16/1997 Leonardo
Cozzoli
Ci
sembra opportuno riproporre ai lettori di "Studi di estetica" due
interventi di Leonardo Cozzoli sul tema del genio e delle belle arti in
Kant, tratti rispettivamente da Il
significato della bellezza (Modena, Mucchi, 1991) e da Il
linguaggio senza nome. Estetica, analogia e belle arti in Kant
(Bologna, Clueb, 1996) in quanto le sue analisi, incentrate su una
lettura della bellezza in Kant come linguaggio sui
generis, un linguaggio del sentimento massimamente
significativo e al tempo stesso autonomamente significante,
costituiscono a nostro parere per originalità, serietà e precisione di
riferimenti storici e teorici un'acquisizione ineludibile nell'ambito
degli studi estetici kantiani anche se, forse, non hanno ancora ricevuto
nella cultura estetica contemporanea un'accoglienza adeguata alla
ricchezza di stimoli e di sollecitazioni che presentano. Di qui la
nostra ripresa di questi due testi all'interno di un numero dedicato
interamente al genio in cui una pronuncia così significativa come
quella kantiana non poteva essere ignorata. Ed è anche un modo con cui intendiamo ricordare un collaboratore ed
amico carissimo nel secondo anniversario della sua scomparsa. Di contro alle interpretazioni che sottolineano l'insignificanza della
bellezza in Kant o che ne limitano il significato al semplice valore
simbolico del bello, il filo conduttore del lavoro esegetico compiuto da
L. Cozzoli sui problemi teorici della parte estetica della Critica
del Giudizio (ed occorrerebbe anche ricordare un terzo volume
ad essi dedicato: L'identità
estetica. Note kantiane, Bologna, Clueb, 1993), è costituito
dalla possibilità di individuare in Kant la sussistenza di una "via
estetica" al concetto, un concetto non rilevante conoscitivamente ma
valido solo in chiave espressiva nella rappresentazione di un'"altra
natura" creata poeticamente. In questa prospettiva uno dei nodi
fondamentali, che il primo testo qui riproposto affronta, è proprio l'analisi
dell'ideazione estetica propria del genio come invenzione di segni e
di significati inediti, comunicati a partire da e mediante il
sentimento, e della capacità geniale di accedere al simbolico in modo
del tutto originale che fa del simbolo, nel suo innescarsi sulla
creatività dell'immaginazione, non più un modo solamente "intuitivo"
ma propriamente "estetico" di comunicare. Il secondo, più breve,
intervento mette poi a fuoco l'esclusività della relazione fra la
creatività geniale ed il campo delle arti belle; il che implica l'analisi
del problema teorico rappresentato dall'incidenza dell'elemento "tecnico"
o "paradigmatico" nell'operare del genio visto da Cozzoli,
coerentemente e sempre sulla base di precisi riscontri testuali, come
dato indispensabile in quanto consente alla creatività dell'immaginazione
di tradursi in un'opera d'arte bella ma al tempo stesso "estrinseco"
dal momento che non produce alcuna regola che condizioni l'immaginazione
nel suo ideare. I. Il genio come logoteta È noto che per Kant sono gli schemi a dare ai concetti "una relazione
con oggetti, e quindi un significato". La stessa teoria del simbolo
non si può intendere se non in rapporto a quella dello schematismo, dal
momento che l'esibizione simbolica
è una maniera di fornire a un'idea inesponibile della ragione un
significato grazie al "trasferimento della riflessione su di un
oggetto dell'intuizione, ad un oggetto del tutto diverso".[i] Ora, nel paragrafo 35 della Critica
del Giudizio, Kant ci fornisce una chiarificazione capitale
del processo di instaurazione semantica al quale dà luogo per un verso
l'operare del genio (secondo la prospettiva poietica),
e per l'altro l'esercizio del giudizio di gusto nell'atto della
contemplazione di una bella forma, sia essa un prodotto dell'arte
bella o della natura. Si tratta della definizione della libertà dell'immaginazione
come capacità di "schematizzare senza concetto".[ii] Occorre però subito sottolineare che, secondo la dottrina dello
schematismo, uno schema è un quantum
semantico proprio perché è in relazione con un concetto, così che la
libera attività schematizzatrice dell'immaginazione produce qualcosa
che di per sé non si può
definire un significato.
