26/2002
Studi di Estetica
III serie
anno XXX, fasc. II

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Gianluca Valle
Insegnare estetica: nuovi manuali

Con l'introduzione dei crediti e del principio di modularità, la recente riforma universitaria ha riguardato non solo l'insegnamento delle discipline scientifiche - dove la segmentazione delle materie e la progressiva specializzazione appaiono maggiormente giustificate - ma anche quello delle discipline umanistiche. La suddivisione del percorso formativo in laurea triennale e laurea specialistica ha, inoltre, comportato la necessità di distinguere - in modo ancor più netto del vecchio ordinamento - i corsi istituzionali da quelli a maggiore vocazione monografica, riservati a quanti intendono perfezionare le competenze acquisite e magari impegnarsi in un'attività di ricerca. Nell'ambito di questo generale processo di riorganizzazione del sapere, molti docenti si sono visti costretti a rimeditare - soprattutto da un punto di vista quantitativo - la struttura dei loro corsi e ad orientare gli allievi verso altri strumenti di studio.

Com'è ovvio, la transizione verso i nuovi curricoli universitari non poteva non interessare l'insegnamento dell'estetica, attualmente impartito nei corsi di laurea in filosofia, ma previsto - in talune sedi - anche nei corsi di laurea in conservazione dei beni culturali, in discipline delle arti e dello spettacolo, in architettura e in design industriale. Anche l'estetica, infatti, al pari delle altre discipline inquadrate nel sistema universitario italiano, è chiamata a riformulare i propri campi di indagine e le proprie modalità di trasmissione, se non vuole diventare secondaria rispetto a materie di studio - mi riferisco, soprattutto, al ramo logico-epistemologico - più concretamente applicabili in ambiti di forte richiamo (ad esempio, l'informatica, le tecniche della comunicazione, il management dell'innovazione, ecc.).

La necessità, imposta dalla riforma, di trovare un diverso equilibrio tra l'apporto informativo di base e il momento dell'approfondimento critico-tematico pone, pertanto, degli urgenti interrogativi all'insegnamento universitario nel suo complesso e all'estetica in particolare, spingendo quanti la coltivano a riflettere sull'ampiezza dei suoi interessi disciplinari e a circoscrivere i suoi molteplici oggetti di indagine. Non sembra possibile, infatti, stabilire nuovi criteri di programmazione didattica dell'estetica - conformi all'introduzione dei crediti - senza imbattersi nella difficoltà di definire questa 'proteiforme' disciplina. Chiedersi come l'estetica debba essere insegnata a livello universitario, esige che si determini qual è il suo statuto disciplinare e che ci si domandi, anzitutto, se essa corrisponde ad un campo ben delimitato di temi o se, invece, non possedendone alcuno, sia un sapere liminare nel quale convergono più discipline con oggetti differenti. In altri termini, le prospettive didattiche inaugurate dalla riforma richiedono - soprattutto a coloro che la insegnano - alcune indispensabili precisazioni di carattere metodologico volte a chiarire se l'estetica è un ambito speciale degli studi filosofici o, piuttosto, uno stile di analisi con cui interrogare criticamente le categorie del discorso filosofico, e magari anche antropologico, sociologico o semiologico.

La distinzione - più netta che in passato - tra formazione istituzionale e percorso specializzante pone ulteriori, scottanti quesiti: ad esempio, è auspicabile concepire dei corsi di estetica che forniscano le basi della disciplina ricorrendo ad un approccio di tipo storico-ricostruttivo e degli altri finalizzati all'approfondimento teoretico-critico? E ancora, nei primi sarebbe più opportuno insegnare la storia dell'estetica, mentre nei secondi problematizzare i temi in essa ricorrenti? E se sì, quali? Inoltre, a chi dovrebbe essere destinato l'insegnamento dell'estetica? A quanti sono iscritti al corso di laurea triennale, magari dopo l'apprendimento di alcune materie (storia della filosofia, sociologia dell'arte) propedeutiche, oppure soltanto a coloro che hanno intrapreso la laurea specialistica e dispongono di una certa preparazione di base? Infine, se l'estetica è un campo pluritematico o uno stile di riflessione, più che una disciplina dal forte impianto storico, non meriterebbe di comparire nei piani di studio come materia obbligatoria - al pari dell'insegnamento di filosofia teoretica - anziché come materia opzionale? Infatti, visto che in essa confluiscono i maggiori temi della storia del pensiero (dalla questione dell'arte e della bellezza a quella del soggetto, del corpo e del gusto, della costituzione del senso, al rapporto tra sensibilità e intelletto, al funzionamento dei segni, ecc.), l'estetica appare dotata della stessa aspecifica trasversalità.

