18/1998
Studi di Estetica
III serie
anno XXVI, fasc. II

Elisabetta Di Stefano
Leon Battista Alberti e l’estetica

 

 

 

È recentemente uscito il primo volume della rivista "Albertiana",[1] dedicata al grande umanista e teorico dell’arte fiorentino. Questa circostanza, se da un lato conferma il crescente interesse che in questi ultimi anni viene prestato a Leon Battista Alberti, dall’altro induce ad una spiacevole constatazione riguardo la diffidenza che, ancora oggi, il mondo accademico dell’estetica nutre nei confronti di questo teorico, che pure ha giocato un ruolo significativo nella storia di tale disciplina. Infatti, se scorriamo velocemente l’indice della rivista, vediamo che diversi studiosi[2] si sono occupati di aspetti specifici del pensiero e dell’opera albertiani, ma l’approccio è sempre quello dell’italianista o dello storico dell’arte: manca uno studio che affronti l’autore da una prospettiva teorica e filosofica.

La causa di questa diffidenza, come è noto, è riconducibile al pregiudizio scientifico, ancora purtroppo alquanto diffuso, secondo cui l’estetica è una disciplina filosofica nata e sviluppatasi nel Settecento. Inutilmente cercheremmo il nome di Alberti nella Geschichte der Aesthetik als philosophischer Wissenschaft[3] (1858) di Robert Zimmermann, il primo storico dell’estetica, il quale non prende affatto in considerazione l’intero periodo che va dal III al XVIII secolo, in quanto, dopo Platone, Aristotele e Plotino e prima dell’avvento di Baumgarten, non trova "materiale filosofico" pertinente al suo modello storiografico. Un passo avanti si fa con Croce, che dedica un capitolo alle "Idee estetiche nel Medioevo e nel Rinascimento" e nomina due volte Alberti, ma ne dà un’interpretazione riduttiva e distorta. In realtà, Croce rimane vittima della sua visione pregiudiziale di un’estetica come "Scienza dell’espressione" nata con Vico e, pur dedicando un capitolo al Rinascimento, ritiene che "idee fondamentalmente nuove, nel dominio della scienza estetica, non sorgono ancora".[4] Per questo motivo non comprende l’importanza del ruolo giocato da Leon Battista Alberti nella nascita della teoria dell’arte, e lo definisce semplicemente un autore di "manuali tecnici intorno alle arti";[5] inoltre, travisandone il pensiero, lo accosta a Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, come continuatore della tradizione mistica e cultore di Platone.[6]

La situazione non cambia se ci rivolgiamo a opere più recenti, dove non è sempre facile trovare sezioni dedicate al Rinascimento oppure, quando ciò accade, ci si sofferma più sulle poetiche cinquecentesche che non sulla teoria dell’arte del Quattrocento, come nel volume I di Momenti e problemi della storia dell’estetica o nel Trattato di estetica curato da Dufrenne e Formaggio.[7] Al contrario, basta sfogliare un qualsiasi testo di letteratura italiana o di storia dell’arte per trovare ampio spazio dedicato all’Alberti. Questo è dovuto a un generale disinteresse della filosofia per la teoria delle arti e, in specifico, alla diffusa tendenza a considerare l’estetica una disciplina sorta nella modernità, con Vico, Baumgarten o Kant.[8]

Fortunatamente, oggi questa impostazione di studi è stata rivoluzionata dal nuovo metodo inaugurato da Tatarkiewicz,[9] grazie al quale non solo l’orizzonte dell’estetica si è dilatato fino a comprendere anche i periodi storici antecedenti al Settecento, ma soprattutto si è compreso che ogni epoca articola i saperi secondo forme proprie, riorganizzando i paradigmi concettuali in complessi rapporti di tradizione-innovazione. La soluzione adottata dallo studioso polacco consiste nel rifiutare qualsiasi modello teorico prestabilito, per ricostruire, invece, i percorsi attraverso cui i concetti estetici si sono trasformati, presentandosi, di volta in volta, mimetizzati sotto altre forme. Questo metodo, inusitato nella storiografia, permette di analizzare ogni periodo iuxta propria principia e di individuare, in ogni epoca, tutte le idee che hanno qualche influenza sui problemi estetici, anche all’interno di altre discipline; inoltre consente uno sguardo d’insieme sulla situazione delle teorie dell’arte (come abbiamo visto, raramente prese in considerazione) e dell’estetica nei vari momenti storici, in modo da presentare un quadro complessivo ed esauriente anche di quei periodi in cui si manifesta una sfaldatura tra l’estetica filosofica e quella implicita nelle opere d’arte.