Il prodotto di questa capacità si potrà intendere invece come tale, di
conseguenza, solo in rapporto a un dato concettuale, sia esso un
concetto dell'Intelletto o razionale (un'idea della Ragione), oppure
una qualche unità del
molteplice in generale. Ecco allora che, nel caso delle cosiddette "bellezze
libere", il libero gioco delle facoltà al quale dà luogo nel
soggetto l'atto del contemplare una bella forma potrà al massimo
produrre qualcosa che possiamo chiamare sin da ora un correlato
di senso. In altri termini, una semplice forma naturale che
occasiona un'idea estetica, della quale la prima si può considerare l'espressione,
non avrà - se ci limitiamo a questa fase del processo - alla lettera un "significato", ma rimanderà
semplicemente a un gioco di rappresentazioni dell'immaginazione ad
essa correlato nell'atto
del contempolare da parte del soggetto che giudica col sentimento. Nel caso della "bellezza aderente", la questione sembrerebbe
destinata ad assumere un carattere diverso. Il fatto, però, che in
quest'ultima evenienza, per l'appunto, intervenga senz'altro un
elemento concettuale, impone una precisazione piuttosto dettagliata del
tipo di rapporto che intercorre tra l'idea
estetica (prodotta dalla libera schematizzazione dell'immaginazione),
il concetto che determina "l'accordo del molteplice di una
cosa in vista di una destinazione interna di essa in quanto scopo",[iii]
e/o l'idea della ragione
che, per quanto inesponibile, si giova di un'esibizione indiretta
(grazie alla instaurazione del simbolo ad opera di Immaginazione e
Giudizio). Tale questione, naturalmente, ovvero quella della identificazione del
valore semantico della schematizzazione senza concetto da parte della
immaginazione, va dunque letta in rapporto sempre alla dottrina dello
schematismo che già la teoria kantiana del simbolo, dicevamo, chiama in
causa. D'altro canto, in buona sintonia con quest'impostazione del
problema, nella terza Critica
Kant giudica le cosiddette "bellezze libere" come qualcosa che non
significa nulla, "nessun oggetto sotto un concetto
determinato".[iv] Contemplando tali forme, dice Kant, senza possedere nessun concetto cui
"debba rispondere il molteplice dell'oggetto dato, e quindi ciò che
l'oggetto deve rappresentare", la libertà dell'immaginazione non
è limitata, la sua attività è pienamente spontanea; questa facoltà,
insomma, aggiunge Kant, "in certo modo giuoca nella contemplazione
della figura".[v] Ciò che si produce nell'animo, in questo caso, è un rapportarsi
sempre rinnovato e protratto delle due facoltà, dell'Immaginazione e
dell'Intelletto, tanto che si ingenera, col perdurare del soggetto in
questo stato, un massimo di "capacità di senso", senza tuttavia che
si realizzi, a tale livello, una vera e propria determinazione
semantica. Quest'ultima, dicevamo, richiede infatti sempre e comunque
- anche, magari, secondo modalità che chiameremo "estetiche",
peraltro ancora tutte da precisare (se pure sussistono) - l'intervento
di un concetto o di un'idea razionale. Una bellezza libera, insomma,
consente lo spontaneo
schematizzare dell'immaginazione: e tale attività, è però libera
regolarità, dice Kant, ovvero avviene nel rispetto della
esigenza di unità tipica dell'Intelletto - in tal senso l'Immaginazione,
(come facoltà), è sussunta
all'Intelletto (pure come facoltà)[vi]
- senza l'intervento di un concetto, ovvero di una regola costrittiva che determini l'unità di un molteplice.
Questa condizione, ancora, esplicitandosi nell'accordo tra le facoltà
in un libero gioco, sempre si alimenta da sé, e non contrasta, anzi
favorisce quel piacere che
si prova "sentendo" proprio tale accordo che continuamente si
rinnova. Ora, dice Kant nel paragrafo 51, "la semplice riflessione su di una
intuizione data, senza il concetto di ciò che l'oggetto deve essere",
è sufficiente per "suscitare
e comunicare l'idea" estetica "di cui l'oggetto è considerato
come l'espressione".[vii] Già ricordavamo che è nell'atto della contemplazione - secondo la
prospettiva dell'esercizio del giudizio di gusto - che l'immaginazione,
nella sua ideazione estetica innescata dalla semplice "riflessione"
su una "intuizione data" (una forma), opera in base a una libera regolarità. Se essa non si mantenesse in quest'ambito,
urterebbe contro le
esigenze dell'Intelletto e non favorirebbe alcun accordo tra le
facoltà. Tale regolarità libera, d'altro canto, non
può essere riportata a un concetto che determini
una regola in rapporto al
molteplice delle rappresentazioni dell'immaginazione, giacché la
libertà dell'immaginazione verrebbe così del tutto annullata.