Trovandosi a circolare in un contesto universitario, che - nonostante resistenze o ritardi - appare profondamente rinnovato, le introduzioni, i dizionari ed i manuali di storia dell'estetica1 oggi sul mercato non possono evitare di fare i conti con le esigenze 'riformate' di docenti e discenti. In particolare, due sono i lavori - entrambi apparsi nel 2002 - sui quali intendiamo soffermarci più da vicino: si tratta del volume Estetica curato da P. D'Angelo, E. Franzini e G. Scaramuzza2 e di Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea. Un'introduzione all'estetica scritto a tre mani da P. Montani, A. Arduino e D. Guastini.3

Oltre ad uscire dalle penne di autorevoli estetologi italiani, queste due opere sono accomunate dalla scelta di corredare l'esposizione della storia dell'estetica con un cospicuo numero di brani antologici. Nel volume di D'Angelo-Franzini-Scaramuzza, ad esempio, sono proprio i testi a fornire la chiave di accesso agli autori ed alle tendenze fondamentali della disciplina, coadiuvati da snelli inquadramenti storico-tematici e da un'introduzione generale all'estetica collocata nelle prime venti pagine. Partendo dalla convinzione - condivisa dagli autori - che l'estetica è "un tentativo di comprendere l'esperienza posto all'interno dell'esperienza stessa",4 il volume si presenta come un agile strumento di consultazione che offre una panoramica sui principali contributi dati alla disciplina non solo da filosofi, ma anche da artisti e letterati. Accanto agli autori tradizionalmente riportati nelle storie dell'estetica - come Platone e Aristotele, Baumgarten e Kant, Hegel e Heidegger - spiccano, infatti, i nomi meno consueti, ma non per questo meno rilevanti, di Leonardo Da Vinci, di Baudelaire e di Merleau-Ponty.

Il criterio di selezione dei testi antologici adottato da D'Angelo-Franzini-Scaramuzza - affine, per certi versi, a quello impiegato da Tatarkiewicz circa una trentina di anni or sono nel suo prezioso lavoro di catalogazione concettuale5 - serve a ricordare al lettore l'esistenza, nella storia della cultura, di un'estetica implicita accanto a quella esplicita. In base a tale impostazione, 'l'estetico' non si trova solo negli autori o nelle opere che si dichiarano espressamente appartenenti a questa disciplina, ma anche in una grande varietà di altri materiali, come testimoniano il Trattato sulla pittura di Leonardo,6 i saggi baudelairiani di critica d'arte ispirati ai Salons parigini,7 le considerazioni di matrice fenomenologica che Merleau-Ponty sviluppa in merito al vedere.8 Come suggeriscono le scelte interdisciplinari di D'Angelo-Franzini-Scaramuzza, infatti, anche la teoria della pittura e la critica d'arte (si vedano i già citati testi di Leonardo e di Baudelaire), l'antropologia delle emozioni (si pensi al brano di E. Burke sul bello e sul sublime9), la sociologia dell'esperienza estetica (si pensi al brano di W. Benjamin sulla riproducibilità dell'opera d'arte10), contribuiscono a circoscrivere - per spostamento più che per condensazione - il vasto continente dell'estetica, intrecciandosi o a volte sostituendosi alla riflessione filosoficamente consapevole di sé.

