25/2002
Studi di Estetica
III serie
anno XXX, fasc. I


Loreau e gli enigmi del visibile
Presentazione di Eric Clémens

 

Innanzitutto chi è Max Loreau?[1] Un filosofo, un poeta, un critico d'arte? Tutto ciò e nulla di tutto ciò. Poiché Loreau, come non ha voluto fissare la propria esistenza in una funzione (professorale), così non ha voluto limitare la propria scrittura a un genere. Un'unica ricerca l'ha ossessionato: quella dell'invenzione, della venuta alla luce, della genesi del fenomeno. Un modo, se si vuole, di penetrare nella più radicale interrogazione del mondo, dell'Ereignis (evento e accadimento, secondo Heidegger), del sorgere all'esistenza. Per accedervi, o piuttosto per favorire tale movimento originario, per nulla risolto in un passato che basterebbe ritrovare per retrogradazione, ma che esige una formazione, una progressione che è nello stesso tempo una finzione, tutti i mezzi furono validi per Loreau: la lettura creatrice di Platone o Hegel, della pittura di Jean Dubuffet o della poesia di Michel Deguy, la scrittura selvaggia delle poesie, e soprattutto l'azione pianificata dell'autogenerazione nel dire smisurato della genesi del mondo (la sua opera principale, apparsa postuma, Genèses, annunciata da un'altra opera di metodo - ma il metodo è già il cammino - La genèse du phénomène[2]).

In tal modo, per Loreau, la nascita del mondo non è separabile dal nostro stesso venire al mondo, attivo, generatore e creatore. Ciò significa che, nell'immenso compito della generazione, l'autogenesi è fondamentale: essa deve, insieme alla lingua, far nascere il corpo stesso che costituisce la nostra unica via d'accesso nel mondo. Di fronte a questo enigma del corpo costretto all'autogenerazione, la pittura mette dunque in opera l'esperienza stessa della nascita della vista e della sua separazione rispetto agli altri sensi, ossia la prima formazione del corpo nella sua "voluminosità" (parola che condensa il volume e la luminosità).

Il libro da cui è tratto il testo che segue si intitola propriamente La peinture à l'_uvre et l'énigme du corps. Esso raccoglie tre testi: il primo, a proposito di Henri Michaux, mette a confronto linguaggio poetico e linguaggio pittorico; il secondo, scritto a ridosso del Maggio '68, a partire dall'aforisma di Dubuffet: "l'arte è anticultura", tenta di pensare le condizioni sovversive della creazione artistica; il terzo infine, Le peintre, la toile et le corps (suite), di gran lunga il più ampio e, a mio parere, il più incisivo, tratteggia la genesi del fenomeno pittorico: spazio, corpo, vista, che sono al contempo un generarsi del pittore, della tela e dell'arte.

Le corps en représentation (Autour d'une peinture de Magritte) costituisce la quarta e ultima parte del testo. L'insieme affronta "l'atto di dipingere", e dunque tratta del pittore in quanto attore che scopre, insieme all'enigma della formazione della vista, il proprio enigma. Quale? Quello di un pensiero che esperisce il proprio corpo e il suo riflettere - nella duplice accezione del termine: come linguaggi che si cercano e come immagini che si specchiano. Per fare questo, il pittore deve affrontare la perdita della vista nell'andirivieni tra il paesaggio e la tela, tra l'immagine del reale visibile e l'immagine dell'irreale da formare, ancora invisibile. Ciò che si produce è un autentico andirivieni, poiché il sensibile visto (del paesaggio) e l'intelligibile da vedere (del quadro) si scambiano le loro qualità: il dipingere traspone il sensibile dalla natura, resa irreale o intelligibile sulla tela, al sensibile del quadro, segnato dai tratti corporei e materiali dell'azione del dipingere, inizialmente fissato nell'irreale o nell'intelligibile. La creazione pittorica si rivela allora in gioco nei movimenti del corpo che volge la schiena al paesaggio, nasconde a se stesso la vista esteriore, si rivolge verso la tela e, ovviamente, con gli occhi, la mano e il pennello, compie i gesti - invenzioni, tratti, coloriture - della pittura. Allo stesso tempo, il volume del corpo e del mondo, tanto naturale che artistico, appare in piena luce, suscitato fondamentalmente da questo movimento di avanti e indietro, di faccia e di schiena.

Detto altrimenti, nell'esperienza attiva del dipingere, la genesi del fenomeno - tanto del quadro che del pittore e di ciò che questi vede - si produce grazie a movimenti di rivolgimento che sono al contempo di distanziamento. La creazione è una conversione, una versione concomitante del reale che si scopre, che nasce grazie al centro del corpo come scarto e legame, intersezione, finzione, arte. L'analisi de Les liaisons dangereuses di Magritte si rovescia a sua volta, con brillante penetrazione, su quella del pittore medesimo.



[1] 1 Max Loreau (1928-1990) insegnò filosofia moderna ed estetica all'Université Libre di Bruxelles dal 1964 al 1969, quando decise di dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Oltre ai lavori filosofici e di critica d'arte ricordati più avanti, bisogna menzionare tra le sue opere letterarie e poetiche: Cri. Éclats et phases (1973), Nouvelles des êtres et des pas (1976), Chants de perpétuelle venue (1977), apparse tutte presso Gallimard, Florence portée aux nues (Paris, L'Astrée, 1986) e L'épreuve (Saint Clément, Fata Morgana, 1989, di cui Adriano Marchetti ha fornito la traduzione italiana in "Origini", IX, 25, 1995). Per un'introduzione all'opera di Max Loreau si possono consultare il numero monografico di "Francofonia" (41, autunno 2001), Max Loreau. La quête de l'imprévisible, a cura di A. Marchetti, e l'antologia di saggi e articoli, M. Loreau, De la création. Peinture, Poésie, Philosophie, Bruxelles, Labor, 1998. Entrambi i volumi contengono un'ampia biblio­grafia.

 

[2] Pubblicati rispettivamente presso le edizioni Galilée (Paris, 2001) e Minuit (Paris, 1989).

 

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