Ciononostante, già sin da ora, pare possibile affermare circa tale regolarità,
che pure nessun concetto può stringere in una determinazione (una regolarità
libera), la sua disponibilità a disporsi, in modo aperto e
indefinito a una qualche determinazione sui generis che l'Intelletto, con i suoi
concetti determinati, non
può ordinariamente compiere senza compromettere la libera ideazione
dell'Immaginazione che schematizza, per l'appunto, senza concetto. Insomma, la bellezza libera, sempre nella sua fase, chiamiamola così, aurorale
non significa nulla, possiamo dire che, già dall'inizio
dal processo che instaura, tende a significare. Si tratta ora di definire che
cosa e come. Di fatto, dopo aver ribadito, nel paragrafo 40, i tratti del puro
giudizio di gusto, Kant, nella Critica
del Giudizio, passa alla questione che potremmo chiamare
della "fungibilità semantica estrinseca della bellezza libera".
Più specificamente, nel paragrafo 42 "Dell'interesse intellettuale
per il bello", Kant osserva che se "l'interesse per il bello dell'arte"
non fornisce "una prova del carattere devoto, o anche soltanto
inclinato al bene morale", un interesse "immediato alla bellezza
della natura", e dunque anche alla bellezza libera, "è sempre segno di un animo buono".[viii]
(Sarà forse partendo di qui, generalizzando questi e altri passi della
terza Critica, che
Wackenroder trasformerà non pochi artisti in santi). Sta di fatto che
per Kant, colui che presta attenzione al bello naturale dimostra una
chiara inclinazione morale proprio perché "la ragione", trova di
per sé vantaggioso che
le idee [...] abbiano anche realtà oggettiva, vale a dire che la natura
mostri almeno qualche traccia, dia qualche cenno di contenere in sé
qualche fondamento, pel quale possiamo ammettere un accordo regolare dei
suoi prodotti col nostro piacere indipendente da ogni interesse.[ix] La ragione, dunque, continua Kant, "dovrà prendere interesse per ogni
manifestazione della natura che esprima un simile accordo; e per
conseguenza, l'animo non può riflettere sulla bellezza della natura
senza trovarsi nello stesso tempo interessato".[x]
È in forza di quest'instaurarsi di un rapporto tra bellezza e
Ragione, infatti, che l'animo, guardando alla natura, ha l'impressione
che quest'ultima gli parli quasi con una specie di linguaggio
cifrato, attraverso le "sue belle forme".[xi]
Con un "linguaggio cifrato [...] che sembra avere un senso superiore"
ossia che pare esprimere le idee razionali (per il tramite di una forma
sensibile). Seppure il bianco,
ad esempio, non abbia in sé proprio nulla di formale, Kant non esita a
darne una virtuale lettura in chiave simbolica, precisando che è così
che spesso "interpretiamo la natura, siano" tali o meno "i suoi
fini".[xii]
Più in generale, è "il bello" ad essere "il simbolo del bene
morale", secondo un passo celebre del paragrafo 59; (a noi toccherà,
naturalmente, verificare più oltre se la dinamica del simbolo
ne esaurisca o meno l'operatività semantica). E ancor prima, nell'ambito
della dottrina delle idee estetiche, a proposito del bello artistico,
Kant aveva espresso con identica efficacia la tensione, da parte dell'ideazione
estetica, "a cercare [...] di approssimarsi a un'esibizione dei
concetti della ragione (le idee intellettuali)", sicché in tal modo
esse assumano "una apparenza di realtà oggettiva". Il poeta, aggiunge Kant, "osa rendere senbili idee razionali di esseri
invisibili, il regno dei beati, il regno infernale" e così via, tanto
che queste idee, mercé i prodotti dell'Immaginazione creatrice,
acquistano un significato per la via simbolica, e un riferimento
quasi-oggettuale. Il poeta fa tutto questo trasportando
- ovvero metaforizzando - ciò di cui trova i modelli nelle
esperienze ordinarie (si avvale cioè di intuizioni empiriche, come
accade, d'altronde, nell'instaurazione simbolica in generale). La
morte, l'invidia e altro ancora, continua Kant, sono così ricondotti
"al di là dei limiti dell'esperienza con un'immaginazione, che
gareggia con la ragione"[xiii]
nel conseguimento di un massimo. È a questo segno, dunque, che l'idea
estetica si manifesta a pieno titolo come un quantum