Rispetto al volume di D'Angelo-Franzini-Scaramuzza indirizzato soprattutto a studenti della laurea di base, quello di Montani-Arduino-Guastini - nonostante l'intento introduttivo annunciato nel titolo e nella premessa11 - pare rivolgersi sin dalle prime pagine ad esperti della disciplina, illustrando una linea interpretativa netta e ben argomentata, ma comunque unica. In base ad essa, si ha l'impressione che l'intera storia dell'estetica - da Platone a Ricour - si sia costituita attorno ad una sola questione, quella del "rapporto tra opera d'arte ed esperienza di verità"12 - e perché non anche intorno al tema della bellezza o della percezione? - col rischio di proiettare categorie storiografiche moderne, come quella di soggetto, su filosofie che moderne non sono affatto - ad esempio, quella di Plotino. Fermo restando che il pregio di questo volume è proprio quello di essere una riflessione molto 'di parte' sull'estetica e sui destini attuali della sensibilità e dell'arte, ripercorriamo - un po' più nel dettaglio - i vari capitoli della storia descritta dagli autori, sollevando qua e là alcune obiezioni dovute all'adozione dello schema heideggeriano.

In contrasto col più consueto criterio cronologico, il volume si apre a sorpresa con due capitoli dedicati rispettivamente a Hegel e a Nietzsche: entrambi, infatti, più di altri avrebbero saputo testimoniare con grande acutezza la crisi del rapporto tra arte e verità, percepito come ovvio dalla mentalità antica e invece avvertito in modo sempre più debole dall'uomo moderno. Così Hegel, con la tesi sul "carattere di passato dell'arte", ha rivelato come l'ideale non trovi più adeguata manifestazione nell'arte, giacché diviene veramente consapevole di sé solo nella razionalità filosofica. Dal canto suo, Nietzsche nella Ursprung der Tragödie ha mostrato come la tragedia - a partire da Euripide - abbia perso gradualmente la sua capacità veritativa in favore della filosofia e come, invece, solo con essa "l'essenza dell'arte accade storicamente".13

Le pagine dedicate ai filosofi del pensiero classico - Platone e Aristotele - si propongono di evidenziare il grosso limite storiografico di Nietzsche e di rinviare alla tarda antichità pagana e, quindi, al Medioevo cristiano il momento in cui hanno inizio "la svalutazione veritativa dell'arte e, più in generale, il ridimensionamento dell''aisthesis' a vantaggio della 'theoria'".14 Sia in Platone che in Aristotele, infatti, è ancora possibile riscontrare "quel connubio tra 'mythos' e 'logos' e tra bellezza e verità" che rende il pensiero classico "sostanzialmente estraneo a quel movimento di progressiva separazione di arte e verità"15 di cui si stanno cercando le origini. Ne sono un chiaro segno, da un lato, il riconoscimento platonico di una mimesis positiva, che si distingue dalla sviante imitazione dell'apparenza procurata dagli eidola e che favorisce - attraverso le immagini del vero essere (eikona) - il "ricordo di ciò che l'anima ha già veduto prima di cadere nella percezione sensibile: l'idea";16 dall'altro, la riabilitazione aristotelica della poesia, ritenuta capace di rappresentare "non l'accaduto ma ciò che potrebbe accadere" e, pertanto, di rivelare "l'essenza dei fatti umani, ovvero il loro carattere contingente".17