Tuttavia, se negli ultimi anni questo nuovo metodo sta operando una lenta, ma sensibile trasformazione nel panorama storiografico, il terreno dell’estetica rinascimentale rimane tuttora poco investigato e, al di là degli studi di Tatarkiewicz e delle opere già menzionate, gli unici contributi significativi in questo campo provengono da due filosofi che si sono occupati di Alberti e, più in generale, della filosofia dell’Umanesimo da prospettive diverse, ma complementari: Eugenio Garin da un punto di vista storico; Ernesto Grassi da un punto di vista teoretico.[10]

Innumerevoli sono i contributi di alto valore scientifico, volti alla ricostruzione di figure anche minori e all’analisi della vita e del pensiero della civiltà umanistica, che si devono a Eugenio Garin, ma in questa sede interessa soprattutto sottolineare il suo apporto ad un’interpretazione più completa ed organica dell’opera albertiana.[11] Come è noto, infatti, a lui si deve non solo la scoperta di un manoscritto contenente alcuni libri, fino ad allora sconosciuti, delle Intercoenales di Leon Battista Alberti, ma anche l’aver messo in luce l’importanza di questo testo, raramente preso in considerazione se non come opera poetica, giocosa, da leggere per divertimento, inter coenas et pocula. Le Intercoenales, insieme agli Apologhi e al Momo, rientrano in quella che solitamente è definita la produzione lucianea di Alberti, in quanto influenzata dallo spirito e dall’ironia dello scrittore samosatense: merito di Garin è stato quello di aver sottolineato il profondo significato filosofico di queste opere, rimaste spesso oscure a causa del loro carattere allegorico,[12] e di aver avviato una lettura più unitaria e complessiva dell’Alberti, che, per la sua poliedricità, fu capace di esprimersi sia nel linguaggio chiaro e razionale dei trattati d’arte, sia in quello metaforico e allegorico delle opere lucianee.

In questa direzione, un notevole contributo alla rivalutazione di tali opere "filosofiche" albertiane e, più in generale, del linguaggio poetico e retorico in età umanistica è stato dato da Ernesto Grassi.[13] Come è noto, egli, contrapponendosi ad una tradizione di pensiero di tipo razionalistico che a partire da Cartesio ha caratterizzato il pensiero moderno, ha individuato nell’Umanesimo un modo di filosofare incentrato più sulle metafore, sulle favole, sui miti che sulle categorie della logica e ha sottolineato la ‘preminenza della parola metaforica’ rispetto a quella logico-razionale. Quest’ultima, infatti, procedendo in modo sequenziale e astratto, risulta arida e povera; la prima, invece, si sviluppa attraverso percorsi intuitivi, cogliendo le analogie e le infinite potenzialità significative delle immagini.

Da questo breve excursus emerge chiaramente in che modo ed entro quali limiti i filosofi, ed in particolare gli studiosi di estetica, si siano interessati di Leon Battista Alberti; ma data la sterminata letteratura che ha per oggetto il nostro autore, resta ora da chiedersi chi e secondo quale prospettiva di ricerca si sia invece occupato dell’umanista.[14] In linea di massima, si possono individuare due indirizzi: quello costituito dagli italianisti e quello degli storici dell’arte e degli architetti. Da entrambi i lati si contano lavori di grande valore scientifico per la ricostruzione storica delle vicende biografiche e dell’attività letteraria e artistica,[15] per l’attenta analisi filologica,[16] per le nuove chiavi di lettura individuate,[17] per l’interesse verso aspetti particolari e specifici dell’opera albertiana: saggi che, tramontato ormai l’ideale burckhardtiano di un Alberti uomo universale e tipico del Rinascimento,[18] cominciano a fare luce sui lati più oscuri e contraddittori dell’umanista fiorentino.[19] Si tratta di studi degni di nota, che però, a causa anche della poliedricità dell’autore, si limitano inevitabilmente ad un solo aspetto della sua attività, contribuendo così a creare un dualismo tra l’Alberti letterato e l’Alberti artista; inoltre anche in quest’ultimo caso si tratta il più delle volte di studi di carattere tecnico o storico-artistico, carenti di prospettiva teorica e filosofica. Così alla fine ci troviamo di fronte a questa conclusione: chi si occupa di estetica non si occupa di Alberti e, viceversa, chi si occupa di Alberti non si occupa di estetica.

