16/1997
Studi di Estetica
III serie
anno XXV, fasc. II

Marie-LuceDemonet
Ignoranti che compongono versi: a proposito della poesia spontanea

 

Contadini improvvisamente ispirati dalla luna, donne di modeste condizioni che d'un tratto conversano in una lingua straniera, analfabeti che profetizzano in versi, costituiscono un insieme che gli storici delle scienze e delle religioni classificano tra le curiosità prossime alla finzione. Questi prodigiosi artisti, che nulla destinava alle lettere, hanno attratto l'attenzione di medici e filosofi a partire dalla fine del Medioevo, sulla scorta di una tradizione che non sembra essere anteriore ai commentari ai Problemata di Aristotele, a quelli di Alessandro di Afrodisia o alle opere di medicina di Rhazes (ar-Razi). Senza ingenium, ma brutalmente investiti da un effimero genius, essi costituiscono alla fine del Rinascimento l'occasione di scontro tra differenti concezioni del genio letterario.

Simili fenomeni possono essere accostati alla precoce espressione artistica, che anche la nostra epoca conosce. Gli autori del passato hanno spesso commentato il caso di lattanti che profetizzano, per poi tacere, o di coloro che compongono versi nel sonno. La poesia ispira anche nazioni ignoranti o poco civilizzate, quali i Turchi o gli Indiani, come constata Sir Philip Sidney.[i] Un magistrato attento all'ordine e alla gerarchia sociale, Louis Le Caron, concede malgrado tutto una sorta di sensibilità umana minima in materia estetica, constatando che anche gli ignoranti ascoltano le favole con piacere.[ii] Montaigne definisce "anacreontiche" le canzoni composte dai suoi "Cannibali".[iii]

I testi qui posti a confronto sono stati scritti da medici e, quando questi cercano di spiegare il processo dell'ispirazione, presentano analisi simili a quelle dei trattati di retorica e di poetica. I casi che ci riguardano non appartengono all'ambito degli esempi classici di malati preda di "affezioni della testa" forniti da Galeno, come quello che si credeva attorniato da suonatori di flauto o quello che pensava di essere fatto di burro e temeva di fondere, o anche esempi come quello del "laureato di vetro", divenuto un personaggio di finzione in Cervantes. Non prenderemo in considerazione nemmeno l'inventario degli eletti che, secondo la tradizione pentecostale, si sono messi a "parlare in lingue", poiché soltanto questi riempirebbero un libro intero. Benché tali questioni siano evidentemente in rapporto tra loro, in particolare lo studio degli "ignoranti che compongono versi" chiarisce le cause della creazione eccezionale così come esse vengono comprese nel corso del Rinascimento, in stretta relazione con l'evoluzione delle coeve teorie dell'entusiasmo e dell'ingenium.

 

I due eroi sono anonimi: uno è lo zotico melanconico che componeva versi in funzione delle fasi della luna. Il suo caso viene descritto e analizzato da Antonio Guaineri, medico a Pavia nella prima metà del XV secolo:[iv]

 

Ho [...] veduto un certo zotico melanconico che con la luna crescente componeva canti ardenti, e che, una volta passata la combustione, circa dopo un paio di giorni, non profferiva parola letteraria fino a un'altra combustione. Mi fu detto che non aveva mai studiato le lettere.[v]

 

L'altro è il frenetico versificatore menzionato da Juan Huarte de San Juan nel suo Examen de ingenios para las sciencias (1575):

 

Di un altro frenetico potrei ancora affermare che in più di otto giorni mai pronunciò parola che non risultasse consonante, per lo più faceva una strofa rotonda e ben formata; ed essendo i presenti stupefatti di sentir parlare in versi un uomo che da sano mai seppe farlo, dissi che di rado accadeva di esser poeta in stato di frenesia a colui che lo era in sanità, perché il temperamento che il cervello possiede, quando l'uomo è sano, con il quale è poeta, d'ordinario deve disordinarsi nell'infermità e far cose contrarie.[vi]

 

All'inizio del XVII secolo, per spiegare la creazione letteraria spontanea ricorrendo tanto alla demonologia quanto alla patologia, il medico francese Jourdain Guibelet riprende questi due esempi, prima in un Discours philosophique (1603), e poi nel suo Examen de l'examen des esprits (1631),[vii] entrambi diretti contro Huarte; la tesi dell'intervento divino o demoniaco gli sembra in certi casi l'unica in grado di sfuggire a una impasse logica. La sua lettura di Guaineri e di Huarte presenta in effetti i limiti causalisti posti alla creazione letteraria intesa come "sintomo". Essa non è priva di relazioni con l'elaborazione delle tesi di Robert Burton nella sua Anatomy of Melancholy (terminata nel 1620), ma non pare che questi avesse letto né Huarte né Guibelet: egli conosce le tesi del medico spagnolo soprattutto attraverso l'opera di Antonio Zara (Anatomia ingeniorum, 1615)[viii] e ha abbondantemente utilizzato la Practica di Guaineri, che cita almeno una sessantina di volte. Il suo ricorso ai demoni è tuttavia meno evidente.[ix]

La confutazione di Huarte da parte di Guibelet, il suo parziale recupero delle antiche tesi di Guaineri e la affinità delle sue posizioni con quelle di Burton, permettono di valutare il ruolo dell'inesplicabile nelle teorie dell'ispirazione all'inizio del XVII secolo: una concessione minima, che si potrebbe definire ideologica, a una demonologia più cristiana che neoplatonica, sulla base di un dominante approccio di tipo fisiologico.

 

I. Sulla pluralità delle cause.

 

Comporre versi spontaneamente è considerato dal punto di vista medico come un sintomo. Questo termine del linguaggio medico, ancora raro all'inizio del XVI secolo, diviene d'uso corrente alla fine di esso per definire una specie di signum: nella tradizione galenica i signa (traduzione di semeia) sono gli indici più o meno certi di una malattia. Symptoma sostituisce signum, presso i medici attenti alla terminologia greca, per denotare una categoria di segni che fa parte di un insieme. In tal modo, una malattia non viene diagnosticata grazie a un solo sintomo, ma per mezzo di un insieme di sintomi. Rabelais tenta di adattare il greco al francese proponendo nel Quart Livre (1548/1552) il calco symptomates.[x] Un sintomo è altresì, secondo la logica stoica che ha ispirato Galeno, una categoria di signa fondata sulla relazione tra causa ed effetto. Si ha una manifestazione visibile o udibile a partire dalla quale si cercano di inferire una o più cause. In quanto sintomo o accidente, l'improvvisazione versificata e articolata può essere posta in rapporto con differenti cause, le quali, secondo gli autori e le loro scelte ideologiche, filosofiche o religiose, vanno dallo stretto fisiologismo a una generalizzata demonologia. Le posizioni estreme erano tenute dagli averroisti, rappresentati durante il Rinascimento da Pomponazzi a Padova e da Huarte nell'ambito che ci interessa, e da demonologi come Jean Bodin, che nella Démonomanie des sorciers (1580) riduce pressoché a nulla il ruolo della malattia dello spirito. L'interesse del testo di Guaineri consiste nel presentare tutte le opzioni sostenibili all'epoca senza prendere una propria posizione, mentre Guibelet conserva la spiegazione demonologica anche in nome della ricerca razionale delle cause.