di significato; prodotta dall'Immaginazione creatrice, essa
è infatti riferita dal Giudizio - che interviene tecnicamente pure
nell'operare del genio - alle idee razionali. In realtà, una lettura dell'operare del poeta nei termini della
semplice instaurazione simbolica, non rende ragione dei caratteri tipici
della ideazione estetica, la quale conduce a delle rappresentazioni che
non possono, per definizione, essere in alcun modo esibizioni
schematiche di un concetto intellettuale, come accade invece per quelle
intuizioni che ordinariamente, grazie al Giudizio, si riferiscono a un
concetto razionale, (ad esempio, in certa metaforica del linguaggio
ordinario). Nel caso della bellezza aderente, infatti, Kant osserva che
l'idea estetica "può essere occasionata da un concetto dell'oggetto";
a questo concetto, dunque, l'idea estetica deve essere in qualche modo
legata, dal momento che è tipico delle realizzazioni dell'arte il
fatto che sia valutata anche la loro perfezione. Ora
- come si esprime Kant - se si sottopone a un concetto una
rappresentazione dell'immaginazione, che appartenga alla sua
esibizione, ma che per se stessa dia tanta occasione a pensare da non
lasciarsi mai racchiudere in un concetto determinato, e quindi estenda
il concetto stesso in un modo illimitato; l'immaginazione è in tal
caso creatrice, e pone in moto la facoltà delle idee intellettuali (la
ragione), facendola così pensare, all'occasione di una
rappresentazione (ciò che appartiene bensì al concetto dell'Oggetto),
più di quanto possa essere compreso e pensato chiaramente.[xiv] Questo lungo, articolatissimo e davvero arduo brano del paragrafo 49,
contiene, per così dire, la dinamica della instaurazione semantica
operata dall'Immaginazione libera nel suo schematizzare, ovvero di
quella che potremmo chiamare la maniera estetica
di articolare un significato. Vediamo ora di esplicitarne i termini, in
rapporto alla dinamica del simbolo. Il simbolo, dal momento che è un'esibizione
indiretta, analoga a quella schematica, in primo luogo "applica il
concetto all'oggetto di una intuizione sensibile", ovvero riconduce
una data intuizione a un
concetto fornendogli un riferimento oggettuale. Nel caso dell'ideazione
estetica, invece, la rappresentazione dell'immaginazione fa sì parte
dell'esibizione di un concetto - in tal caso il concetto, secondo la
prospettiva dell'esercizio del giudizio estetico, può occasionare
l'idea estetica - ma di per sé dà "tanta occasione a pensare da
non lasciarsi mai racchiudere in un concetto determinato", ossia quel
concetto non può dirsi affatto schematizzato
dall'immaginazione, dal momento che la rappresentazione che quest'ultima
ha creato, eccede
di fatto tale esibizione, e dunque, se si rapporta il prodotto dell'immaginazione
al concetto, quest'ultimo risulta esteso esteticamente, "in modo illimitato". Se il
concetto fosse adeguatamente esibito dall'immaginazione, esso
imporrebbe a quest'ultima una regola. ma l'immaginazione, al
contrario, dal momento che non produce una esibizione del concetto ma
sottopone tuttavia ad esso qualcosa che pur sempre le appartiene, mette
in moto la facoltà dei concetti, l'Intelletto, senza che mai un concetto
intellettuale determinato trovi, per così dire, nella
rappresentazione dell'immaginazione una sua esibizione schematica. E
dal momento che l'immaginazione schematizza
liberamente seppure regolarmente, cioè in base a una regola
che non è ancora data, non
può, letteralmente, essere fornito dall'Intelletto alcun
concetto che accolga come propria esibizione la rappresentazione dell'immaginazione
in causa. Ora, nel simbolo, il giudizio riflettente riferiva a un'idea della
ragione quella intuizione che consisteva nell'esibizione schematica di
un concetto intellettuale, ovvero "ad un concetto del tutto diverso,
al quale, forse, non potrà mai corrispondere direttamente un'intuizione".[xv]
Nel caso dell'ideazione estetica, avviene qualcosa di analogo ma non
di identico: da un lato, a causa del fatto che l'immaginazione
schematizza liberamente proponendo all'intelletto esibizioni
formalmente riferibili ma di fatto mai riconducibili sotto un concetto
determinato, dall'altro a seguito dell'estensione estetica di un