In realtà vi sono dei saggi sia italiani sia stranieri che fanno riferimento già nel titolo all’estetica albertiana, ma spesso, presupponendo un aprioristico sistema dottrinale, cadono in pregiudizi filosofici che talvolta determinano interpretazioni fuorvianti e anacronistiche. Infatti, in generale gli studiosi che hanno voluto dare una lettura filosofica dell’Alberti lo hanno accostato, seppur in varia misura, all’unica corrente di pensiero forte in quel periodo: il neoplatonismo.[20] Così la Behn, secondo la quale le teorie di Alberti, lungi dall’aver carattere empirico, costituiscono una Kunstphilosophie intesa a dimostrare la necessità della produzione artistica e, per la tendenza a dare alla forma armonica un contenuto ideale, manifestano una certa inclinazione all’idealismo di Plotino.[21] Sulla stessa scia prosegue Flemming, per il quale Alberti diventa addirittura "Schüler Platons und Plotins". Secondo la sua interpretazione tutte le considerazioni sull’utilità, l’ornamento, l’imitazione rientrano nella parte negativa dell’estetica albertiana, mentre la parte positiva è costituita dalla fondazione di un’estetica critica di tipo kantiano, che costituisce la vera Aesthetik, contrapposta, secondo un impianto che si rifà alle teorie di Max Dessoir, alla Kunstwissenschaft.[22]

Le poche pagine del Guzzo dedicate all’estetica albertiana si limitano, in realtà, ad un confronto tra la teoria pittorica di Alberti e quella di Leonardo e, dopo aver constatato l’accettabilità sia dei principi enunciati da Alberti sia dei loro opposti, conclude che "non possono essere assunti come principi generali dell’arte, ma come principi speciali di un’epoca artistica: il Rinascimento", mostrando così, ancora una volta, una concezione dell’estetica come sistema teorico aprioristico e universale.[23] Contro questo approccio interpretativo polemizza Santinello, per il quale non bisogna accostarsi all’Alberti con un concetto di estetica rigidamente prefissato; inoltre egli lamenta il fatto che gli studi sull’estetica di Alberti si basano sui testi espressamente dedicati all’arte, mentre, a suo parere, "l’estetica albertiana non va disgiunta dalla morale, dalla politica, dalla scienza, dalla pedagogia, dalla visione generale della realtà che egli possiede ed esprime".[24] Quando però, alla fine del libro, Santinello si pone la domanda se "la concezione albertiana del bello e dell’arte sia da inscrivere nella storia dell’estetica o se, viceversa, essa esprima soltanto il gusto di un pensatore-artista e di un’epoca e sia solo un programma d’arte per il quale si debbano fornire regole e precetti",[25] si capisce chiaramente che anch’egli ha una visione precostituita dell’estetica come dottrina filosofica, e alla luce di questa valuta la validità teoretica delle idee albertiane.

Tra le monografie più recenti dedicate all’estetica di Alberti, ricordiamo quella di Mühlmann[26] che, di contro alle fuorvianti interpretazioni fornite secondo una prospettiva idealistico-kantiana, vuole essere un tentativo di riscoprire il vero significato del pensiero albertiano e di tutta la teoria estetica anteriore a Kant, di cui Alberti è un rappresentante particolarmente significativo. Prima della Critica del Giudizio, ovvero, secondo Mühlmann, prima della nascita dell’"estetica filosofica", è esistita un’"estetica normativa" che ha fornito precetti pratici sulle arti figurative e che, pur non essendo sistematica, non era priva di proprie categorie. Si tratta quindi di scoprire quali siano tali categorie, nel caso di Alberti individuate nella retorica antica, e di valutare in che rapporto stiano con i modelli da cui sono mutuate. Sebbene sia un approccio volto ad una corretta interpretazione dei problemi, il confronto tra le due fasi dell’estetica rimane sempre sullo sfondo e, se da un lato può aprire un dialogo interessante tra due diverse prospettive, dall’altro può talvolta impedire una lettura esente da pregiudizi. Infatti, dimenticando che la divisione tra etica ed estetica è post-kantiana, Mühlmann basa la sua analisi principalmente sugli scritti d’arte e, pur facendo occasionali riferimenti anche ad altre opere, ritiene che gli scritti etico-letterari abbiano scarso peso nell’estetica albertiana.