Esponendo schematicamente il fenomeno della "composizione spontanea", si trovano da un lato le spiegazioni di ordine fisiologico, tra cui si annovera l'interpretazione astrologica che non sempre - tutt'altro - pertiene all'ordine della fede; dall'altro lato, l'intervento "demoniaco". Ma queste due spiegazioni principali si combinano, a seconda degli autori e delle dottrine, in tre modi: 1) soltanto il temperamento o equilibrio degli umori con quello dominante: se è ordinario, si ha la complessione; se è straordinario, si ha la crisi o distemperamento; che sia ordinario o critico, può essere connesso alla congiunzione astrale; 2) il temperamento come strumento degli spiriti, che questi siano buoni o malvagi; 3) soltanto gli spiriti.

L'attribuzione di un'inattesa eloquenza all'intervento dei "demoni" non è peculiare del neoplatonismo rinascimentale. Essa è già ben presente nella medicina medievale senza per questo implicare le altre spiegazioni. Nondimeno è noto che i mutamenti essenziali nella percezione delle malattie mentali in rapporto alle teorie dell'ispirazione dipendono dal contributo del neoplatonismo ficiniano. Nel De triplici vita, Ficino supera ampiamente le possibilità fornite dal succinto Problema XXX attribuito ad Aristotele[xi] per affermare, a partire dalla teoria astrologica e degli umori che pone l'accento sulla dimensione creatrice della bile nera, una dominanza melanconica che favorisce lo sbocciare di genii nell'ambito delle arti e delle lettere. Ma l'estensione delle capacità creatrici agli ignoranti, alle persone "meccaniche", ai fanciulli e alle donne si scontrava evidentemente con l'elitarismo dominante nei circoli eruditi del Rinascimento. Non era meglio, tutto considerato, attribuire queste originali ed effimere ispirazioni all'azione incresciosa - ma comoda nella sua incoerenza - di qualche demone imprevisto? Concedendo ancora al diavolo o a un genio ispiratore una parte di responsabilità nelle opere dell'arte o nella profezia, veniva protetto, più che la religione, il principio di superiorità dell'artista, che appare come una conquista del XVI secolo.

 

II. Ingenuità letteraria ed entusiasmo.

 

Queste cause sono modulate o amplificate da altri due fattori che derivano più dall'acquisito che dall'innato: uno è l'ars o lo studium; l'altro pertiene all'intenzione, al desiderio o allo zelo, grazie a una sorta di ispirazione provocata dall'artista medesimo. I dibattiti così frequenti sui rispettivi ruoli della natura e dell'arte rimandano incessantemente a queste cause e a questi parametri. È nota altresì la crescente importanza della rivendicazione "demoniaca" dei poeti della Pléiade e il loro attaccamento, almeno tra il 1549 e il 1560, a un "entusiasmo" letterario erede al contempo del fervor di Boccaccio, del furor di Cicerone e dei quattro furores di Ficino: basta dunque essere ben nati, sotto una buona stella e sotto l'influenza di un daimon propizio, per lasciarsi guidare senza sforzo sul cammino delle Muse? Le dottrine estetiche del Rinascimento non sono esenti da contraddizioni, e la teoria della "buona natura" o eufuismo si opponeva alla facile possibilità di essere poeta in un accesso febbrile. Essa doveva moderare la troppo pericolosa universalità dell'entusiasmo accidentale.

Guaineri viene presentato dai recenti editori di Ficino come il vero concorrente del filosofo fiorentino in questo ambito, poiché egli aveva enumerato le spiegazioni del fenomeno della composizione spontanea prima che Ficino ne fornisse una versione decisamente magico-platonica.[xii] Nel Tractatus de egritudinibus capitis, nel XIV trattato, Guaineri considera l'epilessia alla maniera di Ippocrate, riconducendo questa affezione a un disordine degli umori: secondo lui, l'attribuzione ai demoni da parte del volgo della malattia detta "sacra" deriva dall'ignoranza; la divinazione degli epilettici non è un'operazione infernale, non più di quanto lo siano le apparizioni dei succubi e degli zombies (zobiales) che si spiegano bene con l'"oppilazione dei condotti animali". Gargarismi e salassi bastano per venirne a capo.[xiii]

Il XV trattato è interamente consacrato alla melanconia e alla mania, con un primo capitolo che fornisce una definizione generale di queste affezioni:

 

La melanconia e la mania sono certe disposizioni straordinarie del cervello, a causa delle quali si produce una lesione della facoltà immaginativa o di quella estimativa o di entrambe al contempo.[xiv]

 

Tutto dipende da ciò che si intende con "straordinario". L'autore precisa che si tratta del raro, e non necessariamente del sovrannaturale, e rimanda ad Alessandro di Afrodisia e a Rhazes per lo studio dei casi di melanconia poetica (cap. 4). L'autore arabo infatti non fa che richiamare, nel Liber divisionum, l'associazione classica tra la luna crescente e la crisi epilettica.[xv] Quanto ad Alessandro di Afrodisia (o allo pseudo-Aristotele), egli afferma esattamente il contrario di ciò che dice il Problema XXX nel Libro II dei Problemata (38):

 

Gli uomini melanconici per la verità non possono ragionare e contemplare sanamente, poiché questo umore maligno occupa e guasta il cervello, che è sede dell'intelletto, per mezzo del quale possiamo comprendere ogni cosa.[xvi]

 

Opinione che Mathurin Heret, il traduttore francese del testo, si affretta a rettificare conformemente al problema di Aristotele:

 

Gli uomini melanconici per natura hanno abitualmente una buona intelligenza e sono versati nelle arti liberali, particolarmente nella poesia, e sono così dediti allo studio che muoiono sopra i propri studi per avervi troppo perseverato. [.] Ma per la verità una tale complessione è pericolosa, poiché nel corso del tempo, e insieme a una maniera di vivere disordinata, essa diventa eccessiva: come vi sono parecchi tipi di melanconia, così si patiscono parecchi e differenti tipi di passioni melanconiche. (ibid.)

