26/2002
Con
l'introduzione dei crediti e del principio di modularità, la recente
riforma universitaria ha riguardato non solo l'insegnamento delle
discipline scientifiche - dove la segmentazione delle materie e la
progressiva specializzazione appaiono maggiormente giustificate - ma
anche quello delle discipline umanistiche. La suddivisione del percorso
formativo in laurea triennale e laurea specialistica ha, inoltre,
comportato la necessità di distinguere - in modo ancor più netto del
vecchio ordinamento - i corsi istituzionali da quelli a maggiore
vocazione monografica, riservati a quanti intendono perfezionare le
competenze acquisite e magari impegnarsi in un'attività di ricerca.
Nell'ambito di questo generale processo di riorganizzazione del sapere,
molti docenti si sono visti costretti a rimeditare - soprattutto da un
punto di vista quantitativo - la struttura dei loro corsi e ad orientare
gli allievi verso altri strumenti di studio. Com'è
ovvio, la transizione verso i nuovi curricoli universitari non poteva non
interessare l'insegnamento dell'estetica, attualmente impartito nei
corsi di laurea in filosofia, ma previsto - in talune sedi - anche nei
corsi di laurea in conservazione dei beni culturali, in discipline delle
arti e dello spettacolo, in architettura e in design industriale.
Anche l'estetica, infatti, al pari delle altre discipline inquadrate nel
sistema universitario italiano, è chiamata a riformulare i propri campi
di indagine e le proprie modalità di trasmissione, se non vuole diventare
secondaria rispetto a materie di studio - mi riferisco, soprattutto, al
ramo logico-epistemologico - più concretamente applicabili in ambiti di
forte richiamo (ad esempio, l'informatica, le tecniche della
comunicazione, il management dell'innovazione, ecc.). La
necessità, imposta dalla riforma, di trovare un diverso equilibrio tra
l'apporto informativo di base e il momento dell'approfondimento
critico-tematico pone, pertanto, degli urgenti interrogativi
all'insegnamento universitario nel suo complesso e all'estetica in
particolare, spingendo quanti la coltivano a riflettere sull'ampiezza
dei suoi interessi disciplinari e a circoscrivere i suoi molteplici
oggetti di indagine. Non sembra possibile, infatti, stabilire nuovi
criteri di programmazione didattica dell'estetica - conformi
all'introduzione dei crediti - senza imbattersi nella difficoltà di
definire questa 'proteiforme' disciplina. Chiedersi come l'estetica
debba essere insegnata a livello universitario, esige che si determini
qual è il suo statuto disciplinare e che ci si domandi, anzitutto, se
essa corrisponde ad un campo ben delimitato di temi o se, invece, non
possedendone alcuno, sia un sapere liminare nel quale convergono più
discipline con oggetti differenti. In altri termini, le prospettive
didattiche inaugurate dalla riforma richiedono - soprattutto a coloro
che la insegnano - alcune indispensabili precisazioni di carattere
metodologico volte a chiarire se l'estetica è un ambito speciale
degli studi filosofici o, piuttosto, uno stile di analisi con cui
interrogare criticamente le categorie del discorso filosofico, e magari
anche antropologico, sociologico o semiologico. La
distinzione - più netta che in passato - tra formazione istituzionale
e percorso specializzante pone ulteriori, scottanti quesiti: ad esempio,
è auspicabile concepire dei corsi di estetica che forniscano le basi
della disciplina ricorrendo ad un approccio di tipo storico-ricostruttivo
e degli altri finalizzati all'approfondimento teoretico-critico? E
ancora, nei primi sarebbe più opportuno insegnare la storia
dell'estetica, mentre nei secondi problematizzare i temi in essa
ricorrenti? E se sì, quali? Inoltre, a chi dovrebbe essere destinato
l'insegnamento dell'estetica? A quanti sono iscritti al corso di
laurea triennale, magari dopo l'apprendimento di alcune materie (storia
della filosofia, sociologia dell'arte) propedeutiche, oppure soltanto a
coloro che hanno intrapreso la laurea specialistica e dispongono di una
certa preparazione di base? Infine, se l'estetica è un campo
pluritematico o uno stile di riflessione, più che una disciplina dal
forte impianto storico, non meriterebbe di comparire nei piani di studio
come materia obbligatoria - al pari dell'insegnamento di filosofia
teoretica - anziché come materia opzionale? Infatti, visto che in essa
confluiscono i maggiori temi della storia del pensiero (dalla questione
dell'arte e della bellezza a quella del soggetto, del corpo e del gusto,
della costituzione del senso, al rapporto tra sensibilità e intelletto,
al funzionamento dei segni, ecc.), l'estetica appare dotata della stessa
aspecifica trasversalità. Trovandosi
a circolare in un contesto universitario, che - nonostante resistenze o
ritardi - appare profondamente rinnovato, le introduzioni, i dizionari
ed i manuali di storia dell'estetica1
oggi sul mercato non possono evitare di fare i conti con le esigenze
'riformate' di docenti e discenti. In particolare, due sono i lavori
- entrambi apparsi nel 2002 - sui quali intendiamo soffermarci più da
vicino: si tratta del volume Estetica curato da P. D'Angelo, E.