Da presupposti del tutto diversi prende spunto il saggio di Jarzombek,[27] che tenta di interpretare l’estetica di Alberti proprio attraverso la rilettura dei così detti "scritti minori", in una prospettiva volta a valutare il linguaggio allegorico albertiano che potrebbe aprire la strada ad una visione più unitaria di Alberti letterato e artista.[28] In questo libro Jarzombek si propone di dimostrare come la separazione fra i trattati d’arte e gli scritti etici e letterari, solitamente attuata dagli studiosi, non solo può portare ad una ricostruzione distorta della filosofia di Alberti, ma contraddice il principio stesso che sta a fondamento della sua speculazione. Se tuttavia per certi aspetti può esser vero che la penetrante satira sociale del Momo riveli molto di più riguardo alle idee di Alberti sull’arte e sulla società che non il serio De re aedificatoria,[29] in realtà il libro di Jarzombek non riesce alla fine a dare un grosso contributo all’interpretazione dell’estetica albertiana, in quanto, pur partendo da presupposti validi, non chiarisce il differente valore e le oscillazioni di significato con cui i moltissimi concetti etico-estetici si presentano nelle varie opere di Alberti. Per fare solo un esempio, citiamo il caso della concinnitas (ma potremmo dire lo stesso per il concetto di decorum, o per tanti altri ancora), una nozione di origine retorica ma di valenza etica, prima ancora che estetica, e che ricorre, sia esplicitamente che implicitamente, un po’ in tutti gli scritti dell’umanista, assumendo, a seconda dei vari contesti, sfumature diverse: in senso metrico-musicale è adoperata nei libri Della famiglia, in senso retorico nell’intercenale Defunctus; valore morale assume nel Pontifex, ma già nel Momo acquista connotazioni estetiche, in relazione alla bellezza architettonica del mondo e alla capacità poietica dell’artista, contrapposta alla vanità verbosa del filosofo; infine nel De re aedificatoria, pur risentendo ancora delle origini ciceroniano-retoriche, si trasforma in una vera e propria categoria estetica, anzi nella legge suprema che regola la perfezione dell’opera d’arte.[30]

Qualche contributo significativo per lo studio dell’estetica albertiana si può trovare in saggi isolati, alcuni dei quali raccolti nel catalogo della mostra mantovana;[31] ma tra le monografie mi sembra che quella di Panza dia un’impostazione diversa e innovativa all’analisi delle teorie dell’umanista fiorentino.[32] È interessante rilevare che questo testo, a differenza dei precedenti, rinuncia nel titolo a qualsiasi anacronistico riferimento all’"estetica" di Alberti, dato che questa disciplina nasce e viene battezzata solo nel Settecento, ma non rinuncia ad una lettura globale e complessiva dell’umanista che tenga conto sia della sua attività di letterato, sia di quella di teorico e artista. Questa "ritrovata" unità, per usare le parole di Dino Formaggio,[33] è stata resa possibile grazie al fatto che Panza ha arricchito i suoi studi di architettura con una preparazione estetologica che gli ha consentito un approccio teorico, sia ai testi letterari sia ai trattati d’arte, di cui spesso gli italianisti e gli storici dell’arte si rivelano carenti. Così la prima parte del saggio si sofferma sulla "filosofia" di Alberti, analizzando le metafore e le allegorie che animano gran parte della sua produzione e la simbologia ermetica di alcune intercenali; la seconda parte invece si incentra sulla teoria delle arti, investigando le origini del concetto di bellezza, la disciplina dell’arte, i nessi fra la retorica e le arti figurative, i rapporti fra queste e le scienze matematiche. Si tratta di una lettura aperta a tutte le opere dell’Alberti e volta a ricostruire i nessi diacronici che le legano ai modelli antichi. Ne viene fuori un complesso sfondo di influssi e suggestioni, che Alberti trasse da varie fonti e seppe poi rielaborare in maniera autonoma e spesso originale, rendendo difficile l’ermeneusi dei moderni studiosi che, vittime di una cultura specialistica, finiscono col dare un’interpretazione dell’umanista da punti di vista settoriali e, il più delle volte, rimangono ciechi ad altri e diversi orientamenti che potrebbero contribuire ad una più unitaria comprensione dell’autore.[34] Forse una soluzione a queste difficoltà ermeneutiche può esser data proprio adottando una prospettiva estetologica nello studio del pensiero e dell’opera di Alberti, in quanto questo tipo di approccio, se libero da qualsiasi preconcetto volto a dimostrare teorie già stabilite a priori, consente un’apertura ad idee provenienti da diversi ambiti disciplinari, secondo il modello proposto da Tatarkiewicz.