concetto intellettuale, la facoltà dell'intelletto si pone in moto
senza che possa tuttavia trovare un concetto da esibirsi compiutamente
da parte dell'immaginazione. Il gioco dell'immaginazione, che è
libero, dicevamo, induce così un gioco intellettuale cui guarda la
ragione - dal momento, dice Kant nella prima Critica,
che l'intelletto è per la ragione "un oggetto" così come "la
sensibilità [lo è] per l'intelletto"[xvi] - la quale pure si pone in moto; tanto
che le idee, a loro volta, se non possono essere esibite adeguatamente,
si avvalgono tuttavia di un riferimento ad esse della rappresentazione
composta dall'immaginazione creatrice. Quest'ultimo effetto dinamico
sulla ragione, Kant lo illustra piuttosto chiaramente nel passo
immediatamente successivo al precedente, che conviene leggere di nuovo
per esteso: quelle
forme che non costituiscono da sé l'esibizione di un concetto dato,
ma, in quanto rappresentazioni secondarie dell'immaginazione,
esprimono soltanto le conseguenze che vi si legano e l'affinità di
quel concetto con altri concetti, sono chiamate attributi (estetici) di
un oggetto, il cui concetto, in quanto idea della ragione, non può
essere esibito adeguatamente. Così l'aquila di Giove con la folgore
tra gli artigli è un attributo del potente re del cielo.[xvii] Alla fine, l'esito della ideazione estetica da parte dell'immaginazione
- dello schematizzare senza concetto - è quello di indurre una
connessione inedita tra rappresentazioni nell'ambito dei concetti, e
di chiamare in causa la Ragione. Tutto ciò altro non è che un
riverbero della libera regolarità
dell'immaginazione creatrice. Se poi tale gioco, tale animazione reciproca delle facoltà, trova una espressione
adeguata (che deve avere a sua volta, come vedremo più
avanti, dei caratteri affatto
peculiari per essere tale), per cui è ulteriormente "necessaria
una facoltà che colga al volo il rapido giuoco dell'immaginazione, e
lo unisca ad un concetto che si possa comunicare senza la costrizione
delle regole", ecco che l'intero processo 1) condurrà a un concetto
"originale", 2) rivelerà "nel tempo stesso una nuova regola, che
non si è potuta derivare da nessun principio od esempio anteriore",[xviii]
e 3) produrrà un'espressione altrettanto inedita. Tutto
ciò ci dice che l'operare del genio non è mai riducibile
semplicemente all'instaurazione di simboli, poiché quest'ufficio,
se ci atteniamo a quanto abbiamo letto nel paragrafo 59, spetta
sostanzialmente al Giudizio e non alla immaginazione creatrice. L'intervento, invece, della immaginazione che schematizza liberamente,
opera la realizzazione simbolica sempre sulla base di una inalienabile
originalità semantica. Non spetta al genio il semplice uso del linguaggio metaforico; non è una
sua peculiarità, dal momento che la lingua ordinaria abbonda, dice Kant,
di espressioni figurate.[xix]
La dinamica delle sue facoltà non si limita a cogliere analogie (sulla
cui base l'espressione non contiene lo schema del concetto, ma un
semplice simbolo per la riflessione); essa produce invece quell'esuberanza
semantica che si ripercuote immancabilmente sull'intero processo di
instaurazione simbolica (il quale entra tuttavia a far
parte della fisiologia delle belle forme). In tal modo, le
idee della ragione che trovano espressione nell'operato dell'artista,
non sono mai semplicemente espresse,
dal momento che l'immaginazione creatrice produce rappresentazioni che
"esprimono" pure "l'affinità" dei concetti che coinvolge "con
altri concetti", determinando così una loro solidarietà inedita. L'idea estetica, come ribadisce lo stesso Kant, è resa da "una
quantità di rappresentazioni affini, le quali danno più da pensare di
quanto si possa esprimere in un concetto determinato [...] e tiene luogo
dell'esibizione logica di quell'idea razionale, ma propriamente per
vivificare l'animo, aprendogli una vista su di un campo smisurato di
rappresentazioni affini".[xx] Questo libero schematizzare dell'immaginazione, relandosi in qualche
modo a una rappresentazione intellettuale o razionale, cosittuisce
dunque non tanto una restrizione
(nell'applicazione) di
un concetto, quanto piuttosto una sua virtuale estensione.