 

Tralasciamo le possibili confusioni tra crisi di epilessia e crisi di melanconia adusta che può degenerare in frenesia. Inoltre è certo che tutti gli autori del Rinascimento ricordano il Problema XXX, che menziona espressamente dopo le Sibille un celebre caso di poesia spontanea, quello di Maraco di Siracusa.[xvii] Tale Maraco (divenuto Marco nelle traduzioni latine) può a buon diritto essere considerato come l'antenato dei casi che ci riguardano. La sua storia viene brevemente riferita da Aristotele:

 

Maraco il Siracusano era poeta ancora migliore nei suoi accessi di follia (hot'ekstaíe).

 

Ma, come fa giustamente rilevare Jourdain Guibelet nel suo Examen, ciò non significa affatto che, uscito dalla crisi, egli fosse completamente inconsapevole.[xviii] Guaineri in effetti non nota la sfumatura:

 

Aristotele dice che un certo Marchus, che non era poeta, diventando melanconico è diventato pure poeta.[xix]

 

Errore che Huarte non commette nel suo commento al caso:

 

E quale ne sia la ragione e la causa lo si prova chiaramente con un esempio, dicendo [con Aristotele] che Marco Siracusano era poeta di maggior pregio quando (per via dell'eccesso di calore nel cervello) stava fuori di sé, e quando tornava a temperatura moderata perdeva la capacità di versificare, ma restava più prudente e più saggio; di modo che non solo Aristotele ammette come causa principale di queste cose strane la temperatura del cervello, ma si dichiara in disaccordo con quanti affermano che si tratti di una rivelazione divina e non di una causa naturale.[xx]

Il quinto capitolo di Guaineri, In quo assignatur causa quare illiterati quidam melancolici litterati facti sunt, et qualiter etiam ex eis aliqua futura praedicunt (f° 41v°), si dilunga sul caso dei melanconici divenuti letterati e profeti, essendo questi due aspetti sempre connessi. Guaineri, come Ficino, ha in mente la demonologia di Avicenna, benché come molti altri medici dia prova di un platonismo assai moderato. Egli pone, nel caso dello zotico divenuto poeta sotto l'influenza della luna, e sulla scorta della sua stessa esperienza, l'intervento demoniaco come causa possibile, ma non universale. Inoltre, se il responsabile è un demone, ci sono poche possibilità che sia benigno. L'opinione di Avicenna non viene presentata come decisiva e viene riferita per prima la spiegazione umorale del Problema XXX. Prudentemente Guaineri dichiara di volersi limitare alla propria pratica medica e alle cause "probabili", esposte nel seguente ordine:

1. l'umore melanconico (da Aristotele);

2. i demoni (Avicenna);

3. la reminiscenza (Platone, Timeo);

4. l'influenza delle stelle sul temperamento (Tolomeo, Avicenna);

5. l'anima intellettiva che comprende senza discursus quando non è legata al corpo.

Anche se l'autore non fornisce informazioni sulla fonte dell'ultimo punto, non sarà difficile cogliervi l'influenza del platonismo. Egli tuttavia tempera questa spiegazione dell'estasi melanconica con una completa separazione dell'anima dal corpo, riferendola alla concezione aristotelica della tabula rasa: l'impressione di vuoto prodotta dall'estasi è simile a questo abbandono dell'anima. Il principio d'oblio - e dunque la disponibilità a ogni altra cosa - sembra compatibile con la terza spiegazione per mezzo della reminiscenza: dapprima si dimentica, per poi meglio ricordare l'essenziale. Siccome la discussione dell'autore su questo punto è discretamente astrusa, se ne riterrà almeno che Guaineri non prende posizione limitandosi a considerare che queste cause sono "possibili". Non si sa se siano cumulative o se si escludano vicendevolmente.

Molto più avanti, Huarte radicalizza questo annullamento rendendolo positivo: il blocco delle facoltà si rovescia in sblocco assoluto e in inversione del processo creativo. Esso, prima che venga narrato il caso del frenetico versificatore, viene descritto a proposito di un agricoltore buon retore (rhétoriqueur). Ma il processo di inversione è identico:

 

che se l'uomo cade in qualche infermità, a causa della quale il cervello all'improvviso modifica la sua temperatura (come nella mania, nella melanconia e nella frenesia), succede che egli perda in un attimo (se è saggio) quel che sa, e dica mille cose disparate; e se è ignorante, acquista più ingegno e abilità di quanta non ne avesse prima.[xxi]

 

Lo stesso principio viene ribadito a proposito del successivo esempio del frenetico versificatore, e dell'ultimo, quello del paggio che conversa con disinvoltura degli affari di Stato. Si riconosce il metodo huartiano, che consiste nel porre in evidenza, come avveniva per gli umori, un equilibrio tra le facoltà dell'anima e le qualità dello spirito che sono in rapporto con esse. Siccome l'eloquenza e la saggezza vengono attribuite rispettivamente all'immaginazione e alla facoltà estimativa, in periodi di crisi melanconica l'esacerbazione della prima produce una depressione della seconda e viceversa. Grazie a questo principio di compensazione, Huarte superava l'aporia aristotelica secondo cui non si può sapere senza una previa istruzione. L'ispirazione improvvisa del rozzo versificatore rimarrebbe in effetti alquanto misteriosa, se ci si attenesse alla separazione delle facoltà.