Questa prospettiva metodologica, che procede per nuclei concettuali, risulta particolarmente efficace per studiare un periodo come il Rinascimento, in cui le idee estetiche, lungi dall’avere ancora un loro luogo teorico definito, si confondono con altre forme di sapere e si mascherano sotto altri nomi. Così, se per Alberti non si può parlare di "estetica" come sistema filosofico, si possono però individuare nel suo pensiero una serie di nozioni che ad un certo punto della loro storia sono diventate fondamentali per l’estetica. Abbiamo già accennato alle diverse oscillazioni semantiche del concetto di concinnitas che, mutuato da Cicerone, fu poi rielaborato in modo originale da Alberti, con profonde conseguenze sulla successiva teoria dell’arte; e molto si potrebbe dire anche riguardo a quello di decorum o aptum, che sta ad indicare ciò che è conveniente, funzionale, opportuno, e che dall’originario ambito retorico sconfina in quello etico-sociale, per poi assumere connotazioni estetiche ove si intreccia con il concetto di Bello, che per Alberti è tutto ciò in cui ogni elemento occupa il posto più adatto e appropriato, in modo che nulla si possa togliere, aggiungere o mutare.[35] Si pensi poi alla nozione di ars, che Alberti intende ancora, secondo la tradizione di matrice aristotelica, come competenza produttiva, tanto da accostare l’arte dell’architetto a quella del medico e del nauta,[36] avvertendo tuttavia nello stesso tempo come vi siano arti che si distinguono dalle altre, in quanto richiedono un particolare impegno intellettuale da parte dell’artefice e che pertanto meritano di essere annoverate fra quelle liberali. È significativo che egli senta l’esigenza di dedicare a ciascuna delle tre arti figurative un trattato in cui, affrontando per la prima volta la materia da un punto di vista teorico, rivendica la preparazione scientifica dell’artista e la necessità di un metodo rigoroso per ogni disciplina (ad esempio la costruzione prospettica in pittura, o l’uso del finitorium in scultura). Inoltre, sebbene finora sia passato inosservato, si fa già strada in Alberti una più unitaria e moderna nozione di scultore, nella quale vengono in qualche modo incluse le varie lavorazioni della creta, del marmo, dei metalli, tradizionalmente considerate distinte perché legate a tecniche e materiali diversi. Certo, l’arte è ancora considerata priva di alcun rapporto "istituzionale" con la bellezza analogo a quello che si è venuto a stabilire in età moderna, attraverso la mediazione del gusto o di qualche altra facoltà preposta all’esperienza estetica, eppure Alberti parla di una particolare facoltà dell’animo insita in tutti gli uomini che consente, a dotti e ignoranti, di cogliere il Bello. La percezione della bellezza per l’umanista è un’esperienza sensoriale, specificamente visiva, accessibile a tutti, ma la sua comprensione, la comprensione delle ragioni per cui ad esempio apprezziamo un edificio, è riservata a pochi: soltanto agli esperti. D’altro canto, la stessa nozione di bellezza si rivela così contraddittoria che Alberti non sa darne una definizione univoca e precisa, oscillando tra una concezione strutturale e una ornamentale del Bello. Queste variazioni, riscontrabili nello stesso De re aedificatoria, si fanno particolarmente evidenti nel confronto tra le varie opere, in quanto la nozione di Bello, ricorrendo in contesti diversi, si carica di sfumature che mettono in luce tutta la complessità di questa "idea" albertiana.[37] Le ambiguità sono connesse in gran parte alle varianti sinonimiche adoperate dall’umanista, che talvolta comportano un’oscillazione semantica del concetto: infatti se pulchritudo rimanda ad un’idea di Bello in senso strutturale e oggettivo, ovvero se è intesa come armonia tra le parti, secondo la Grande Teoria,[38] le parole venustas e amoenitas fanno riferimento ad una nozione diversa, più vicina a "leggiadria" e connessa alla sfera della "grazia",[39] che un ruolo importante giocherà nell’estetica dei secoli seguenti. Di conseguenza, la tradizionale immagine di Alberti come teorico di un Bello oggettivo comincia a manifestare alcune incrinature, lasciando intravedere una nozione poliedrica che, aprendosi al rapporto col fruitore, manifesta elementi di soggettività.

Si tratta di questioni complesse che in gran parte aspettano ancora di essere chiarite, e di cui solo una lettura esente da pregiudizi teorici può mettere a fuoco il reale significato nel contesto storico-culturale in cui si presentano. Questa prospettiva di ricerca può essere produttiva in due direzioni: da un lato contribuendo ad una più profonda comprensione del pensiero dell’umanista fiorentino, dall’altro riscoprendo, nel Rinascimento, idee-chiave che, attraverso percorsi tortuosi e talvolta nascosti, costituiscono snodi fondamentali di quel paesaggio teorico a cui nel ‘700 sarà dato il nome di "estetica".

Note:

[1] Si tratta della rivista della Société Internationale "Leon Battista Alberti": "Albertiana", tomo I (1998), edita da Leo S. Olschki.
[2] F. Choay rilegge il De re aedificatoria alla luce dell’architettura odierna, C. Grayson prende in considerazione i rapporti di Alberti con l’antico, L. Boschetto propone una nuova datazione per il De commodis, M. Ciccuto si sofferma su un’iscrizione di Andrea Mantegna, P. Souffrin esamina l’Alberti geometra e matematico, D. Arasse invece il teorico della pittura, A. Cassani propone un’interpretazione dell’emblema albertiano, M. Martelli si sofferma sul Momo, M. Carpo sulla Descriptio urbis Romae, e G. Gorni sugli editori e i copisti dell’Alberti volgare.
[3] R. Zimmermann, Geschichte der Aesthetik als philosophischer Wissenschaft, Wien, W. Braumüller, 1858 (rist. an. Hildesheim-New York, Olms, 1973). Egli dedica solo le pagine 52 e 53 ad un velocissimo esame dell’influsso esercitato, dal Medioevo fino al Seicento, dalla filosofia di Platone, Aristotele e Plotino.
[4] B. Croce, Estetica, Milano, Adelphi, 1990, p. 223.
[5] Ibid., p. 578.
[6] Ibid., p. 222. In realtà l’interpretazione in chiave neoplatonica del pensiero albertiano è stata molto frequente, come vedremo, tra gli studiosi tedeschi soprattutto di inizio secolo.
[7] Il saggio di C. Vasoli, L’estetica dell’Umanesimo e del Rinascimento (in Aa. Vv., Momenti e Problemi di Storia dell’Estetica, vol. I, Milano, Marzorati, 1959, pp. 325-433) si sofferma soprattutto sulla rinascita delle humanae litterae e sul problema dell’imitazione poetica, dedicando poco spazio alla sfera artistica; gli stessi argomenti sono, per lo più, ripresi dall’autore in un altro saggio, Estetica e letteratura fra Quattrocento e Cinquecento (in Trattato di estetica, a cura di M. Dufrenne e D. Formaggio, Milano, Mondadori, 1981, pp. 111-64). In questo volume collettaneo, ancora una volta, la riflessione sullo sviluppo della teoria dell’arte non è affidato ad un filosofo, ma ad uno storico dell’arte, Ch. Bourroughs (La riflessione sull’arte del Rinascimento, in Trattato di estetica, cit., pp. 83-110), il quale finisce per non conferire il necessario spessore teorico alla problematica relativa alla nascita della trattatistica e alla classificazione delle arti figurative.
[8] Il problema della nascita dell’estetica e del suo fondatore costituisce un’annosa questione sulla quale sono corsi fiumi di inchiostro. In questa sede preme sottolineare che, poiché i moderni manuali considerano l’estetica una disciplina filosofica nata nel Settecento, battezzata da Baumgarten e perfezionata da Kant (cfr. G. Vattimo, L’estetica moderna, Bologna, Il Mulino, 1977; S. Givone, Storia dell’estetica, Roma-Bari, Laterza, 1991; F. Restaino, Storia dell’estetica, Torino, UTET, 1991), non prendono in considerazione le idee estetiche dei periodi precedenti. Diversa è l’impostazione della Storia dell’estetica (Bologna, Il Mulino, 1995) di S. Zecchi e E. Franzini, che, se ha il merito di considerare l’antichità, il Medioevo e il Rinascimento, finisce però per ridursi ad una raccolta antologica di scritti estrapolati dal contesto; mentre per molti aspetti pregevole è la più recente Estetica. I nomi, i concetti, le correnti, a cura di E. Franzini e M. Mazzocut-Miss (Milano, Mondadori, 1996), che dedica alcune pagine anche al Rinascimento, ma non si sofferma a chiarire le complesse problematiche teorico-artistiche che si sviluppano in quel periodo.
[9] W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, Torino, Einaudi, 1979-80, volume III, e Id., Storia di sei Idee. L’Arte, il Bello, la Forma, la Creatività, l’Imitazione, l’Esperienza estetica, Palermo, Aesthetica, 1997.
[10] Ovviamente i principali contributi allo studio della filosofia e dell’arte del Rinascimento sono costituiti dai celebri saggi di Cassirer e Kristeller e dai lavori degli studiosi del Warburg Institute. In questa sede, però, ci limitiamo a indicare quei testi che si occupano della teoria dell’arte, e in particolare di Alberti, da una prospettiva estetologica e non da un punto di vista filosofico generale o secondo l’indirizzo iconologico.
[11] Tra i molteplici saggi che Eugenio Garin ha dedicato all’umanesimo, cfr. in particolare per Alberti Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVII secolo, Bari, Laterza, 1975; Venticinque intercenali inedite e sconosciute di L. B. Alberti, "Belfagor", XIX, IV (1964), pp. 377-96; Il pensiero di L. B. Alberti: caratteri e contrasti, "Rinascimento", XII (1972), pp. 3-20; Il pensiero di L. B. Alberti e la cultura del ‘400, "Belfagor", XXVII (1972), pp. 501-21.