Con la negazione della forza conoscitiva del sensibile, la svalutazione degli ambiti del verosimile e della praxis umana, Plotino sembra aver aperto le porte ad "un'epoca nuova nella quale la verità diventa un problema eminentemente teoretico".18 Con la demolizione della tradizionale gerarchia ontologica su cui era basata la filosofia greca e per la quale l'ente e la natura corrispondono a ciò che viene prima (proton), Plotino ha prodotto - più che una riformulazione delle categorie platoniche - un'autentica svolta metafisica, con enormi conseguenze sul modo di concepire i rapporti tra intelletto e realtà, aisthesis e theoria, materia e forma. La preminenza accordata da Plotino all'Uno ed al pensiero ha condotto non solo ad un radicale ridimensionamento del ruolo dell'aisthesis - intesa da Platone e da Aristotele come l'originaria insorgenza dei fenomeni, la causa prima del pensiero ed ora, invece, soltanto come un "pensiero oscuro" - ma anche alla completa perdita di consistenza dell'aistheton, ridotto alla stregua di mero "non-ente" che ha bisogno dell'attività formatrice dell'anima. Secondo i nostri autori, inoltre, l'effetto principale della metafisica intellettualistica plotiniana consiste nel riconoscimento - assolutamente inedito per la mentalità antica - del primato del soggetto sull'essere: per questo motivo, le nozioni di bellezza e di forma non sono più concepite come proprietà oggettivamente possedute dagli enti, in essi immediatamente visibili e misurabili, bensì come la manifestazione dell'attività dell'anima che trasmette ordine ad armonia ad un sostrato altrimenti informe.

Il periodo compreso tra il Medioevo cristiano e la rivoluzione scientifica seicentesca risulta trattato - in poco più di venti pagine - nella terza parte del volume, nel corso della quale gli autori - ricorrendo alle eminenti voci di Agostino, Dante e Leonardo - si impegnano ad illustrare il secolare consolidamento del paradigma estetologico inaugurato da Plotino. Prima l'attitudine generalizzata dei medioevali di "intendere la realtà sensibile come simbolo di una verità soprasensibile e di per sé trascendente",19 poi l'identificazione cinque-seicentesca di verità e verificabilità e, infine, la demarcazione di arte e tecnica hanno comportato un progressivo allentamento del legame originario di arte e verità, predisponendo il terreno per la nascita moderna dell'estetica come disciplina autonoma. Da un lato, la "epocale svolta antimimetica del pensiero giudaico-cristiano"20 costituisce un ulteriore passo verso il depotenziamento del sensibile e, secondo gli autori, aiuta a comprendere il valore principalmente simbolico delle forme artistiche medioevali; dall'altro, l'emancipazione moderna dall'idea di "un fondamento soprasensibile della realtà osservabile"21 è utilizzata per spiegare l'equivalenza tra arte e scienza stabilita dal Rinascimento, entrambe accomunate dal "progetto razionale di riduzione della contingenza sensibile a regolarità 'meccanica'".22 Appare, tuttavia, poco convincente la descrizione del passaggio - semplicemente constatato, ma non abbastanza documentato - tra arte medioevale e arte rinascimentale, a causa di una sovrapposizione di termini e di concetti non sempre perspicuamente definiti. In particolare, ci sembra un po' troppo schematico sostenere che il Medioevo cristiano svaluti la rappresentazione mimetica per esaltarne invece la funzione di rimando simbolico23 e che, d'altra parte, l'arte rinascimentale trascuri la valenza simbolica della rappresentazione per lasciare spazio ad una più accentuata vocazione naturalistica: nel primo caso, infatti, non si comprenderebbe l'attenzione rivolta dai pittori medioevali alle tecniche di riproduzione dei gesti o dei contesti narrativi e, nel secondo, il motivo per cui le committenze e i soggetti raffigurati continuino a rinviare ai contenuti della fede.

Nel capitolo dedicato alla nascita settecentesca dell'estetica - in cui, se possibile, il suggestivo assunto storiografico heideggeriano è ancora più manifesto che altrove - Baumgarten è presentato come colui che ha portato a termine il lungo processo di interiorizzazione del sensibile iniziato da Plotino e che ha conferito dignità teorica al "fatto fondamentale della modernità, per cui l'esperienza dell'arte si ritira progressivamente nel medio della rappresentazione e della soggettività".24 Batteux, negli stessi anni, individuando nel "piacere" il compito specifico dell'arte ottenuto attraverso "l'imitazione della bella natura", mostra di muoversi nel solco tracciato dal teorico della gnoseologia inferior e di consegnare l'arte alla sfera di pertinenza del sentimento individuale e dei giudizi di gusto.