Se lo schema, che "restringe l'intelletto nel suo uso", quando è
sottoposto a un concetto determinato è "la rappresentazione di un
procedimento generale onde l'immaginazione porge a esso concetto la
sua immagine", altro allora non riguarda se non un'immaginazione
produttiva sottoposta a una regola intellettuale. Diversamente, nel caso
in cui l'immaginazione attende all'ideazione estetica, la sola limitazione
alla quale è sottoposta la sua libertà - nel caso della bellezza
aderente - è l'intervento di un concetto al quale
appartiene "una rappresentazione dell'immaginazione" che tuttavia non
si lascia mai racchiudere in un
concetto determinato. In sintesi, l'originalità che è tipica dell'arte e l'interpretazione
tutta umana della bella natura come linguaggio espressivo di idee
estetiche (e orientato, allo stesso modo, verso le idee razionali,
riguarda allo stesso titolo un'originalità di ordine semantico, un'invenzione
di significati. Il genio, come inventore di segni e di significati - gli è propria
infatti l'originalità sia della espressione,
sia del significato che tale espressione veicola - è in tal senso un logoteta. Ecco allora, che nonostante la dottrina kantiana della bellezza affronti
in prima istanza la questione della rilevanza semantica delle belle
forme in termini sostanzialmente negativi, col procedere della sua
esplicitazione nel corso della prima parte della Critica
del Giudizio; attraverso il recupero di una auroralità di
senso (cioè dell'effetto del libero gioco delle facoltà come "pura
entropia" di rappresentazioni correlate) alle belle forme nell'atto
della loro contemplazione, essa giunge infine alla messa in luce di una
vera e propria modalità estetica
di significare, quella che si realizza nel momento dell'esercizio del
giudizio di gusto e nella creazione geniale. Il genio, infatti, per un verso produce concetti originali, ossia delle unità
significate - se ci atteniamo alla generale accezione di
"concetto" come coscienza dell'unità di una molteplicità di
rappresentazioni, appunto - che nessuna lingua può compiutamente
esprimere, ma sa pure trovare per questi concetti relativi alle idee
estetiche (cioè per queste unità
semantiche organizzate sulla base di una regola originale) l'espressione giusta con cui egli può comunicare agli altri lo
stato d'animo "in cui ci mette una certa rappresentazione".[xxi]
Il genio, in sintesi, sa esprimere ciò che nessuna lingua riuscirebbe a
comunicare mai, dal momento che i contenuti che egli riesce a concepire
sono originali - sono l'effetto della creatività dell'immaginazione
condotta senza urtare l'esigenza
di unità dell'Intelletto in generale - e dunque, in quanto tali,
richiedono espressioni dello stesso tenore, le quali, oltretutto, non
contengono un semplice simbolo per la riflessione ma molto di più. D'altronde,
l'uso del linguaggio figurato in genere, in base alla nozione kantiana
di "metafora", è qualcosa che fa parte, lo ripetiamo, della lingua
ordinaria, ed è per ciò alla portata di qualsiasi parlante. Al
contrario, le espressioni del genio sono senz'altro originali e
veicolano contenuti altrettanto inediti la cui composizione non si
realizza sulla scorta del semplice esercizio dell'Immaginazione
produttiva e del Giudizio (oltre che dell'Intelletto). In essi l'Immaginazione
è creatrice, e sa indurre
nella sfera dei concetti (razionali e intellettuali) delle sintesi
originali, delle unità
nuove, sulla base di uno schematizzare libero ma nel contempo regolare
che, realizzandosi, offre all'Intelletto il loro corrispettivo
sensibile. L'effetto complessivo, in definitiva, è dunque ciò che già
chiamavamo una produzione di originali unità semantiche - ovvero di
inediti rapporti tra concetti con uno schematizzare libero ma regolare,
mutuamente solidali - e di nuove espressioni che lo comunicano, "senza
la costrizione delle regole". D'altro canto, lo stesso Kant,
trattando delle belle arti nel paragrafo 51 della Critica
del Giudizio, come dicevamo, ne considera i prodotti solo
in analogia col linguaggio ordinario; è un'impostazione,
questa, della nostra questione che sottolinea senz'altro lo iato
sussistente tra la lingua di tutti e il linguaggio dell'arte in quanto
arte del genio. In altri
termini - si tratta di un fatto sostanziale da sottolineare con ogni
vigore - l'operare, come fa Kant, una divisione delle belle arti in
base al "principio [...] dell'analogia dell'arte con quella specie