[12] Gli Apologhi (1437) sono costituiti da cento brevissime favole in latino sul mondo animale e vegetale (cfr. trad. it. a cura di R. Contarino, Apologhi ed elogi, Genova, Costa & Nolan, 1984). Le Intercoenales sono una raccolta in undici libri di dialoghi e favole allegorico-morali in latino, redatti forse tra il 1421 e il 1439, la cui circolazione manoscritta fu parziale e frammentaria. La prima edizione dei libri allora conosciuti si deve a G. Mancini (Opera inedita et pauca separatim impressa, Firenze, Sansoni, 1890), mentre i rimanenti, scoperti da Garin nel 1964 in un manoscritto della biblioteca del convento di S. Domenico a Pistoia, furono da lui pubblicati prima su "Rinascimento" II, IV (1964), pp. 125-258, e poi in volume (Intercenali inedite, Firenze, Sansoni, 1965). Una sorte più fortunata ebbe il Momus sive de Principe, romanzo politico-allegorico in latino composto tra il 1443 e il 1450 e stampato a Roma nel 1520. Tra le edizioni critiche e traduzioni moderne ricordiamo quella di G. Martini (Bologna, Zanichelli, 1942) e quella più recente di R. Consolo (Genova, Costa & Nolan, 1986).
[13] Cfr. di E. Grassi, Potenza dell’immagine, trad. it. Milano, Guerini, 1979; Potenza della fantasia (1979), trad. it. Napoli, Guida, 1990; La preminenza della parola metaforica, trad. it. Modena, Mucchi, 1987. Su Alberti in particolare cfr. Id., La filosofia dell’Umanesimo. Un problema epocale (1986), trad. it. Napoli, Tempi moderni, 1988, e, scritto con M. Lorch, Umanesimo e retorica. Il problema della follia (1986), trad. it. Modena, Mucchi, 1988.
[14] In questa sede si fa riferimento soltanto alle principali monografie albertiane, pertanto non saranno presi in considerazione saggi, pur di grande interesse, che però esulano dalla questione affrontata.
[15] Dotato di una ricca documentazione e preciso nella ricostruzione storica delle vicende biografiche e letterarie è il libro di G. Ponte, Leon Battista Alberti umanista e scrittore, Genova, Tilgher, 1981, che, come dichiarato esplicitamente, si occupa solo dell’attività letteraria dell’autore; al contrario, la monografia di F. Borsi (Leon Battista Alberti. L’opera completa, Milano, Electa, 1989), più volte ristampata, prende in considerazione solo quella artistica, soffermandosi sia sui lavori architettonici, sia sui testi teorici e tecnici. Sulla teoria dell’architettura si incentra la monografia di G. Donati, Leon Battista Alberti. Vie et théorie, Bruxelles, Pierre Mardaga éd., 1989, mentre l’opera di C. Cancro, Filosofia e architettura in Leon Battista Alberti (Napoli, Morano, 1978) mira a conciliare il teorico delle arti con il "filosofo" lucianeo attraverso una lettura comparata del Momo e del De re aedificatoria.
[16] Si ricordino, in particolare, i significativi contributi del Grayson, ora raccolti nel vol. Studi su Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki, 1998.
[17] Cfr. R. Cardini, Mosaici. Il nemico dell’Alberti, Roma, Bulzoni, 1990.
[18] Per J. Burckhardt (La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1955) Alberti appariva come un personaggio tipico della nuova epoca, in aperta rottura con il medioevo: il genio universale che si cimenta in tutti i campi dell’attività umana. In questa direzione, cfr. J. Gadol, Leon Battista Alberti Universal Man of the Early Renaissance, Chicago, The University Chicago Press, 1969, e l’opera, per molti aspetti ancor oggi degna di nota, di P. H. Michel, Un idéal humain au XVe siècle: la pensée de Leon Battista Alberti, Paris, Les Belles Lettres, 1930.
[19] Cfr. P. Marolda, Crisi e conflitto in Leon Battista Alberti, Roma, Bonacci, 1988; R. Contarino, Leon Battista Alberti moralista, Caltanissetta, Sciascia, 1991. Anche gli storici dell’arte ultimamente hanno abbandonato gli studi di carattere generale per volgersi ad aspetti particolari dell’opera albertiana: cfr. A. Calzona e L. Volpi Gherardini, Il San Sebastiano di Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki, 1994, e il lavoro di G. Morolli e M. Guzzon, Leon Battista Alberti: i nomi e le figure, Firenze, Alinea, 1995, che si occupa di ricostruire l’apparato iconografico del De re aedificatoria.