Il seguito dell'analisi di Huarte di questo caso non lascia più dubbi sul processo retorico della performance, benché questo sia inconscio:

 

Mi ricordo che la moglie di questo frenetico e una delle sue sorelle (che si chiamava Maria García) lo rimproveravano perché parlava male dei santi. Il paziente, irritato, così parlò a sua moglie: "Infatti bestemmio Dio [Dios], per causa vostra [de vos], e di santa Maria, per causa di Maria García, e di san Pedro, per causa di san Juan de Olmedo". E di seguito proseguì a nominare qua e là molti santi che producevano una consonanza con le altre persone che lo circondavano.[xxii]

 

Lo zotico si esprime dunque in omeoteleuti spontanei, facendo rimare grossolanamente i nomi dei santi e quelli dei suoi parenti, e Dios con vos. Lo fa sotto il dominio della passione, non solo della melanconia, ma anche dell'apostasia, poiché rima bestemmiando, o bestemmia rimando. Non c'era bisogna di arrivare a tanto per essere accusati di possessione demoniaca, ma Huarte non prende nemmeno in considerazione questa possibilità, presentando l'assonanza come il naturale effetto di una similitudine che non era affatto difficile cogliere.[xxiii]

L'idea che anche le persone più ignoranti possiedano una innata capacità di rimare è in pieno accordo con le contemporanee spiegazioni concernenti l'origine della poesia: all'inizio dei suoi Poetices libri septem (1561), Giulio Cesare Scaligero rammenta il canto amebèo dei pastori che rivaleggiano in amore e tutta la letteratura pastorale dell'epoca è invasa da pastori innamorati che conversano "spontaneamente" in versi. Per Robert Burton, i pastori rimano ancora naturalmente.[xxiv] Il rythmos era considerato come naturale quando una passione (amore, collera o furore marziale) ispirava qualcuno. La relazione tra questo primitivo afflato e la teoria dell'entusiasmo poetico seguiva da sé, non soltanto perché il neoplatonismo ficiniano la incoraggiava e ne dava una spiegazione, ma anche perché il Problema XXX poneva esplicitamente il nesso:

 

Ma molti, poiché il calore si trova più vicino al luogo del pensiero, sono colti dalle malattie della follia e dell'entusiasmo.[xxv]

 

Questa frase precede la menzione delle Sibille e di Maraco Siracusano e spiega come il calore provochi un moto dell'anima, grazie al quale non vi era alcun bisogno di fare intervenire degli spiriti. La parola entusiasmo aveva già un senso non-religioso nella Politica di Aristotele, dove veniva chiarito, a proposito dell'armonia musicale, con la parola kineseôs, "con una scossa".[xxvi]

Il Trattato sul Sublime di Longino, riscoperto verso la metà del XVI secolo, ma letto senza dubbio attraverso il prisma ciceroniano, poneva tuttavia in evidenza soprattutto la qualità visionaria dell'entusiasmo (15, 1). Recentemente alcuni studi su Ispirazione/Entusiasmo hanno confermato l'importanza dell'evidentia come figura centrale.[xxvii] Siccome la facoltà immaginativa era dominata dall'azione degli umori, si assumeva che le immagini potessero essere suscitate direttamente da quelli, a seconda della complessione naturale, o in stato di crisi. I casi di composizione poetica straordinaria pertengono quindi, piuttosto che alla visione, al concatenamento sonoro, e non si può attribuire propriamente all'influenza di Longino questo interesse per questo sublime metrico. Aristotele, Cicerone, Quintiliano, la Retorica a Erennio e il Trattato sullo Stile di Dionigi d'Alicarnasso fornivano già tutti i supporti teorici necessari alla concezione medica universale di Huarte. La sua rivoluzione è stata di collegare esplicitamente le localizzazioni cerebrali alle parti della retorica e della poetica, descrivendo così una sorta di programma innato agli ingenios di ogni tipo, capace di smistare i dati trasmessi alla rinfusa dalla memoria.

Né il lunatico, né il frenetico vengono presentati come invasi da una passione dominante: perché la sregolatezza produca effetti così spettacolari, è sufficiente che la combustione di questo umore sia messa in funzione al momento della crisi. Tutto dipende dal calore, fattore primordiale per l'equilibrio umorale. Già accolta all'epoca di Guaineri, questa spiegazione per mezzo della natura determinante della temperatura nelle diverse complessioni e negli accessi di creazione straordinaria costituisce ancora la causa efficiente nei sistemi di Huarte e di Burton.

 

III. L'artista improvvisato.

 

Questa vampata di calore, che nei meno dotati provoca momenti creativi, può essere accostata a una nozione della retorica, il kairós, che pure rende possibile il nesso tra l'innato e l'acquisito. Il kairós è il momento giusto, l'occasione di una dimostrazione improvvisata, offerta all'oratore da circostanze esteriori, come una causa da difendere senza preparazione, o al poeta dalla poesia detta "di circostanza". Nel profano la melanconia accalorata sostituisce la causa e la circostanza puramente biologiche. Questa causa, nella sua versione demonologica, compare pure in Jourdain Guibelet e in misura minore in Burton: permittente deo, gli spiriti possono investire un'anima senza preavviso. La relazione tra il kairós e l'ispirazione giunta per caso viene stabilita tanto nel Discours de l'humeur melancolique che nell'Examen, in cui l'autore definisce gli ignoranti momentaneamente ispirati "in certe occasioni" come i tychóntes di Aristotele ossia "coloro che sono guidati dal caso".[xxviii] Il demone, all'occasione, sa approfittare di una debolezza umorale. Il ragionamento di Guibelet sottolinea la convergenza tra le riflessioni retorico-estetiche, le spiegazioni mediche e la demonologia dell'epoca; quest'ultima infatti è ancora più evidente nell'Examen de l'Examen (1631).

Nella dimostrazione del Discours, Guibelet comincia riprendendo il caso commentato da Guaineri, dapprima assumendo dialetticamente la posizione pro: non bisogna attribuire tutto ai demoni come fanno le vecchie, poiché alcuni sintomi della melanconia cessano con la cura, come attesta Pietro d'Abano il Conciliatore (III, cap. 9).[xxix] Ma il capitolo seguente sviluppa gli argomenti contra e propone, fin dal titolo, di tenere una posizione intermedia:

 

È una follia voler attribuire tutto ai Demoni. È prova di ignoranza voler riferire agli umori una infinità di effetti, che sono impossibili per la natura. Terremo una posizione intermedia tra queste due opinioni e concluderemo che vi sono effetti che possono essere causati puramente dall'umore, altri dai Demoni, e altri dalle due cose insieme. (Discours, f° 265v°-266r°)

 

Guibelet ammette con i medici e gli averroisti l'enorme potere della melanconia:

 

È dunque una questione risolta che l'umore melanconico, da solo e senza il concorso dello spirito maligno, possa diminuire, depravare e annullare le operazioni dell'anima. Sicché laddove scorgeremo l'immaginazione, la ragione o la memoria semplicemente turbate, ossia depravate o annullate senza altri accidenti estranei e allontanate dai limiti della natura, non dovremo per questo sospettare qualche Demone, lasciandoci trasportare da una folle superstizione come delle vecchie. (ibid., f° 268r°)

 

Ma la causa demoniaca è comunque capace di produrre gli stessi effetti:

 

È pure certo che i Demoni possono agire in maniera simile: possedendo questa virtù di occupare tutti i sensi e di ostruire con certi vapori tutti i condotti che servono all'intelligenza, quibusdam nebulis implere omnes meatus intelligentiae, dice Sant'Agostino.