La portata di senso della poesia - in particolare di quella antica - e l'assunzione dell'"universale fantastico" alla base della storia umana, individuale e collettiva, fanno di Vico un pensatore che, a parere degli autori, non si colloca sulla via principale imboccata dall'estetica del XVIII secolo. Per Vico - che così non asseconda, infatti, il processo di confinamento dell'arte nella soggettività e critica la sua progressiva incapacità di farci esperire il vero - "la poesia non è soltanto la genesi e l'origine della civiltà, ma può costituirne in qualche modo anche il destino post-razionale".25

Il significato generale dell'estetica critica inaugurata da Kant è illustrato nel nono capitolo del volume: le limpide pagine scritte da Montani aiutano a comprendere come il principio soggettivo della facoltà di giudizio tematizzato da Kant nella terza Kritik si riferisca ad "una condizione più originaria nella quale il sensibile è incontrato in un orizzonte che ne anticipa la possibile sensatezza, secondo un'unità che non è logica (non è un concetto) ma estetica: è l'unità di un sentire e di un sentir-si, un sentimento di piacere".26 Montani chiarisce, inoltre, come la funzione dell'opera d'arte sia stata compresa da Kant a partire dall'indagine critica sulle condizioni di possibilità dell'esperienza umana: ad essa viene attribuito il compito di mostrare esemplarmente il tratto produttivo e creativo che "caratterizza in generale il modo in cui noi facciamo esperienza e abitiamo il mondo: infatti la nostra esperienza si estende, e il mondo stesso appare suscettibile di ridescrizioni".27

La dimensione estetica, concepita da Kant in termini puramente trascendentali, con Schiller e Fichte si vede rispettivamente restituire e togliere del tutto un ruolo attivo nell'ambito della concreta esperienza umana. Da una parte, infatti, Schiller affida all'arte il compito etico-pedagogico di "ricostruire l'integrità dell'uomo"28 e di istituire "quel territorio intermedio in cui la ragione può incontrare se stessa nel suo altro (il sensibile)" e riconoscersi "come il libero annunciarsi di un ordine possibile".29 Dall'altra, Fichte afferma il carattere derivato dell'impulso estetico rispetto a quello pratico e priva l'opera d'arte della capacità di influire sulla libertà dell'uomo, intesa come costante attività di autosuperamento dell'io.

Con la trattazione di Schlegel - instancabile animatore del circolo di Jena - e di Schelling - primo inventore dell'espressione "filosofia dell'arte" per i propri corsi accademici - il volume si appresta a chiudere l'analisi della fase moderna dell'estetica, asserendo che "nel Romanticismo e nell'Idealismo, il sensibile, l'arte e il "mythos" si mostrano ormai totalmente partecipi di quella subordinazione della verità alla soggettività"30 che era già emersa prima in Baumgarten e, quindi, in Kant. Schlegel e, in particolare, lo Schelling maturo offrono la stessa diagnosi dell'arte moderna e concordano nel rilevare come in essa "prevalgono i caratteri individuali e la libertà soggettiva, e aumenta soprattutto l'importo di teoria e di 'intellettualismo'".31 Rispetto al suo legame con la verità, inoltre, il primo auspica una nuova oggettività per l'arte futura che dovrà dimostrarsi in grado di "accogliere via via al suo interno i saperi che sostengono la storia, la scienza, la religione e la filosofia",32 mentre il secondo la ritiene degna di considerazione scientifica solo a patto che la filosofia si incarichi di "esibirne ad ogni istante la natura eterna e ideale, ovvero di costruirne adeguatamente il concetto".33

Il contributo crociano all'estetica non si discosta, ma anzi assume consapevolmente, il paradigma soggettivistico moderno entro il quale risulta articolato il significato dell'esperienza artistica. In accordo con quest'ultimo, Croce non solo ribadisce che la portata veritativa della poesia deriva dal suo essere "esperienza della soggettività di un soggetto intuitivo e creativo",34 ma anche attribuisce al sentire estetico - che si rivela trascendentalmente nell'arte - la facoltà di riattivare il movimento circolare dello spirito e, con esso, la produzione del senso.