[20] Sebbene molti studiosi abbiano dato di Alberti un’interpretazione in chiave neoplatonica, mi sento più concorde con coloro che hanno individuato nella retorica latina la fonte principale del pensiero albertiano. Infatti sebbene Alberti abbia avuto contatti con l’Accademia Platonica di Marsilio Ficino, le sue riflessioni mi sembrano lontane da qualsiasi visione idealistica o metafisica, anzi manifestano un carattere prettamente empirico. Lo scopo della teoria dell’arte, per Alberti, è quello di dare un fondamento pratico alla creazione e di conquistare alle arti figurative un posto tra le artes liberales, come rivelano i suoi iterati tentativi di sottolineare l’attività intellettuale dell’artista rispetto alla semplice manualità tecnica del faber. La metafisica neoplatonica si sofferma, in principio, sulla teoria della bellezza, e viene accolta nei trattati d’arte solo nel tardo Rinascimento, prima con Lomazzo e poi con Zuccari, quando viene affermata la provenienza divina della formazione delle idee nello spirito dell’artista. Su questa doppia tendenza presente nel Rinascimento, quella empirica di Alberti e della teoria dell’arte e quella metafisica di Marsilio Ficino e della teoria del Bello, cfr. il celebre saggio di E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1996.
[21] I. Behn, Leone Battista Alberti als Kunstphilosoph, Strasburgo, Heitz u. Mündel, 1911, p. 10. In realtà la Behn limita l’influenza plotiniana e rileva punti di contatto anche con i Pitagorici, Aristotele e Orazio, ma in alcuni passi giunge ad anacronistiche associazioni con Goethe, Schopenhauer ed Hegel.
[22] W. Flemming, Die Begründung der modernen Aesthetik und Kunstwissenschaft durch L. B. Alberti, Leipzig, Teubner, 1916.
[23] A. Guzzo, L’estetica di Leon Battista Alberti, in Idealisti ed empiristi, Firenze, Vallecchi, 1919, p. 106.
[24] G. Santinello, Leon Battista Alberti. Una visione estetica del mondo e della vita, Firenze, Sansoni, 1962, p. 203.
[25] Ibid., p. 252.
[26] H. Mühlmann, Aesthetische Theorie der Renaissance. Leon Battista Alberti, Bonn, Rudolf Habelt Verlag, 1981.
[27] M. Jarzombek, On Leon Battista Alberti. His Literary and Aesthetic Theories, Cambridge (Mass.)-London, The MIT Press, 1989.
[28] A questo proposito, mi si permetta di rinviare al mio Immagine e parola. Note sul linguaggio metaforico nelle Intercenali di Leon Battista Alberti, "Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia" dell’Università di Palermo, 9 (1996), pp. 85-96.
[29] M. Jarzombek, cit., p. XII.
[30] Sul concetto di concinnitas cfr. L. Vagnetti, Concinnitas: riflessioni sul significato di un termine albertiano, "Studi e documenti di architettura", 2 (1973), pp. 137-61; J. Poeschke, Zum Begriff der Concinnitas bei Leon Battista Alberti, in F. Buttner e C. Lenz (a cura di), Intuition und Darstellung. Erich Hubala zum 24 Marz 1985, München, 1985; R. Tavernor, Concinnitas o la formulazione della bellezza, in J. Rykwert e A. Engel (a cura di), Leon Battista Alberti, Milano, Electa, 1994, pp. 300-15.
[31] Si tratta della mostra organizzata a Mantova in occasione del centenario albertiano, nel 1994. Cfr. J. Rykwert e A. Engel (a cura di), op. cit.
[32] P. Panza, Leon Battista Alberti. Filosofia e teoria dell’arte, Milano, Guerini, 1994.
[33] D. Formaggio, Un Leon Battista Alberti ritrovato, introduzione a P. Panza, cit., pp. 9-16.
[34] Lo stesso Jarzombek (op. cit., p. VII) considera "sconsiderata" l’impresa di scrivere un libro su Leon Battista Alberti, poiché richiede una molteplicità di competenze (letterarie, filologiche, scientifiche, filosofiche, giuridiche, storiche e artistiche) raramente riscontrabili in un’unica persona.
[35] L. B. Alberti, De re aedificatoria, VI, 2, p. 446: "Definiremo la bellezza come l’armonia (concinnitas) tra tutte le membra, nell’unità di cui fan parte, fondata sopra una legge precisa, per modo che non si possa aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio".
[36] Ibid., p. 451.
[37] Attualmente mi sto occupando in altra sede delle complesse questioni, qui appena accennate.
[38] Tatarkiewicz (cfr. Storia di sei Idee, cit., p. 147) definisce Grande Teoria, in relazione sia alla durata sia alla portata, la dottrina classica del Bello come forma, proporzione e simmetria: "La teoria generale del bello formulata nell’Antichità affermava che la bellezza consiste nelle proporzioni delle parti. Per meglio dire: nella proporzione e nell’appropriata disposizione delle parti; o ancora più precisamente: nella grandezza, la qualità e il numero delle parti e nel loro rapporto reciproco".
[39] Si ricordi che nel termine "grazia" è implicita la capacità dell’oggetto di ingraziarsi in qualche modo lo spettatore. L’identificazione della bellezza con la grazia compare congiunta al tema della giovinezza e della forma corporea nel II libro del Della tranquillità dell’animo e al concetto dell’armonia delle membra nel De equo animante.

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