 

Opporsi significherebbe andare contro l'opinione del santo e negare l'onnipotenza di Dio: l'averroista sarebbe dunque obbligato a cedere su questo punto. Siccome questa osservazione non permette affatto di scegliere tra la causa naturale e la causa soprannaturale, bisogna trovare un ulteriore elemento che faccia pendere la bilancia dalla parte dei demoni e lasciare alla crisi i fenomeni ordinari:

 

ma siccome tali spiriti non possono accontentarsi di apportare mali ordinari, essi si manifestano immediatamente per mezzo di altri sintomi. (ibid. f° 268v°)

 

Ci si attenderebbe una chiara descrizione di questi "altri sintomi". Essa non viene fornita subito, come se l'autore volesse consolidare le tappe del suo ragionamento prima di giungere alla conclusione. Guibelet accetta l'esistenza di estasi poetiche, a condizione che esse non nascano dal nulla e siano una sorta di esagerazione di una capacità artistica già presente. Nel caso della composizione spontanea, perché vi sia un miracolo naturale o demoniaco, bisognerebbe che questa capacità non fosse mai esistita.

Il medico dovrebbe allora definire il poeta e soprattutto l'opposizione tra poesia e versificazione, sufficientemente sviluppata da Ronsard, che torna a più riprese sulla differenza tra i "poètes gaillards" e i tecnici del verso. Invece non se ne fa questione, perché Guibelet fissa la propria attenzione sul rapporto tra il temperamento e la crisi. A partire dalla conseguenza o dall'effetto verificabile - ovvero la produzione di versi -, egli considera soltanto due, e non più tre soluzioni, che permettano di risalire alla causa: la prima è che la melanconia attiva temporaneamente capacità latenti. Se non vi è alcuna capacità latente, è possibile, con l'intervento demoniaco, soltanto la seconda soluzione. L'opzione della sola melanconia, che "crea" delle attitudini, scompare. Nel primo caso, il lunatico doveva essere potenzialmente sapiente (come Marco Siracusano, che talvolta era poeta), e la luna o la melanconia non facevano che porre in atto ciò che in lui era in potenza: soluzione abbastanza vicina a quella di Scaligero e di Huarte, che ammettevano le crisi creative. Guibelet, nell'Examen, descrive in dettaglio il modo in cui concepisce un passivo tirocinio nelle arti liberali nel caso di zotici apparenti, soggetti alla melanconia:

 

Si incontrano certi uomini sognatori e apparentemente di poco spirito, i quali nondimeno notano e trattengono ciò che sentono dire, e serbano memoria di tutto ciò che giudicano degno di essere registrato, senza intenzione tuttavia di approfittarne; a motivo del fatto che sono zotici per condizione o per natura; o perché si divertono a parlare poco, come quei melanconici che non provano piacere che a intrattenersi sul soggetto dei propri pensieri. Quando sono soli, ruminano e conversano tra sé silenziosamente, o con lieve brusio; e se hanno interesse o inclinazione per qualche cosa, come per la poesia, dopo aver udito pronunciare versi e compreso che è necessaria la rima, essi si cimentano a rimare, nella loro fantasia, senza farne esibizione all'esterno. Cosicché capita che cadendo in delirio, a causa della febbre o altrimenti, il fuoco monti loro al cervello, e divengano più arditi e dicano sfrontatamente ciò che prima non osavano esprimere. Allora tutti restano stupefatti che queste persone rozze, stupide e prive di spirito, abbiano imparato in così poco tempo, e contro il loro carattere, a parlare con ornamenti e con scioltezza, come il primo di cui si fa menzione nell'Examen, o a comporre versi, come il secondo, o a parlare di affari di Stato, come il Paggio.

Il calore della febbre e il mescolarsi di alcuni umori o vapori melanconici rendono il sangue e gli spiriti più sottili, più pronti e più brillanti; e poiché vengono portati al cervello, che è la sede principale dell'anima, essi cacciano la vergogna e danno la baldanza per sciorinare ogni genere di invenzione. (Examen., pp. 173-175)

 

L'ignorante è di fatto un poeta che compone conformemente alla propria "inclinazione" una sorta di poesia latente. Guibelet ha raccolto la lezione di Huarte sull'importanza della memoria e della immaginazione nella fabbricazione del verso, pur rifiutando il suo principio della "natura abile". Ammette la forza inventiva del "parlare improvviso", moderna versione del kairós dell'Antichità, ma senza farla derivare meramente dalla buona natura.

La seconda soluzione non può che essere l'intervento demoniaco che permette di rendere possibile l'impossibile e presenta due vantaggi importanti: preservare l'onnipotenza divina dalla reale concorrenza di una Natura altrettanto onnipotente (rischio averroista), e soprattutto preservare l'importanza dell'ars nell'acquisizione delle conoscenze. Non è certo che per Guibelet il pericolo "ateista" sia il peggiore: sprezzare l'ars o lo studium favorirebbe un disordine sociale almeno tanto preoccupante quanto i capricci di un cacodaemon che ispiri qualche rima.

Questa lettura (meglio sarebbe un demone che un genio troppo umano che facesse a meno della scuola) viene suggerita dal modo stesso con cui Guibelet ripercorre le tappe del ragionamento di Guaineri nel suo Discours, per giungere a conclusioni più precise delle vaghe cause "possibili" o probabili del proprio predecessore. Egli richiama la teoria della reminiscenza platonica e della separazione dell'anima dal corpo nell'estasi[xxx] senza limitarsi a questa spiegazione filosofica di cui neoplatonici si erano accontentati. Come Guaineri, Guibelet oppone a essa la dottrina della tabula rasa, che serve a dimostrare la necessità della spiegazione demoniaca:

 

Ma d'altra parte se l'opinione di Aristotele è certa, ossia che l'anima è come un foglio bianco, [.] e una lastra vergine capace di ricevere qualunque impressione, siccome sembra proprio che sia tale, dato che è impossibile che chi sia privo di uno dei cinque sensi dalla nascita possa mai comprenderne l'oggetto, per quanto sia melanconico. Perché dovremmo credere che la melanconia conceda all'anima la conoscenza di tante cose, senza la fatica dello studio o della lettura? (Discours, X, f° 271v°)

 

Per Guibelet non è questione di richiamare in causa la necessità dell'apprendistato, e il kairós melanconico funziona come il kairós retorico, che restituisce al momento giusto un sapere già acquisito:

 