Franzini e G. Scaramuzza2 e di Arte
e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea.
Un'introduzione all'estetica scritto a tre mani da P. Montani, A.
Arduino e D. Guastini.3 Oltre
ad uscire dalle penne di autorevoli estetologi italiani, queste due opere
sono accomunate dalla scelta di corredare l'esposizione della storia
dell'estetica con un cospicuo numero di brani antologici. Nel volume di
D'Angelo-Franzini-Scaramuzza, ad esempio, sono proprio i testi a fornire
la chiave di accesso agli autori ed alle tendenze fondamentali della
disciplina, coadiuvati da snelli inquadramenti storico-tematici e da
un'introduzione generale all'estetica collocata nelle prime venti
pagine. Partendo dalla convinzione - condivisa dagli autori - che
l'estetica è "un tentativo di comprendere l'esperienza posto
all'interno dell'esperienza stessa",4
il volume si presenta come un agile strumento di consultazione che offre
una panoramica sui principali contributi dati alla disciplina non solo da
filosofi, ma anche da artisti e letterati. Accanto agli autori
tradizionalmente riportati nelle storie dell'estetica - come Platone e
Aristotele, Baumgarten e Kant, Hegel e Heidegger - spiccano, infatti, i
nomi meno consueti, ma non per questo meno rilevanti, di Leonardo Da
Vinci, di Baudelaire e di Merleau-Ponty. Il
criterio di selezione dei testi antologici adottato da D'Angelo-Franzini-Scaramuzza
- affine, per certi versi, a quello impiegato da Tatarkiewicz circa una
trentina di anni or sono nel suo prezioso lavoro di catalogazione
concettuale5 - serve a
ricordare al lettore l'esistenza, nella storia della cultura, di un'estetica
implicita accanto a quella esplicita. In base a tale impostazione,
'l'estetico' non si trova solo negli autori o nelle opere che si
dichiarano espressamente appartenenti a questa disciplina, ma anche in una
grande varietà di altri materiali, come testimoniano il Trattato sulla
pittura di Leonardo,6 i
saggi baudelairiani di critica d'arte ispirati ai Salons
parigini,7 le considerazioni di
matrice fenomenologica che Merleau-Ponty sviluppa in merito al vedere.8
Come suggeriscono le scelte interdisciplinari di D'Angelo-Franzini-Scaramuzza,
infatti, anche la teoria della pittura e la critica d'arte (si vedano i
già citati testi di Leonardo e di Baudelaire), l'antropologia delle
emozioni (si pensi al brano di E. Burke sul bello e sul sublime9),
la sociologia dell'esperienza estetica (si pensi al brano di W. Benjamin
sulla riproducibilità dell'opera d'arte10),
contribuiscono a circoscrivere - per spostamento più che per
condensazione - il vasto continente dell'estetica, intrecciandosi o a
volte sostituendosi alla riflessione filosoficamente consapevole di sé. Rispetto
al volume di D'Angelo-Franzini-Scaramuzza indirizzato soprattutto a
studenti della laurea di base, quello di Montani-Arduino-Guastini -
nonostante l'intento introduttivo annunciato nel titolo e nella premessa11
- pare rivolgersi sin dalle prime pagine ad esperti della disciplina,
illustrando una linea interpretativa netta e ben argomentata, ma comunque
unica. In base ad essa, si ha l'impressione che l'intera storia
dell'estetica - da Platone a Ricour - si sia costituita attorno ad
una sola questione, quella del "rapporto tra opera d'arte ed
esperienza di verità"12 -
e perché non anche intorno al tema della bellezza o della percezione? -
col rischio di proiettare categorie storiografiche moderne, come quella di
soggetto, su filosofie che moderne non sono affatto - ad esempio, quella
di Plotino. Fermo restando che il pregio di questo volume è proprio
quello di essere una riflessione molto 'di parte' sull'estetica e
