contesti.

E del resto, lo snodarsi a volte veloce delle osservazioni di Tatarkiewicz non vuole certamente sottrarsi all'intrinseca problematicità di una rassegna di concetti estetici sempre intrecciata e risonante. Si può avvertire in essa, ad esempio, la mancanza della dottrina kantiana del bello là dove si discute, sia pure brevemente, la questione dell'arte come espressione (pp. 61-2); oppure l'assenza delle idee estetiche di un Locke là dove è in causa quella tradizione soggettivista della bellezza che "trovò" in epoca illuminista "molti sostenitori e propagandisti, in Francia e ancor più in Inghilterra" (p. 249); ma è ancor vero che la Storia di sei Idee non è storia di autori ma storia di termini, concetti, problemi... Una storia dell'Estetica, come sintetizza opportunamente L. Russo, che "non è più il luogo, anzi il background, in cui un'astratta "purezza" noetica traccia i propri imperscrutabili disegni" (pp.433-4), ma che nemmeno pretende di mettere tra parentesi il suo autore, aspirando a una qualche  malcelata superiore e astratta "oggettività". Sicché, in tal senso, essa è massimamente rilevante non solamente per gli apporti materiali che organizza in maniera funzionale alla loro comprensione più piena ed estesa, ma pure in rapporto alla stessa immagine che è lecito attendersi da una disciplina sulle cui articolazioni, sulla cui fisionomia ancor oggi non si è cessato di discutere e di congetturare.

Pensiamo, ad esempio, alla recente prova di M. Sherringham, che nella sua Introduction à la philosophie esthétique (Paris 1992)[i] considera l'Estetica in chiave esclusivamente filosofica, e non si fa scrupolo di ricorrere a referenti di ascendenza epistemologica per coglierne l'identità (l'idea di "paradigma"), mutuati in maniera davvero problematica da La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Th. Kuhn. Pensiamo ancora ai tentativi a noi contemporanei di riprendere e esaltare un'accezione dell'Estetica puramente filosofica, completamente affrancata dalle "bassure" in cui vivono, ad esempio, le questioni "empiriche" dell'arte; una sorta di presupposto da comprendere all'interno di un piano astratto e ideale secondo cui dovrebbe evolversi la realtà del processo esperienziale, conoscitivo in genere. Si tratta di preformazioni in senso forte che certamente si pongono sullo stesso piano di quelle tradizionali prese di posizione sulla natura del campo dell'Estetica, tutte condotte sulla scorta di un semplice gesto teorico sempre monolaterale e parziale, entro il quale l'evoluzione storica e tematica dell'Estetica stessa perdono gran parte - se non la totatiltà - della loro rilevanza e del loro significato.

Ecco allora che le tracce e gli esempi di quest'atteggiamento preformante e astratto non cessano mai di risultare istruttivi, di insegnare qualcosa di essenziale. Si pensi, ad esempio, a The History of Taste  (1932) di F. P. Chambers, in cui si afferma che "ogni gusto potrebbe essere interpretato in rapporto a ciò che noi abbiamo imparato a chiamare "classicismo" e "romanticismo", (all taste could be interpreted in its relation to what we have learned to call "classicism" and "romanticism") sicché la storia del gusto già trova sin dall'inizio la propria armatura categoriale; analogamente a quanto accade, poniamo, alla storia dell'arte nel famoso dise-gno bipolare composto dal Worringer in Abstraktion und Einfühlung (1907), la cui fisionomia risulta talmente costretta in uno schema teorico aprioristico e assolutizzato da divenire di fatto "antistorica" e conoscitivamente inefficace.

E ancora non è disutile ritornare, allora, in materia di indebite astrazioni e assolutizzazioni, allo stesso Baeumler, nella cui Ästhetik (1934) il capitolo primo è inaugurato dalla affermazione davvero recisa del fatto che "la riflessione estetica non si è accesa alla comparsa dell'arte, bensì alla comparsa del bello" (die aesthetische Reflexion hat sich nicht an der Erscheinung der Kunst, sondern an der Erscheinung des Schönen entzündet). Ma ancor più istruttivo, in tal senso, è forse la condivisione da parte di Baeumler delle tesi di M. Dessoir (riprese con tanta evidenza nell'Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft), per cui sarebbe del tutto naturale, dal punto di vista metodologico che "qualcuno potesse redigere un sistema completo dell'Estetica senza sapere nulla della vita di una poesia, di una musica, di una pittura" (jemand könnte ein vollständiges System aufstellen, ohne von dem Dasein einer Dichtkunst, einer Musik, einer Malerei zu wissen).