Teniamo per assicurato e deciso che la bile nera è incapace di rendere l'uomo sapiente e di dargli, per esempio, la conoscenza della Filosofia o della astronomia senza che l'abbia appresa [.]. Come abbiamo dimostrato, essa può invece, grazie alle sue qualità, renderci più capaci e più abili nelle scienze, più pronti nella ricerca delle cause, più perseveranti nella contemplazione e meditazione profonda su un soggetto. Può infondere alcuni movimenti all'anima, per mezzo dei quali essa penetra più a fondo nelle ragioni di ciò che cerca: rende furiosi i Poeti, e Democrito diceva che senza questo furore non vi è alcun buona Poesia: Ma bisogna che tali melanconici abbiamo previamente appreso i fondamenti della scienza. Era necessario che Marco Siracusano possedesse i precetti della Poesia per poter comporre eccellenti poesie, una volta entrato in questo furioso calore. (ibid., f° 270v°-271r°)

 

Rifiutando di accordare alla natura averroista una potenza creativa innata, e vincolato dalla dottrina aristotelica della tavola rasa, Guibelet è costretto a fare intervenire il diavolo come unica causa possibile di questi sintomi straordinari. Se i demoni vengono a insufflare le loro geniali invenzioni all'orecchio di poveri analfabeti, non si tratterà degli ambigui spiriti dei neoplatonici, ma dei diavoli francamente neri delle chiese cristiane, o di Dio stesso. Dal "possibile" di Guaineri, questo medico dogmatico è passato per eliminazione alla "congettura certa", limitando la dinamica della creazione a un universo manicheo che salva le scienze e i saperi dalle inverosimiglianze dell'arte:

 

Quando dunque ci sembrerà che qualcuno, da ignorante che era, sia divenuto sapiente in un momento e senza aver affrontato la fatica della disciplina, allora deve imporsi questa congettura certa, che tale scienza è in lui ispirata dal padre delle scienze che è Dio, come fece nella persona di Adamo, o di Salomone, oppure dal ministero dei Demoni, che possono insegnare ciò che hanno appreso da una lunga esperienza delle cose. Ciò è evidente nel caso di Evage, Tinnico, Anfiarao e di Sosipatra, che essendo stato istruita per cinque anni da un Demone, superò in dottrina tutti i Filosofi del suo tempo. (ibid., f° 271r°-v°)

 

Infine, duecento anni dopo il caso, viene pronunciata la diagnosi senza appello sul lunatico ispirato:

 

Quello di cui parla Guaineri, che diventava Poeta in certe fasi della Luna, era guidato da un Demone. Vediamo spesso infatti che il Diavolo segue il movimento di questo astro, tanto per diffamare l'eccellenza di questa creatura che per servirsi della sua virtù, tenuto conto che essa esercita una grande influenza sul cervello, a causa della sua umidità. Il Diavolo sa seguire le sue fasi per assalire questa parte, che è la sede del giudizio e della ragione. Per questo i folli e gli indemoniati vengono detti lunatici [.]. (ibid.)

 

Il caso di Guaineri era quello di un indemoniato; il frenetico di Huarte era quello di un poeta, non ignorante, ma che ignorava di esserlo. È effettivamente impossibile per l'autore attribuire agli umori i seguenti sintomi: la conoscenza delle scienze senza studio, il parlare molte lingue senza averle imparate, parlare in maniera articolata con la bocca chiusa, predire, indovinare i pensieri, vedere le cose assenti come fossero presenti, restar sospesi nell'aria. Un altro medico, Pierre Marescot, ha riassunto il medesimo insieme di sintomi di possessione demoniaca in seguito alle vicende delle religiose di Louviers,[xxxi] cercando, senza troppo successo, di stabilire un discorso medico unitario su queste delicate questioni.

La convergenza dei sintomi, pazientemente registrati da certi medici empirici, ha come conseguenza di stabilire un discorso chiaro sul genio poetico, più ragionevole che razionale. Più ancora del Discours, l'Examen de l'examen rivela una posizione di fatto abbastanza vicina a quella dei ciceroniani, che attribuivano allo studio l'essenziale della riuscita artistica e perfino politica:

 

Ma che un uomo semplice, e di bassa estrazione, che, quando era sano, non abbia mai frequentato né udito parlare coloro che fanno professione di bella eloquenza, che non abbia mai sentito parlare di rime né di poesia, che non si sia trovato in nessun luogo ove si siano tenuti discorsi di questioni di governo o di politica, possa, diventando un alienato mentale, discorrere eloquentemente o comporre versi o chiacchierare saggiamente su affari di Stato, è cosa che sono lungi dal credere. Non trovo alcun argomento per volerne attribuire la causa al temperamento. (Examen, pp. 175-176)

 

A proposito del temperamento geniale, Guibelet ammette di stare compiendo, in confronto alle concessioni del Discours, una sorta di retractatio, ritornando sul ruolo della melanconia, meno per ampliare il potere di un dio che per limitare le pretese divine degli eufuisti scatenati:

 

Tutta la follia, tutti i frenetici del mondo non saprebbero comporre un carme greco o latino, se non intervenisse l'opera di un demone, o l'ispirazione di una causa migliore. La più squisita e lucida melanconia, la più ammirevole complessione, il più dotto temperamento tra gli uomini, non saprebbero comporre l'acrostico della Sibilla. (ibid., p. 182)

 

La poesia pare uscire nobilitata da questa bella conclusione, come pure la profezia in versi. L'oscuro medico Jourdain Guibelet trova accenti patetici e quasi pascaliani per portare l'ingenium dalla parte dell'impegno e dell'apprendistato o per abbandonarlo, melanconico o meno, ai voleri del demone. La sua posizione si ricongiunge a quella dei teorici della poetica classica, che si guarderanno bene dal recuperare le eccentriche pretese dei poeti preda dell'entusiasmo. Fin dal 1610 l'Art Poétique français di Pierre de Deimier aveva negato l'importanza di questa dottrina che metteva in discussione l'importanza stessa delle arti poetiche, e nella sua traduzione di Longino Boileau ha cura di attenuare i riferimenti alla dottrina dell'entusiasmo. La "crisi del furore"[xxxii] della metà del secolo in Francia non sarebbe stata altro che una crisi, per lasciare tuttavia un desiderio di genio, mai smentito in seguito. Il je-ne-sais-quoi classico è in pieno accordo con la normalizzazione linguistica e metrica, quale Guibelet, dal suo punto di vista medico, sembra sostenerla. Il suo esempio dell'acrostico sibillino è significativo come "sintomo" della tecnicità rifiutata propriamente dai poeti della Pléiade. I diavoli versificatori erano andati a scuola dai grands rhétoriqueurs e, come il frenetico di Huarte, sapevano perfettamente bestemmiare in versi.