sui destini attuali della sensibilità e dell'arte, ripercorriamo - un
po' più nel dettaglio - i vari capitoli della storia descritta dagli
autori, sollevando qua e là alcune obiezioni dovute all'adozione dello
schema heideggeriano. In
contrasto col più consueto criterio cronologico, il volume si apre a
sorpresa con due capitoli dedicati rispettivamente a Hegel e a Nietzsche:
entrambi, infatti, più di altri avrebbero saputo testimoniare con grande
acutezza la crisi del rapporto tra arte e verità, percepito come ovvio
dalla mentalità antica e invece avvertito in modo sempre più debole
dall'uomo moderno. Così Hegel, con la tesi sul "carattere di passato
dell'arte", ha rivelato come l'ideale non trovi più adeguata
manifestazione nell'arte, giacché diviene veramente consapevole di sé
solo nella razionalità filosofica. Dal canto suo, Nietzsche nella Ursprung
der Tragödie ha mostrato come la tragedia - a partire da Euripide
- abbia perso gradualmente la sua capacità veritativa in favore della
filosofia e come, invece, solo con essa "l'essenza dell'arte accade
storicamente".13 Le
pagine dedicate ai filosofi del pensiero classico - Platone e Aristotele
- si propongono di evidenziare il grosso limite storiografico di
Nietzsche e di rinviare alla tarda antichità pagana e, quindi, al
Medioevo cristiano il momento in cui hanno inizio "la svalutazione
veritativa dell'arte e, più in generale, il ridimensionamento
dell''aisthesis' a vantaggio della 'theoria'".14
Sia in Platone che in Aristotele, infatti, è ancora possibile riscontrare
"quel connubio tra 'mythos' e 'logos' e tra bellezza e verità"
che rende il pensiero classico "sostanzialmente estraneo a quel
movimento di progressiva separazione di arte e verità"15
di cui si stanno cercando le origini. Ne sono un chiaro segno, da un lato,
il riconoscimento platonico di una mimesis positiva, che si
distingue dalla sviante imitazione dell'apparenza procurata dagli eidola
e che favorisce - attraverso le immagini del vero essere (eikona)
- il "ricordo di ciò che l'anima ha già veduto prima di
cadere nella percezione sensibile: l'idea";16
dall'altro, la riabilitazione aristotelica della poesia, ritenuta capace
di rappresentare "non l'accaduto ma ciò che potrebbe accadere" e,
pertanto, di rivelare "l'essenza dei fatti umani, ovvero il loro
carattere contingente".17 Con
la negazione della forza conoscitiva del sensibile, la svalutazione degli
ambiti del verosimile e della praxis umana, Plotino sembra aver
aperto le porte ad "un'epoca nuova nella quale la verità diventa un
problema eminentemente teoretico".18
Con la demolizione della tradizionale gerarchia ontologica su cui era
basata la filosofia greca e per la quale l'ente e la natura
corrispondono a ciò che viene prima (proton), Plotino ha prodotto
- più che una riformulazione delle categorie platoniche -
un'autentica svolta metafisica, con enormi conseguenze sul modo di
concepire i rapporti tra intelletto e realtà, aisthesis e theoria,
materia e forma. La preminenza accordata da Plotino all'Uno ed al
pensiero ha condotto non solo ad un radicale ridimensionamento del ruolo
dell'aisthesis - intesa da Platone e da Aristotele come
l'originaria insorgenza dei fenomeni, la causa prima del pensiero ed
ora, invece, soltanto come un "pensiero oscuro" - ma anche alla
completa perdita di consistenza dell'aistheton, ridotto alla
stregua di mero "non-ente" che ha bisogno dell'attività formatrice
dell'anima. Secondo i nostri autori, inoltre, l'effetto principale
della metafisica intellettualistica plotiniana consiste nel riconoscimento
- assolutamente inedito per la mentalità antica - del primato del
soggetto sull'essere: per questo motivo, le nozioni di bellezza e di
