31/2005
Studi di Estetica
III serie
anno XXXIII, fasc. I

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"Former des nuages", II
(intervento sul pensiero interrogante)

di Fernando Bollino


Il titolo, former des nuages (già utilizzato nella presentazione del fascicolo 22 della nostra rivista), riprende una dichiarazione altamente suggestiva di Denis Diderot: "Pour moi, qui m'occupe plutôt à former des nuages qu'à le dissiper et à suspendre les jugements qu'à juger...". Il sottotitolo aggiunto per l'occasione, intervento sul pensiero interrogante mutua un'espressione dal saggio di Mortier dedicato appunto a Diderot e qui pubblicato (ma non sfuggirà agli antichi lettori del "Verri" il sapore anceschiano del termine "intervento"). Il gioco delle repliche intitolative, delle citazioni dirette e indirette, e delle nuove ridondanze paratestuali sta a simboleggiare, qui, nelle intenzioni di chi scrive, una continuità e contiguità con certe figure della riflessione che concorrono, fra le altre, a determinare l'ispirazione aperta e antidogmatica, in senso fenomenologico-critico, della nostra rivista (ispirazione che, certo, ha radici molteplici, profonde e complesse). In questa prospettiva il presente numero di "Studi di estetica", se pure non monografico in senso stretto, tuttavia si mostra promettente di sorprese e di un'interna e fitta rete di relazioni dove anche il pensiero del passato e sul passato, quale risulta dall'indagine storiografica anche più avvertita e specialistica, trova vitali proiezioni nella modernità e nelle emergenze problematiche, se non drammatiche, del nuovo. Dunque, il pensiero interrogante si consegna a noi non tanto come un "oggetto" d'indagine "classificato", per quanto mobile e plurivoco, ma soprattutto, e in modo coinvolgente, come modello metodico e, latamente, come discrimine "politico".

Esemplare, in tal senso, il saggio sul rapporto fra sublime e kairós di Baldine Saint Girons - autrice fra l'altro di Fiat lux (1993), ampio e celebrato trattato la cui Introduzione "Studi di estetica" pubblicò in parte già sul n. 14 del 1996 (ora il volume è disponibile nella bella versione italiana pubblicata da Aesthetica Edizioni nel 2003). La Saint Girons affronta il tema analizzando partitamente, con rigore storiografico e filologico, il significato originario delle nozioni di kairós e di sublime e del loro mobile nesso per poi seguirne le modificazioni a partire dalla svolta impressa prima dalla riscoperta del trattatello longiniano operata da Boileau e poi, soprattutto, dalle concezioni di Vico, Burke e Kant nel Settecento (non senza qualche cenno ulteriore a certi sviluppi interpretativi contemporanei: Deleuze, Kaufmann...). Ora, il kairós, eroico o estetico, e che in origine possedeva sia un valore temporale (momento propizio) che spaziale (bersaglio, intersitizio), si fa strumento (anche) della coppia sorpresa / smarrimento e, coniugato col sublime longiniano (in realtà una costellazione complessa di termini e significati più o meno equivalenti), produce una condizione (o un effetto) di "rottura" squilibrante. Di fatto, per 'Longino', almeno in poesia, il nesso sublime-kairós determina lo "stupore" o la "scossa", e introduce "l'assunzione del tragico tramite il discorso". Dunque, la rottura si verifica nel momento in cui 'Longino' mette in scena un pensiero che pur eccedendo la pura dimensione retorica non per questo accetta d'incanalarsi nell'alveo della filosofia e della logica tradizionali. Anzi lo strappo interviene proprio a livello ontologico, quando 'Longino' stesso "contrappone il dire del sublime al dire dell'essere" in nome della cultura dell'ingenium. Altre rotture emergeranno in seguito, puntualmente interrogate dalla Saint Girons, e che qui enfatizzo per dovere di sintesi: Vico (il sublime eroico) Burke, e Kant, naturalemente (il sublime estetico). Con Burke è la nozione di "reale" a mutare di segno, non più il domabile in quanto accessibile, ma l'impossibile che ci afferra. Con Kant, poi, il sublime disarticola le sintesi a priori dell'immaginazione trascendentale e dell'intelletto, e insomma "ha a che fare con lo smarrimento del soggetto, corollario nondimeno di una sorpresa". La scienza moderna tende a svuotare il soggetto, mentre l'arte del sublime e del kairós "sorge solo quando, al limite del mostruoso, dell'innominabile e del non-senso, trova un soggetto che si lascia sorprendere e smarrire".