Ora, è chiaro quanto grande sia lo iato che separa posizioni di questo genere dalla presa di coscienza, da parte dello storico dei problemi estetici, della necessità di partire dalla concretezza dei rilievi sulla realtà delle tecniche, sulle tesi poetiche le più diverse, sulle stesse indicazioni teoriche racchiuse nell'ambito della dimensione pragmatica del fare artistico. Indicazioni, queste, che sono maturate adeguatamente nel campo loro congeniale dell'Estetica di tipo fe-nomenologico, di cui ci hanno dato rilevanti testimonianze in Italia prima le ricerche di Antonio Banfi e quindi quelle di Luciano Anceschi.

Davvero nulla di più lontano, poniamo, dalle convinzioni di autori come M. C. Beardsley, per cui ci sono molte questioni, le quali, più che all'estetica, dovrebbero appartenere "probabilmente alla storia della critica letteraria o della critica musicale o a qualche altra area " (probably belong to the history of literary criticism or music criticism or some other area). È solamente in un genere di prospettiva critica intrinsecamente antidogmatica, del resto, che acquista un senso la tesi metodologicamente molto ricca e promettente per cui persino nel concreto di un'opera d'arte si dà sempre una valenza estetica; tesi, questa, che Tatarkiewicz fa propria in modo efficace, ad esempio, nella sua Storia dell'estetica, là dove egli osserva che essa "non contiene solamente le enun-ciazioni esplicite degli studiosi della materia, ma anche quelle implicite del gusto corrente e delle stesse opere d'arte" (vol. I, p. 10).

È a tesi di questo genere, del resto, che si deve una proficua estensione materiale dell'orizzonte entro il quale ricostruire una immagine fondata davvero "nelle cose" dell'Estetica e della sua storia. Una immagine, la cui composizione comporta senz'altro, nel contempo, quel legittimo sospetto, quella diffidenza sostanziata e motivata da non pochi capitoli, anche a noi contemporanei, della "storia della storiografia estetica", nei confronti dell'assolutezza di presup-posti improntati a delle esigenze di ordine puramente teorico, condivisa del resto in alcune prove esemplari da autori come Kristeller; prove, queste, che si sono significativamente sviluppate a lato delle " teorie metafisiche sul bello o di teorie particolari concernenti una o più arti, al di fuori della loro realtà storica" (Il sistema moderno delle arti, tr. it. di D. Drudi, Firenze 1977, p. 2).

Dal canto suo, Tatarkiewicz produce nella Storia di sei Idee una risposta degna del massimo interesse alla stessa questione della rilevanza dell'indagine storico-empirica per l'Estetica, proprio là dove ci propone una immagine generale della sua storia come tessuto di "termini" e di " significati"; tessuto di significati e termini che va ricostruito sulla scorta di una "sedimentazione storica" sempre espressa sul piano di una terminologia a un tempo non univoca e contestualmente rigorosa, integralmente affrancata da un qualsiasi disegno finalistico orientato verso qualche concetto "risolutivo" e "risolutore". E tutto questo altro non è che una conseguenza del fatto che nelle concrete evoluzioni dell'Estetica, "quando i concetti parevano finalmente stabiliti, cambiavano i loro nomi; non appena erano state fissate le denominazioni, mutavano i concetti" (p. 383); e un campo così "vario e complesso", frammisto di "oggetti diversi" da sistemare e ordinare, da ricondurre a motivi costanti ma nel rispetto della "loro molteplicità", se dev'essere autenticamente compreso, non può non giovarsi di un metodo che faccia proprio della flessibilità la sua regola; che sappia comprendere tra le sue istanze fondamentali quella proficua consapevolezza della propria fallibilità per cui è sempre consentito, in via di principio, alle cose stesse di aprirsi a nuove interrogazioni, nella prospettiva genuinamente euristica di "far nascere tentativi migliori, più completi, più sistematici di comparazione dei concetti, delle idee, delle teorie" (p. 393).



* A proposito del volume di Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia di sei Idee, Palermo, Aesthetica edizioni, 1993.

[i] Questo libro di Sherringham è stato opportunamente recensito da Paolo D'Angelo su "Studi di estetica", n. 6 (1992), pp. 119-24.

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