forma non sono più concepite come proprietà oggettivamente possedute
dagli enti, in essi immediatamente visibili e misurabili, bensì come la
manifestazione dell'attività dell'anima che trasmette ordine ad
armonia ad un sostrato altrimenti informe. Il
periodo compreso tra il Medioevo cristiano e la rivoluzione scientifica
seicentesca risulta trattato - in poco più di venti pagine - nella
terza parte del volume, nel corso della quale gli autori - ricorrendo
alle eminenti voci di Agostino, Dante e Leonardo - si impegnano ad
illustrare il secolare consolidamento del paradigma estetologico
inaugurato da Plotino. Prima l'attitudine generalizzata dei medioevali
di "intendere la realtà sensibile come simbolo di una verità
soprasensibile e di per sé trascendente",19
poi l'identificazione cinque-seicentesca di verità e verificabilità e,
infine, la demarcazione di arte e tecnica hanno comportato un progressivo
allentamento del legame originario di arte e verità, predisponendo il
terreno per la nascita moderna dell'estetica come disciplina autonoma.
Da un lato, la "epocale svolta antimimetica del pensiero
giudaico-cristiano"20
costituisce un ulteriore passo verso il depotenziamento del sensibile e,
secondo gli autori, aiuta a comprendere il valore principalmente simbolico
delle forme artistiche medioevali; dall'altro, l'emancipazione moderna
dall'idea di "un fondamento soprasensibile della realtà
osservabile"21 è utilizzata
per spiegare l'equivalenza tra arte e scienza stabilita dal
Rinascimento, entrambe accomunate dal "progetto razionale di riduzione
della contingenza sensibile a regolarità 'meccanica'".22
Appare, tuttavia, poco convincente la descrizione del passaggio -
semplicemente constatato, ma non abbastanza documentato - tra arte
medioevale e arte rinascimentale, a causa di una sovrapposizione di
termini e di concetti non sempre perspicuamente definiti. In particolare,
ci sembra un po' troppo schematico sostenere che il Medioevo cristiano
svaluti la rappresentazione mimetica per esaltarne invece la funzione di
rimando simbolico23 e che,
d'altra parte, l'arte rinascimentale trascuri la valenza simbolica
della rappresentazione per lasciare spazio ad una più accentuata
vocazione naturalistica: nel primo caso, infatti, non si comprenderebbe
l'attenzione rivolta dai pittori medioevali alle tecniche di
riproduzione dei gesti o dei contesti narrativi e, nel secondo, il motivo
per cui le committenze e i soggetti raffigurati continuino a rinviare ai
contenuti della fede. Nel
capitolo dedicato alla nascita settecentesca dell'estetica - in cui,
se possibile, il suggestivo assunto storiografico heideggeriano è ancora
più manifesto che altrove - Baumgarten è presentato come colui che ha
portato a termine il lungo processo di interiorizzazione del sensibile
iniziato da Plotino e che ha conferito dignità teorica al "fatto
fondamentale della modernità, per cui l'esperienza dell'arte si
ritira progressivamente nel medio della rappresentazione e della
soggettività".24 Batteux,
negli stessi anni, individuando nel "piacere" il compito specifico
dell'arte ottenuto attraverso "l'imitazione della bella natura",
mostra di muoversi nel solco tracciato dal teorico della gnoseologia
inferior e di consegnare l'arte alla sfera di pertinenza del
sentimento individuale e dei giudizi di gusto. La
portata di senso della poesia - in particolare di quella antica - e
l'assunzione dell'"universale fantastico" alla base della storia
umana, individuale e collettiva, fanno di Vico un pensatore che, a parere
degli autori, non si colloca sulla via principale imboccata
dall'estetica del XVIII secolo. Per Vico - che così non asseconda,