[Traduzione a cura di Riccardo Campi]

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici

 

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Zara, Antonio    - Anatomia ingeniorum et scientiarum sectionibus quatuor comprehensa, Venetiis, ex typographia Ambrosii Dei et fratrum, 1615.



[i] Philip Sidney, An Apology for Poetry (redatta verso il 1582), 1973, pp. 97-98: "Even among the most barbarous and simple Indians where no writing is, yet have they their poets who make and sing songs, which they call areytos " ["Persino tra i barbari e semplici Indiani che non hanno scrittura, vi sono poeti che compongono e cantano canzoni chiamate areytos ", trad. it. Elogio della poesia, Genova, Il melangolo, 1989, p. 26].

[ii] Louis Le Caron, Discours philosophiques, 1583, II, f° 7v°.

[iii] Michel de Montaigne, Essais, I, 31, "Des Cannibales" (testo 1580).

[iv] Antonio Guaineri nacque alla fine del XIV secolo a Pavia, dove insegnò medicina. Entrò al servizio di Amedeo VIII di Savoia e viaggiò per la Francia. Commentati da Jean Falcon de Montpellier, i suoi trattati vennero pubblicati molto presto (la prima edizione nota è del 1473) e almeno fino al 1534, a Venezia, Pavia e Lione. Sono stati catalogati numerosi manoscritti. Morì verso il 1448.

[v] Tractatus de egredinibus capitis, in [Practica], ed. 1488, Trattato XV, f° 41 v°: "Ego [.] quemdam rusticum melancolicum vidi qui semper luna exeunte combusta carmina componebat et transacta combustione circa duos dies usque ad aliam combustionem verbum nullum ullum litterarum proferebat et hunc mihi nunquam didicisse literas aiebant".

[vi] Juan Huarte, Examen de ingenios para las sciencias: "De otro frenético podré tambien afirmar que más de ocho días jamas habló palabra que no le buscase luégo consonante, la más veces hacia una copla redondilla muy bien formada; y espantados los circunstantes de oir hablar en verso á un hombre que en sanidad jamas lo supo hacer, dije que raras veces acontecia ser poeta en la frenesía el que lo era en la sanidad, porque el temperamento que lo cerebro tiene, estando el hombre sano, con el cual es poeta, ordinariamente se ha de desbaratar en la enfermedad y hacer obras contrarias" (VII, p. 431, ed. Biblioteca de autores españoles). Si tratta del capitolo IV delle prime edizioni che il traduttore Gabriel Chappuis ha seguito (f° 40r° dell'edizione del 1608). Ne diamo una nostra traduzione, poiché in certi passaggi il traduttore ha deformato il testo [per rispettare la particolare lettura dell'A., abbiamo seguito qui la sua traduzione francese, pur tenendo presente anche la trad. it. Esame degli ingegni, a cura di R. Riccio, Bologna, CLUEB, 1993, p. 100; NdT]. Sulla fortuna di Huarte in Francia, cfr. la tesi di G.A. Pérouse, Paris, Belles-Lettres, 1971.

[vii] Jourdain Guibelet, Trois discours philosophiques. III. De l'humeur Melancholique, Evreux, capp. VIII-IX, 1603, f° 262 sgg.; Examen de l'examen des esprits, 1631, cap. IX, p. 173 sgg.

[viii] Antonio Zara d'Aquila, vescovo di Pedena, (1574-?), fu educato dai gesuiti (Graz). La sua Anatomia ingeniorum et scientiarum sectionibus quatuor comprehensa è una pia sintesi delle novità di Huarte, del rinascente enciclopedismo e dei tradizionali discorsi sull'eccellenza dell'uomo.

[ix] Robert Burton, The Anatomy of Melancholy, 1990, I, 3, p. 427 [In italiano è disponibile solo la traduzione della Introduzione (cfr. Id., Anatomia della malinconia, Venezia, Marsilio, 1983) nonché quella della III parte (cfr. Id., Malinconia d'amore, Milano, Rizzoli 1981); NdT].

[x] Nel capitolo LXIII, dove Pantagruel e i suoi compagni trascorrono il tempo ponendosi problemata molto simili a quelli di Aristotele e di Alessandro di Afrodisia [cfr. trad. it. di M. Bonfantini, Torino, Einaudi, 1953, rist. 1993, p. 689]. Il termine symptomates viene glossato con "accidente", come nella Briefve Declaration che accompagna il Quart Livre: "accidenti che accompagnano le malattie, come male al costato, tosse, difficoltà di respiro; pleuresia" (p. 15 dell'editio princeps [trad. cit., p. 712]).

[xi] Noi lo citiamo nella edizione e traduzione di Jackie Pigeaud, l'Homme de génie et la mélanconie, 1988 [cfr. la trad. it. dal titolo La "melanconia" dell'uomo di genio, a cura di C. Angelino e E. Salvaneschi, Genova, Il melangolo, 1981].

[xii] Marsilio Ficino, Three Books on Life., 1989 [trad. it. a cura di A. Biondi e G. Pisani, Pordenone, Ed. Biblioteca dell'Immagine, 1991], nota a I, 7, pp. 413-4: "Ficino rivendica l'originalità soltanto per la scoperta delle cause dei presunti vantaggi della melanconia. La causa 'di Aristotele' è correttamente considerata insufficiente - che la bile nera, come il vino, esageri semplicemente talune qualità di cui il paziente sia già in possesso. Guaineri tuttavia aveva già cercato di individuare delle cause, 15. 4, f° 24r°-v°, col. a; benché platoniche e astrologiche, esse non sono molto simili a quelle di Ficino, e pertanto la rivendicazione dell'originalità da parte di Ficino può essere sincera".

[xiii] Antonio Guaineri, Tractatus de egretudinibus capitis, Trattato XIV, f° 14r°.

[xiv] Ibid., Trattato XV, f° 29r°: "Melancolia atque mania sunt quaedam dispositiones cerebri praeter naturam per quas lesio imaginative seu estimative aut utriusque similiter accidit".

[xv]  Libro IX (Kitab-al Mansuri), cap. VII, De Epilepsia. Edizione consultata: Abubetri (sic) Rhazae maomethi. summi medici opera., traduzione di Gerardo di Cremona, edita da Andrea Vesalio nel 1544, e considerata come una riscrittura. Vesalio aveva anche dato una Paraphrasis del testo di Rhazes (1537) senza che vi si faccia questione dell'influenza degli astri (cap. XI).