di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi
[...] non soltanto i loro concetti, ma anche le sensazioni",[xxii]
per un verso significa che i loro prodotti sono
un linguaggio; per un altro che sono un linguaggio - uno
solo in quanto del genio in generale - analogo
al modo ordinario di comunicare concetti e sensazioni, ovvero
un linguaggio specificamente
differente rispetto a tale maniera consueta di comunicare da
parte degli uomini tutti, e identico a quest'ultima solo quanto al genere,
ovvero quanto al fatto di essere appunto una modalità di comunicare. II. Il genio e la specificità delle
arti belle Il genio, per Kant, è il talento "di produrre ciò di cui non si può
dare una regola determinata".[xxiii]
Il suo carattere essenziale è l'originalità. Tuttavia, dal momento
che si possono dare anche stravaganze originali, i suoi prodotti debbono
essere esemplari, e cioè devono valere come "misura e regola del
giudizio". Ancora: il genio non sa mostrare "scientificamente come compie la sua
produzione"; e se è vero che "tramite il genio è la natura stessa
a dare la regola ai suoi prodotti", ad opera dell' autore geniale
essa "non dà la regola alla scienza, ma all'arte, e a questa
soltanto in quanto dev'essere bella".[xxiv]
Ciò sta senz'altro a significare che a proposito dei prodotti del
genio, il valore estetico concerne esclusivamente la bellezza, e deve
prescindere da ogni altro apporto artistico in senso lato,
riconducibile, poniamo, alle arti meccaniche. Del resto, la teoria
estetica kantiana stabilisce una differenza radicale tra bello
e perfetto, tanto da
collegare questi due distinti aspetti dei prodotti dell'arte a due
diverse occorrenze del Giudizio, una estetica e una teleologica. Ora, questa specificità estetica dei prodotti geniali Kant la ribadisce
più volte proprio in relazione ai prodotti delle scienze: la più
complessa realizzazione scientifica si può ripercorrere fedelmente nei
suoi passaggi essenziali; dunque essa può essere perfettamente compresa
(concettualmente) e riprodotta; ovvero è qualcosa che si può imparare.
Al contrario, "non si può imparare a poetare genialmente".[xxv] Ancora: "nel campo della scienza, il più grande inventore non è [...]
diverso dal più travagliato imitatore e discepolo se non per una
differenza di grado, ma è specificamente diverso da colui che la natura
ha dotato per le arti belle".[xxvi] La bellezza, come risultato poetico, non concerne affatto il campo
scientifico, non è una qualità del semplice prodotto piacevole, non
deve essere riguardata da alcun concetto determinato. Essa non può
darsi se non in quanto realizzazione specifica del genio, e dunque, all'interno
dei prodotti di cultura, non si può concepire se non in relazione
esclusiva col campo delle belle arti. Ci dobbiamo tuttavia chiedere se davvero in Kant il carattere dell'artisticità
entri in un rapporto tanto intimo con l'operatività geniale, da
condizionare il nesso arte-bellezza in modo imprescindibile. Ebbene, la dottrina kantiana della bellezza considera i prodotti
artistici come degli oggetti cui non guarda un giudizio puramente
estetico, ma un giudizio condizionato logicamente. Sicché si è
legittimati a parlare, in proposito, di bellezza aderente e non di
bellezza libera, a differenza di quanto accade nel caso dei prodotti
naturali. In altri termini, nell'attività di giudizio rivolta a un
prodotto geniale, noi non valutiamo solamente la bellezza ma pure la
perfezione. Questo statuto particolare delle bellezze dell'arte
potrebbe far supporre una sorta di eteronomia intrinseca alle arti
belle, dalla quale sarebbe possibile dedurre, peraltro, un'essenziale
eteronomia del bello artistico in generale. Senonché, la valenza
estetica del prodotto geniale è semplicemente quella della bellezza ed
esclusivamente quella, tanto che il carattere del genio va inteso
solamente in rapporto ad essa. Valendo però a proposito delle belle arti un'essenziale estrinsecità
del bello rispetto al perfetto, ci si trova allora senz'altro in
difficoltà se si vuole individuare una ragione che connetta
imprescindibilmente il carattere della bellezza a quello della natura
tecnica del fare artistico geniale. A meno che non sia possibile
dimostrare che sussiste un nesso funzionale, tra il momento estetico
della bellezza e quello meramente tecnico del fare del genio artistico,
fatta salva la loro essenziale e reciproca estrinsecità. In altri