infatti, il processo di confinamento dell'arte nella soggettività e
critica la sua progressiva incapacità di farci esperire il vero - "la
poesia non è soltanto la genesi e l'origine della civiltà, ma può
costituirne in qualche modo anche il destino post-razionale".25 Il
significato generale dell'estetica critica inaugurata da Kant è
illustrato nel nono capitolo del volume: le limpide pagine scritte da
Montani aiutano a comprendere come il principio soggettivo della facoltà
di giudizio tematizzato da Kant nella terza Kritik si riferisca ad
"una condizione più originaria nella quale il sensibile
è incontrato in un orizzonte che ne anticipa la possibile sensatezza,
secondo un'unità che non è logica (non è un concetto) ma estetica: è
l'unità di un sentire e di un sentir-si, un sentimento di piacere".26
Montani chiarisce, inoltre, come la funzione dell'opera d'arte sia
stata compresa da Kant a partire dall'indagine critica sulle condizioni
di possibilità dell'esperienza umana: ad essa viene attribuito il
compito di mostrare esemplarmente il tratto produttivo e creativo che
"caratterizza in generale il modo in cui noi facciamo esperienza
e abitiamo il mondo: infatti la nostra esperienza si estende, e il mondo
stesso appare suscettibile di ridescrizioni".27 La
dimensione estetica, concepita da Kant in termini puramente
trascendentali, con Schiller e Fichte si vede rispettivamente restituire e
togliere del tutto un ruolo attivo nell'ambito della concreta esperienza
umana. Da una parte, infatti, Schiller affida all'arte il compito
etico-pedagogico di "ricostruire l'integrità dell'uomo"28
e di istituire "quel territorio intermedio in cui la ragione può
incontrare se stessa nel suo altro (il sensibile)" e riconoscersi
"come il libero annunciarsi di un ordine possibile".29
Dall'altra, Fichte afferma il carattere derivato dell'impulso estetico
rispetto a quello pratico e priva l'opera d'arte della capacità di
influire sulla libertà dell'uomo, intesa come costante attività di
autosuperamento dell'io. Con
la trattazione di Schlegel - instancabile animatore del circolo di Jena
- e di Schelling - primo inventore dell'espressione "filosofia
dell'arte" per i propri corsi accademici - il volume si appresta a
chiudere l'analisi della fase moderna dell'estetica, asserendo che
"nel Romanticismo e nell'Idealismo, il sensibile, l'arte e il
"mythos" si mostrano ormai totalmente partecipi di quella
subordinazione della verità alla soggettività"30
che era già emersa prima in Baumgarten e, quindi, in Kant. Schlegel e, in
particolare, lo Schelling maturo offrono la stessa diagnosi dell'arte
moderna e concordano nel rilevare come in essa "prevalgono i caratteri
individuali e la libertà soggettiva, e aumenta soprattutto l'importo di
teoria e di 'intellettualismo'".31
Rispetto al suo legame con la verità, inoltre, il primo auspica una nuova
oggettività per l'arte futura che dovrà dimostrarsi in grado di
"accogliere via via al suo interno i saperi che sostengono la storia, la
scienza, la religione e la filosofia",32
mentre il secondo la ritiene degna di considerazione scientifica solo a
patto che la filosofia si incarichi di "esibirne ad ogni istante la
natura eterna e ideale, ovvero di costruirne adeguatamente il concetto".33 Il
contributo crociano all'estetica non si discosta, ma anzi assume
consapevolmente, il paradigma soggettivistico moderno entro il quale
risulta articolato il significato dell'esperienza artistica. In accordo
con quest'ultimo, Croce non solo ribadisce che la portata veritativa
della poesia deriva dal suo essere "esperienza della soggettività di un
soggetto intuitivo e creativo",34