[xvi] Problemes d'Alexandre Aphrodise, traduzione francese di Mathurin Heret, 1555, II, 28, f° 68v°.

[xvii] "Altrimenti ignoto" afferma Jackie Pigeaud nella sua edizione [cfr. trad. cit., p. 21].

[xviii] J. Guibelet, Examen., p. 178.

[xix] A. Guaineri, Trattato XV, cap. 4, f° 41v°: "Inquit quidam fuit Marchus non poeta factus melancolicus, poeta quoque factus est".

[xx] J. Huarte, Examen., IV/VII, p. 432: "Y que sea ésta razon y causa, pruébalo claramente por un ejemplo diciendo que Marco siracusano era más delicado poeta cuando estaba (por el calor demasiado del cerebro) fuera de sí, y volviendo á templar perdía el metrífico, pero quedaba más prudente y sabio; de manera que no solamente admite Aristóteles por causa principal de estas cosas extrañas el temperamento del cerebro, pero aún reprende á los que dicen ser esto revelacion divina y no cosa natural" [Anche qui, come nelle cit. successive da Huarte, seguamo la trad. francese dell'A. Ma cfr. anche la trad. it. cit., pp. 102-3].

[xxi] Ibid., p. 431: "que si el hombre cae en alguna enfermedad, por la cual el cerebro de repente muda su temperatura como en la manía, melancolía y frenesía), en un momento acontece perder (si es prudente) cuanto sabe, y dice mil disparates; y si es necio, adquiere más ingenio y habilidad que antes tenia" [cfr. anche trad. it. cit., p. 100].

[xxii] Ibid., p. 434: "Acuérdome de la mujer de este frenético y una hermana suya (que se llamaba María García) le reprendian porque decia mal de los santos. De lo cual enojado el paciente, dijo á su mujer de esta manera: 'Pues reniego de Dios, por amor de vos, y de santa María, por amor de María García, y de san Pedro, por amor de san Juan de Olmedo'. Y así fué discurriendo por muchos santos que hacian consonancia con los demas circunstantes que allí estaban" [cfr. anche trad. it. cit., pp. 100-1].

[xxiii] Pare che il traduttore francese, Gabriel Chappuis, non abbia compreso questo passo: "J'ay souvenance que la femme de ce frenetic, et une sienne sour (qui s'appeloit Marigarcia) le reprenoyent de ce qu'il disoit mal des sains: de quoy le patient ennuyé, parla à sa femme en ceste maniere, Je renie dieu pour l'amour de vous: saincte Marigarcia, et S. Pierre pour l'amour de Jean d'Olmede: et ainsi il discourut par plusieurs faicts, qu'il faisoit correspondre aux autres assistans" (ed. 1608, IV, 40v°-41r°).

[xxiv]  R. Burton, The Anatomy., cit., III, 2, p. 192.

[xxv] [Preferiamo tradurre la traduzione di J. Pigeaud, cit., 954a 35, pp. 96-7, usata dall'Autrice, in quanto è più letterale della traduzione italiana citata, cfr. p. 21; NdT] Cælius Rhodiginus (Lodovico Ricchieri) colloca l'enthusiasmus nella categoria di manie di origine divina: Antiquarum lectionum libri..., Venezia, Aldo Manuzio, 1517, IX, cap. 28, p. 455 ("Enthusiasmus est quidem mentis stupor. Sed ex illustratione divina").

[xxvi] [La citazione aristotelica proviene da Pol., VIII, 7, 1342 a 7; C.A. Viano traduce kineseôs con "emozioni", cfr. Aristotele, Politica, Torino, UTET, 1992; NdT].

[xxvii] Cfr. gli atti della giornata di studi di Clermont-Ferrand su Inspiration/Enthousiasme du XVIe au XIXe siècle, in corso di pubblicazione su Internet, http://odalix.univ.-bpclermont.fr, e il nostro studio, "L'ingenieux ecriteur dans la Renaissance française", in Ingenium, propria hominis natura, atti del colloquio di Napoli, maggio 1997, a cura di S. Gensini, di prossima pubblicazione.

[xxviii] J. Guibelet, Examen., p. 184, sulla scorta di Aristotele, Eth. Nic., 4, 3, 22.

[xxix] J. Guibelet, Discours, IX, f° 263v°: "Guaineri testimonia di aver veduto un paesano, che diveniva Poeta e componeva versi solo quando la luna era in combustione, passato quel periodo non profferiva alcuna parola, né letteraria né dottrinale, considerando che non aveva affatto studiato. Se il Demone ne era la causa, perché diveniva Poeta in questo stato della luna, piuttosto che in un altro periodo? Il Conciliatore dice di aver sperimentato che molti melanconici hanno smesso di fare miracoli dopo aver usato medicine che purgano la melanconia. [.] È dunque un errore, dicono, seguire riguardo a ciò l'opinione volgare, che per ignoranza ha l'abitudine di introdurre tanti Demoni quante sono le malattie".

[xxx] Ibid., f° 271 r°-v°: "Pare difficile sapere con precisione se un melanconico può divenire sapiente. Infatti se l'opinione del divino Platone è vera, cioè che l'anima venga creata già del tutto sapiente, e che Dio abbia inciso in essa l'idea di ogni cosa, di cui essa però si è dimenticata, allorché si è congiunta al corpo, che è come una nube oscura che offusca il suo splendore, non c'è da dubitare che, sottrattasi al dominio del corpo e aquisita una certa libertà e un momento di riposo per dedicarsi a ciò che le è proprio, come nell'estasi dei melanconici, e nei furori poetici, essa non rientri in possesso del suo, non visiti tutti i suoi tesori e si nutra al desco dei suoi buoni pensieri, bonarum cogitationum epulis. Ritirato questo velo, essa dispiega tutte le idee che Dio le ha posto in seno; a tal punto che, a causa di questa prima grazia, essa può trarre da sé la conoscenza delle cose. È per questo che molti hanno affermato di aver visto alcuni melanconici diventare sapienti, eloquenti e Poeti, in maniera naturale, senza pena né studio".

[xxxi] Pierre Marescot, Traicté des marques des possedez et la preuve de la veritable Possession des Religieuses de Louviers, Rouen, Charles Osmont, 1644. Questo autore menziona una volta l'Examen di Guibelet.

[xxxii] Secondo la bella espressione di Jean Lecointe, L'Idéal et la Différence, 1993, p. 371.

 

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