Agli esiti settecenteschi della problematica estetica e retorica introdotta dalla Saint Girons ben si raccorda su altro versante il saggio magistrale di Roland Mortier su Diderot, un saggio, si badi, del 1961, ma che nulla paga alla distanza del tempo. Professore emerito dell'Université libre de Bruxelles, Roland Mortier è uno dei più eminenti dix-huitièmistes viventi, autore di un'impressionante serie di libri e pubblicazioni molte delle quali dedicate al philosophe. Il "pensiero interrogante" diderotiano, profondamente "laico", si definisce nel rifiuto speculare del dogma e dello scetticismo pirronista, e nell'aspirazione a formulare domande più che a pretendere risposte definitive: "Si deve esigere da me - scrive l'enciclopedista - che io cerchi la verità, non che la trovi". Di qui una riflessione non sistematica, e che si costruisce tutta, per così dire, in nostra presenza, sulla stessa pagina in cui materialemente si inscrive e in cui si va elaborando secondo una successione libera di nessi metonimici: la verità non viene cercata secondo processi logici identitari ma nella mobilità di una ricerca che procede per tentativi successivi e rifiuta le rivelazioni subitanee e le illuminazioni metafisiche. Alla coazione ripetitiva dello scoiattolo prigioniero della sua ruota Diderot, l'uomo dalle "cento fisionomie", contrappone le libere variazioni del canto dell'usignolo (e si noti in proposito, la suggestione di un esempio che sembra trovare echi in Kant e Hegel). A questa sorta di divagante "libertinaggio della mente" non può che corrispondere sul piano della scrittura una modalità espressiva peculiare che Mortier segue brillantemente nelle tre tappe successive dei "pensieri staccati" (vedi le Pensées philosophiques) della "lettera-saggio" (vedi la Lettre sur les Sourd et Muets) e infine del dialogo euristico vero e proprio (Le Neveu de Rameau). Assistiamo, dunque, nell'evoluzione delle modalità espressive diderotiane, ad un progressivo dialogizzarsi di una riflessione che ama procedere per ipotesi e paradossi e scarti e continue digressioni. Se ne ricava complessivamente un orientamento metodico che, pur nelle sue sfasature e labirintiche dissimmetrie, appare ancora oggi di una straordinaria modernità.

A un'interessante annotazione di Nietzsche sull'origine del linguaggio, fin qui inedita in italiano, opportunamente curata e introdotta da Arianna Leo, segue uno studio puntuale di Elisa Subini sull'influenza che lo stesso Nietzsche ha esercitato su de Chirico e la sua pittura metafisica, mentre a Gian Luca Tusini dobbiamo un saggio assai approfondito su un concetto oggi alla ribalta della ricerca come quello di "spazio" visto nell'ottica di Riegl e Panofsky.

Ci riconducono al discorso metodologico in modi diversi sia Andrea Righi che Davide Sparti. Il primo, in particolare, nel rileggere Benjamin, e tenendo conto delle riflessioni di vari autori (Marx, Debord, Baudrillard...), arriva a ipotizzare fra l'altro che la spettacolarizzazione estetica associata all'inflazione quantitativa che la contraddistingue (serialità portata all'estremo, supermercato dei metodi, ecc.) paradossalmente potrebbe riproporre la rinascita del valore cultuale dell'opera in corrispondenza all'azzeramento del valore espositivo. Spunti e aperture interessanti vengono individuati poi da Righi nelle recenti teorie di José Jiménez, autore di importanti studi nel campo dell'estetica che mostrano alcune convergenze con le teorie neofenomenologiche di Anceschi. Quanto all'ampio testo che Sparti dedica alle teorie di Howard Becker, con esso abbiamo voluto inaugurare una nuova sezione della rivista intitolata "Discussioni": si tratta in effetti di un serrato commento critico che, fra l'altro, ci riporta ad alcuni temi e autori della cosiddetta "estetica analitica", un filone che negli ultimi anni, a partire dal n. 18 del 1998, ha caratterizzato particolarmente la nostra rivista.

La nota di Liliana Rampello su due saggi "politici" di Virginia Woolf e l'esercizio di Filippo Caggiani in margine alle teorie di Meschonnic, assieme alle numerose recensioni e alla notizia sullo stato del discorso filosofico in Turchia completano adeguatamente il fascicolo.
Nel regime di simulazione in cui ci troviamo a vivere segnato dal continuum dell'immagine globale "oggi più che mai" - scrive Jiménez - ci sembra di essere imprigionati "in una caverna universale", in una sorta di "grotta iconica" senza nemmeno le implicazioni ontologiche del mito platonico. Tuttavia, ci restano le "nuvole".

 

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