ma anche attribuisce al sentire estetico - che si rivela
trascendentalmente nell'arte - la facoltà di riattivare il movimento
circolare dello spirito e, con esso, la produzione del senso. Apre
la quinta parte del volume sulla situazione contemporanea del rapporto tra
arte e verità, l'atteso capitolo su Heidegger. Il lungo itinerario
attraverso la storia dell'estetica proposto dagli autori - ispirato
com'è alla descrizione heideggeriana delle avventure dell'Essere, il
cui senso è prima manifesto nella filosofia dei presocratici, poi
"obliato" dalla tradizione metafisica occidentale, e infine riemerso
nel linguaggio dei poeti - non poteva, infatti, mancare di attardarsi
sul "maggiore pensatore di lingua tedesca del Novecento".35
La storia dell'estetica appare al lettore, fin dall'inizio del
percorso, come una fitta trama di concezioni generali e di posizioni
individuali, in cui però è sempre possibile rintracciare un filo
unitario ricostruito - analogamente allo schema 'storiografico' di
Heidegger sull'Essere - attraverso le alterne fasi di svelamento e di
sviamento, di ripresa e di allontanamento dall'originario legame di arte
e verità riconosciuto dai Greci. L'autore del capitolo riconosce ad
Heidegger non solo il merito di aver smascherato la curvatura
soggettivistica dell'Erlebnis e, con esso, di ogni esperienza
estetica, ma anche quello di aver chiarito la scissione di arte e verità
nei termini di un accadimento non ineluttabile, che ha avuto una precisa
origine nel tempo. Attraverso una serrata analisi del saggio del 1936,
Ardovino presenta la celebre tesi heideggeriana dell'arte come
porsi in opera della verità e ne mette in evidenza la forza
dirompente rispetto all'estetica moderna e ad ogni forma di platonismo.
Ardovino ricorda come Heidegger intenda l'esperienza dell'arte in
riferimento al "concetto autentico di verità"36
elaborato dai Greci, secondo il quale "l'ente viene ad essere
manifesto e svelato in quanto non-più-nascosto, non-più-occulto,
finalmente il-latente":37
allo stesso modo, l'essenza dell'opera non si esaurisce tutta
nell'istante del suo apparire, ma si costituisce originariamente come
"coappartenenza di illuminazione e nascondimento, di terra e di
mondo".38 All'opera
d'arte - per la quale, dunque, "es-porre un mondo liberandolo alla
storia" è impossibile senza "porre-qui una terra, arrecandola come
fondamento che si sottrae"39
- Heidegger restituisce la pregnanza di un evento di verità, che ci
permette di riattingere la "origine storica del nostro esserci"40
e di avere accesso all'orizzonte di senso storico-epocale in cui volta
per volta l'Essere si destina a noi. Nel riportare alla luce il binomio
di arte e verità istituito dai Greci, Heidegger manca, tuttavia, di
rilevare il ruolo svolto dal sensibile, trascurando così un aspetto
essenziale della concezione greca dell'apparire. Per la disattenzione
verso gli aspetti sensibili dell'esperienza - che, invece, tende a
confinare nella sfera di vissutezza soggettiva dell'Erlebnis -
la riflessione estetica heideggeriana non ci sembra definibile come una
"originaria 'fenomenologia' dell'arte":41
essa, infatti, non risponde al principio husserliano secondo il quale
"tutto ciò che si dà originalmente nell'intuizione (per così dire,
in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei
limiti in cui esso si dà".42
La filosofia dell'arte heideggeriana non contiene alcun cenno ai modi in
cui l'oggetto artistico si offre alla coscienza, alle strutture
eidetiche che reggono i rapporti tra colori, forme, suoni, alla
stratificazione di intenzionalità d'atto e di intenzionalità fungente
proprie dell'esperienza estetica. In parziale contraddizione con quanto