Apre la quinta parte del volume sulla situazione contemporanea del rapporto tra arte e verità, l'atteso capitolo su Heidegger. Il lungo itinerario attraverso la storia dell'estetica proposto dagli autori - ispirato com'è alla descrizione heideggeriana delle avventure dell'Essere, il cui senso è prima manifesto nella filosofia dei presocratici, poi "obliato" dalla tradizione metafisica occidentale, e infine riemerso nel linguaggio dei poeti - non poteva, infatti, mancare di attardarsi sul "maggiore pensatore di lingua tedesca del Novecento".35 La storia dell'estetica appare al lettore, fin dall'inizio del percorso, come una fitta trama di concezioni generali e di posizioni individuali, in cui però è sempre possibile rintracciare un filo unitario ricostruito - analogamente allo schema 'storiografico' di Heidegger sull'Essere - attraverso le alterne fasi di svelamento e di sviamento, di ripresa e di allontanamento dall'originario legame di arte e verità riconosciuto dai Greci. L'autore del capitolo riconosce ad Heidegger non solo il merito di aver smascherato la curvatura soggettivistica dell'Erlebnis e, con esso, di ogni esperienza estetica, ma anche quello di aver chiarito la scissione di arte e verità nei termini di un accadimento non ineluttabile, che ha avuto una precisa origine nel tempo. Attraverso una serrata analisi del saggio del 1936, Ardovino presenta la celebre tesi heideggeriana dell'arte come porsi in opera della verità e ne mette in evidenza la forza dirompente rispetto all'estetica moderna e ad ogni forma di platonismo. Ardovino ricorda come Heidegger intenda l'esperienza dell'arte in riferimento al "concetto autentico di verità"36 elaborato dai Greci, secondo il quale "l'ente viene ad essere manifesto e svelato in quanto non-più-nascosto, non-più-occulto, finalmente il-latente":37 allo stesso modo, l'essenza dell'opera non si esaurisce tutta nell'istante del suo apparire, ma si costituisce originariamente come "coappartenenza di illuminazione e nascondimento, di terra e di mondo".38 All'opera d'arte - per la quale, dunque, "es-porre un mondo liberandolo alla storia" è impossibile senza "porre-qui una terra, arrecandola come fondamento che si sottrae"39 - Heidegger restituisce la pregnanza di un evento di verità, che ci permette di riattingere la "origine storica del nostro esserci"40 e di avere accesso all'orizzonte di senso storico-epocale in cui volta per volta l'Essere si destina a noi. Nel riportare alla luce il binomio di arte e verità istituito dai Greci, Heidegger manca, tuttavia, di rilevare il ruolo svolto dal sensibile, trascurando così un aspetto essenziale della concezione greca dell'apparire. Per la disattenzione verso gli aspetti sensibili dell'esperienza - che, invece, tende a confinare nella sfera di vissutezza soggettiva dell'Erlebnis - la riflessione estetica heideggeriana non ci sembra definibile come una "originaria 'fenomenologia' dell'arte":41 essa, infatti, non risponde al principio husserliano secondo il quale "tutto ciò che si dà originalmente nell'intuizione (per così dire, in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui esso si dà".42 La filosofia dell'arte heideggeriana non contiene alcun cenno ai modi in cui l'oggetto artistico si offre alla coscienza, alle strutture eidetiche che reggono i rapporti tra colori, forme, suoni, alla stratificazione di intenzionalità d'atto e di intenzionalità fungente proprie dell'esperienza estetica. In parziale contraddizione con quanto gli autori asseriscono nella conclusione, dunque, l'invito heideggeriano a recuperare il valore veritativo dell'arte non riuscirebbe a sottrarsi allo sviluppo del pensiero occidentale, che conferisce "un ruolo residuale o di subordine"43 al sensibile e sopprime la sua radicale "alterità donativa".44 L'opera d'arte - proprio perché non è da Heidegger fenomenologicamente intesa - rimane imprigionata in un'ermeneutica che la riduce a mero accadimento storico-interpretativo, a discapito della sua altrettanto fondamentale costituzione percettiva e materiale.