gli autori asseriscono nella conclusione, dunque, l'invito heideggeriano
a recuperare il valore veritativo dell'arte non riuscirebbe a sottrarsi
allo sviluppo del pensiero occidentale, che conferisce "un ruolo
residuale o di subordine"43
al sensibile e sopprime la sua radicale "alterità donativa".44
L'opera d'arte - proprio perché non è da Heidegger
fenomenologicamente intesa - rimane imprigionata in un'ermeneutica che
la riduce a mero accadimento storico-interpretativo, a discapito della sua
altrettanto fondamentale costituzione percettiva e materiale. Benjamin
e Adorno, le cui tesi sono riportate nel dodicesimo capitolo, sembrano
raccogliere l'invito del filosofo di Heidelberg a recuperare il valore
veritativo dell'arte, sebbene entrambi lo facciano interamente dipendere
- in ciò respingendo il desengagement della riflessione estetica
heideggeriana - "dal suo sapersi far carico di un compito politico in
senso ampio".45 A questo
riguardo, la perdita del carattere di evento singolare e duraturo (aura)
dell'opera d'arte verificatasi nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica è interpretata da Benjamin come la necessaria premessa del
superamento "almeno nelle forme della fruizione - di quel
soggettivismo estetico che caratterizza come sua essenza ogni Erlebnis"46
dell'uomo contemporaneo. Più che a questo risultato, tuttavia, la
"democratizzazione" estetica diagnosticata da Benjamin avrebbe
portato, secondo i nostri autori, alla semplice diffusione del
soggettivismo "a livello di massa",47
traducendosi in un imprecisato, quanto eternamente insoddisfatto,
"bisogno d'arte (o in altri termini di emozioni, rappresentazioni ed
immagini)".48 Da parte sua,
Adorno si impegna a denunciare gli effetti nefasti dell'industria
culturale sull'arte e a ribadire che essa possiede "una propria
autenticità soltanto nel rifiutarsi alla conciliazione e
all'assimilazione"49 alla
società attuale ed alla sua ideologia dominante. Per Adorno, infatti,
attraverso l'opera d'arte è possibile non solo testimoniare le forme
di oppressione perpetuate e rimosse dalla società capitalistica, ma anche
custodire - grazie alla forza alterante della "negazione
determinata" - il richiamo a nuovi modelli di razionalità e di
convivenza, ad una possibile redenzione storico-politica. L'ultimo
capitolo del volume si propone di illustrare come il "legame tra arte e praxis
che la poetica antica percepiva come il più naturale e necessario"50
sia riscoperto e tematizzato dai maggiori esponenti del pensiero
ermeneutico novecentesco. Jauss, Gadamer e Ricour - seppure a partire
da punti di vista e da interessi differenti - risultano, infatti,
accomunati dal tentativo di approfondire la lezione heideggeriana sulla
"comprensione", intesa come il modo fondamentale in cui l'uomo si
rapporta all'essere, al mondo, agli altri. Per i maestri
dell'ermeneutica contemporanea, comprendere un mondo storico,
un'azione umana o un testo equivale ad istituire uno spazio dialogico in
cui i contenuti trasmessi e l'orizzonte di senso dell'interprete sono
destinati ad articolarsi sempre differentemente per effetto del loro
incontro. La critica ermeneutica nei confronti dell'angusta soggettività
cartesiana, intesa come autocoscienza sempre identica a se stessa, procede
di pari passo con la rivalutazione della mimesis e del mondo della praxis:
il soggetto comprendente è, infatti, inserito all'interno di un
processo di trasformazione infinita, in cui è possibile fare esperienza
di sé solo aprendosi all'esperienza dell'altro e mostrandosi attenti
ai modi dell'agire e del patire con cui si attesta a noi. In conclusione, non ci pare che l'esperienza dell'arte - così come è intesa da Heidegger e dall'ermeneutica - possa rappresentare un modo per resistere al debordante sviluppo della tecnica, che programma sempre più il nostro sentire e riduce la nostra apertura al mondo.51 Anziché negare le prerogative della soggettività per lasciare spazio all'avvento di un presunto 'Altro', ci pare più opportuno continuare ad interrogare fenomenologicamente le modalità costitutive del nostro vivere - individuale e intersoggettivo - alle quali l'esperienza dell'arte ci riconduce, più spesso e meglio di altre. Il nesso tra estetica ed etica, tra sensibilità e prassi - a cui il pensiero ermeneutico intende richiamarci - apparirà, in questo caso, fondato nella nostra stessa esperienza di esseri umani, per i quali percepire un oggetto artistico, una persona o un fatto equivale a sentirne il valore. 1 Per ovvie ragioni di spazio, ne ricordiamo solo alcuni (non sempre abbiamo segnalato le riedizioni): F. Restaino, Storia dell'estetica moderna, Utet, Torino 1991; W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Palermo, Aesthetica, 1993; S. Zecchi-E. Franzini, Storia dell'estetica. Antologia di testi, 3 voll., Bologna, Il Mulino, 1995; R. Bodei, Le forme del bello, Bologna, Il Mulino, 1995; E. Franzini-M. Mizzocut-Mis, Estetica. I nomi, i concetti, le idee, Milano, Bruno Mondadori, 1996; S. Givone (a cura di), Estetica. Storia, categorie, bibliografia, Firenze, La Nuova Italia, 1998; G. Carchia-P. D'Angelo, Dizionario di estetica, Roma-Bari, Laterza, 1999; S. Givone, Storia dell'estetica, Roma-Bari, Laterza, 200110; M. Modica, Che cos'è l'estetica?, Roma, Editori Riuniti, 2002. 2 P. D'Angelo-E. Franzini-G. Scaramuzza, Estetica, Milano, Raffaello Cortina Ed., 2002. 3 P. Montani (con A. Ardovino e D. Guastini), Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea. Un'introduzione all'estetica, Roma-Bari, Laterza, 2002. 4 P. D'Angelo-E. Franzini-G. Scaramuzza, Estetica, cit., p. 2. 5 Cfr. W. Tatarkiewicz, Storia dell'estetica, voll. I-III, Torino, Einaudi, 1974. 6 P. D'Angelo-E. Franzini-G. Scaramuzza, Estetica, cit., pp. 79-89. 7 Ibid.,
pp. 241-52. 8 Ibid.,
pp. 319-35. 9 Ibid.,
pp. 123-36. 10 Ibid.,
pp. 273-93. 11 P. Montani (con A. Ardovino e D. Guastini), Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea. Un'introduzione all'estetica, cit., p. V. 12 Ibid. 13 Ibid.,
p. 42. 14 Ibid.,
p. 98. 15 Ibid.,
p. 75. 16 Ibid.,
p. 63. 17 Ibid.,
p. 96. 18 Ibid.,
p. 115. 19 Ibid.,
p. 121. 20 Ibid.,
p. 120. 21 Ibid.,
p. 143. 22 Ibid., p. 141. 23 Su questo punto, si veda M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, L'estetica medievale, Bologna, Il Mulino, 2002. 24 P. Montani (con A. Ardovino e D. Guastini), Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea, cit., p. 163. 25 Ibid.,
p. 180. 26 Ibid.,
p. 205. 27 Ibid.,
p. 208. 28 Ibid.,
p. 239. 29 Ibid.,
p. 235. 30 Ibid.,
p. 251. 31 Ibid.,
p. 254. 32 Ibid. 33 Ibid.,
p. 275. 34 Ibid.,
p. 302. 35 Ibid.,
p. 309. 36 Ibid.,
p. 320. 37 Ibid.,
pp. 320-1. 38 Ibid.,
p. 322. 39
Ibid. 40 Ibid.,
p. 327. 41 Ibid., p. 307. 42 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I. Introduzione generale alla fenomenologia pura, Torino, Einaudi, 1976, pp. 50-1. 43 P. Montani (con A. Ardovino e D. Guastini), Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea, cit., p. 387. 44 Ibid.,
p. 391. 45 Ibid.,
p. 329. 46 Ibid.,
p. 344. 47 Ibid. 48 Ibid. 49 Ibid.,
p. 353. 50 Ibid., p. 361. 51 Sia pure da un'altra angolatura, su questo aspetto si è soffermato - nella sua recensione al volume - anche M. Carboni, Movimenti di resistenza sul fronte dell'arte, in "Il Manifesto", del 4.6.2002, p. 12. |
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