Benjamin e Adorno, le cui tesi sono riportate nel dodicesimo capitolo, sembrano raccogliere l'invito del filosofo di Heidelberg a recuperare il valore veritativo dell'arte, sebbene entrambi lo facciano interamente dipendere - in ciò respingendo il desengagement della riflessione estetica heideggeriana - "dal suo sapersi far carico di un compito politico in senso ampio".45 A questo riguardo, la perdita del carattere di evento singolare e duraturo (aura) dell'opera d'arte verificatasi nell'epoca della sua riproducibilità tecnica è interpretata da Benjamin come la necessaria premessa del superamento "almeno nelle forme della fruizione - di quel soggettivismo estetico che caratterizza come sua essenza ogni Erlebnis"46 dell'uomo contemporaneo. Più che a questo risultato, tuttavia, la "democratizzazione" estetica diagnosticata da Benjamin avrebbe portato, secondo i nostri autori, alla semplice diffusione del soggettivismo "a livello di massa",47 traducendosi in un imprecisato, quanto eternamente insoddisfatto, "bisogno d'arte (o in altri termini di emozioni, rappresentazioni ed immagini)".48 Da parte sua, Adorno si impegna a denunciare gli effetti nefasti dell'industria culturale sull'arte e a ribadire che essa possiede "una propria autenticità soltanto nel rifiutarsi alla conciliazione e all'assimilazione"49 alla società attuale ed alla sua ideologia dominante. Per Adorno, infatti, attraverso l'opera d'arte è possibile non solo testimoniare le forme di oppressione perpetuate e rimosse dalla società capitalistica, ma anche custodire - grazie alla forza alterante della "negazione determinata" - il richiamo a nuovi modelli di razionalità e di convivenza, ad una possibile redenzione storico-politica.

L'ultimo capitolo del volume si propone di illustrare come il "legame tra arte e praxis che la poetica antica percepiva come il più naturale e necessario"50 sia riscoperto e tematizzato dai maggiori esponenti del pensiero ermeneutico novecentesco. Jauss, Gadamer e Ricour - seppure a partire da punti di vista e da interessi differenti - risultano, infatti, accomunati dal tentativo di approfondire la lezione heideggeriana sulla "comprensione", intesa come il modo fondamentale in cui l'uomo si rapporta all'essere, al mondo, agli altri. Per i maestri dell'ermeneutica contemporanea, comprendere un mondo storico, un'azione umana o un testo equivale ad istituire uno spazio dialogico in cui i contenuti trasmessi e l'orizzonte di senso dell'interprete sono destinati ad articolarsi sempre differentemente per effetto del loro incontro. La critica ermeneutica nei confronti dell'angusta soggettività cartesiana, intesa come autocoscienza sempre identica a se stessa, procede di pari passo con la rivalutazione della mimesis e del mondo della praxis: il soggetto comprendente è, infatti, inserito all'interno di un processo di trasformazione infinita, in cui è possibile fare esperienza di sé solo aprendosi all'esperienza dell'altro e mostrandosi attenti ai modi dell'agire e del patire con cui si attesta a noi.

In conclusione, non ci pare che l'esperienza dell'arte - così come è intesa da Heidegger e dall'ermeneutica - possa rappresentare un modo per resistere al debordante sviluppo della tecnica, che programma sempre più il nostro sentire e riduce la nostra apertura al mondo.51 Anziché negare le prerogative della soggettività per lasciare spazio all'avvento di un presunto 'Altro', ci pare più opportuno continuare ad interrogare fenomenologicamente le modalità costitutive del nostro vivere - individuale e intersoggettivo - alle quali l'esperienza dell'arte ci riconduce, più spesso e meglio di altre. Il nesso tra estetica ed etica, tra sensibilità e prassi - a cui il pensiero ermeneutico intende richiamarci - apparirà, in questo caso, fondato nella nostra stessa esperienza di esseri umani, per i quali percepire un oggetto artistico, una persona o un fatto equivale a sentirne il valore.

 

 

1 Per ovvie ragioni di spazio, ne ricordiamo solo alcuni (non sempre abbiamo segnalato le riedizioni): F. Restaino, Storia dell'estetica moderna, Utet, Torino 1991; W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Palermo, Aesthetica, 1993; S. Zecchi-E. Franzini, Storia dell'estetica. Antologia di testi, 3 voll., Bologna, Il Mulino, 1995; R. Bodei, Le forme del bello, Bologna, Il Mulino, 1995; E. Franzini-M. Mizzocut-Mis, Estetica. I nomi, i concetti, le idee, Milano, Bruno Mondadori, 1996; S. Givone (a cura di), Estetica. Storia, categorie, bibliografia, Firenze, La Nuova Italia, 1998; G. Carchia-P. D'Angelo, Dizionario di estetica, Roma-Bari, Laterza, 1999; S. Givone, Storia dell'estetica, Roma-Bari, Laterza, 200110; M. Modica, Che cos'è l'estetica?, Roma, Editori Riuniti, 2002.

2 P. D'Angelo-E. Franzini-G. Scaramuzza, Estetica, Milano, Raffaello Cortina Ed., 2002.

3 P. Montani (con A. Ardovino e D. Guastini), Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea. Un'introduzione all'estetica, Roma-Bari, Laterza, 2002.

4 P. D'Angelo-E. Franzini-G. Scaramuzza, Estetica, cit., p. 2.

5 Cfr. W. Tatarkiewicz, Storia dell'estetica, voll. I-III, Torino, Einaudi, 1974.

6 P. D'Angelo-E. Franzini-G. Scaramuzza, Estetica, cit., pp. 79-89.

7 Ibid., pp. 241-52.

8 Ibid., pp. 319-35.

9 Ibid., pp. 123-36.

10 Ibid., pp. 273-93.

11 P. Montani (con A. Ardovino e D. Guastini), Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea. Un'introduzione all'estetica, cit., p. V.

12 Ibid.

13 Ibid., p. 42.

14 Ibid., p. 98.

15 Ibid., p. 75.

16 Ibid., p. 63.

17 Ibid., p. 96.

18 Ibid., p. 115.

19 Ibid., p. 121.

20 Ibid., p. 120.

21 Ibid., p. 143.

22 Ibid., p. 141.

23 Su questo punto, si veda M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, L'estetica medievale, Bologna, Il Mulino, 2002.

24 P. Montani (con A. Ardovino e D. Guastini), Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea, cit., p. 163.

25 Ibid., p. 180.

26 Ibid., p. 205.

27 Ibid., p. 208.

28 Ibid., p. 239.

29 Ibid., p. 235.

30 Ibid., p. 251.

31 Ibid., p. 254.

32 Ibid.

33 Ibid., p. 275.

34 Ibid., p. 302.

35 Ibid., p. 309.

36 Ibid., p. 320.

37 Ibid., pp. 320-1.

38 Ibid., p. 322.

39 Ibid.

40 Ibid., p. 327.

41 Ibid., p. 307.

42 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I. Introduzione generale alla fenomenologia pura, Torino, Einaudi, 1976, pp. 50-1.

43 P. Montani (con A. Ardovino e D. Guastini), Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea, cit., p. 387.

44 Ibid., p. 391.

45 Ibid., p. 329.

46 Ibid., p. 344.

47 Ibid.

48 Ibid.

49 Ibid., p. 353.

50 Ibid., p. 361.

51 Sia pure da un'altra angolatura, su questo aspetto si è soffermato - nella sua recensione al volume - anche M. Carboni, Movimenti di resistenza sul fronte dell'arte, in "Il Manifesto", del 4.6.2002, p. 12.

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