termini, la necessità della prospettiva artistica in rapporto alla
finalità estetica delle arti belle si può comprovare, facendo salva l'autonomia
di quest'ultima, mostrando in qualche misura che il momento
logico-teleologico del fare consente, funzionalmente, comunque dall'"esterno",
a quello estetico di acquisire la sua dimensione più propria. La questione è affrontata da Kant nel § 47, là dove egli osserva che
"non vi è alcun'arte bella in cui non si trovi qualche cosa di
meccanico, che può essere appreso e seguito secondo regole".[xxvii]
Ciò che deve essere messo in chiaro in proposito è dunque il rapporto
che sussiste per Kant tra l'aspetto tecnico, che è senz'altro
imprescindibile nella creazione del genio, e l'elemento estetico della
bellezza, che costituisce lo specifico delle cosiddette arti belle. Circa il primo di questi elementi, si esprime inequivocabilmente lo
stesso Kant là dove osserva che "qualche cosa di scolastico" è
ravvisabile in tutti i prodotti dell'arte, e anzi esso "costituisce
la condizione essenziale dell'arte" poiché "nell'arte bisogna
che sia pensato uno scopo; altrimenti i suoi prodotti non si potrebbero
attribuire all'arte, e sarebbero un puro effetto del caso".[xxviii]
È dunque in causa un carattere delle arti belle che si giustifica all'interno
della generale definizione kantiana di arte. Dobbiamo tuttavia
comprendere ancor più esattamente le ragioni di questa natura pure "meccanica"
delle cosiddette belle arti. La questione ci rimanda ancora una volta alla dottrina kantiana del
genio. Infatti a proposito del fare geniale Kant osserva che se ad esso
spetta necessariamente il carattere dell'originalità, tale
prerogativa non è però il solo elemento essenziale di questa attività
poietica. "Alcuni spiriti superficiali", precisa infatti Kant in proposito, "credono
di non poter mostrar meglio di essere geni brillanti, che sbarazzandosi
della costrizione scolastica d'ogni regola, ed immaginando che si
faccia miglior figura su di un cavallo furioso che su di un cavallo da
maneggio";[xxix] la qualcosa richiama senz'altro quell'aspetto
della genialità messo già in luce nel § 46, allorquando Kant dichiara
che si possono dare pure stravaganze originali, del tutto inadatte al
carattere stesso dei prodotti geniali. Ebbene, dal momento che "per effettuare uno scopo son necessarie regole
determinate, alle quali non è lecito sottrarsi", ecco che l'elemento
meccanico nel campo delle cosiddette arti belle concorre necessariamente
a temperare quella libertà, altrimenti sfrenata, della creatività
geniale che, se lasciata a se stessa, produce solamente "stravaganza";
quella stravaganza che, sul piano linguistico, trova il suo pendant
nella fantasticheria, ovvero in quell' attività dell'immaginazione
che non sbocca in concetti originali, e dunque che muore, per così
dire, nella più confusa insignificanza. Da questo punto di vista, la necessità da parte del genio di produrre
anche secondo il criterio della perfezione oltre a mirare alla semplice
bellezza, giova essenzialmente, seppure "estrinsecamente", alla
bellezza stessa, e anzi la rende di fatto possibile; diciamo "estrinsecamente",
poiché il momento meccanico della produzione artistica contiene solo
"dall'esterno" la creatività estetica geniale nella produzione di
una bella forma. Ma accanto a questo primo argomento, che concerne sostanzialmente la
realizzazione della bella forma di un oggetto determinato, del quale
entra in causa anche la perfezione (valutabile teleologicamente), si
deve considerare pure il fatto che i prodotti geniali debbono essere
conformi al gusto relativamente alla loro pura forma. Se "il genio non
può se non fornire una ricca materia ai prodotti delle belle arti, per
lavorarla e per darle la forma occorre un talento formato dalla scuola e
che sia capace di farne un uso che possa essere approvato dal Giudizio".[xxx]
In sintesi, il genio crea in maniera originale, ma sempre nella
prospettiva della conciliabilità dei suoi prodotti con le esigenze del
gusto, ovvero nella prospettiva dell'accordo, senza concetto, all'occasione
di un giudizio estetico, tra immaginazione e intelletto semplicemente in
quanto "facoltà". Per contro, continua significativamente Kant, "è perfettamente
ridicolo quando qualcuno parla e decide come un genio in quelle cose che
esigono dalla ragione le più laboriose ricerche";[xxxi]
sicché il criterio dell'attività geniale deve alla fin fine
riguardare sempre la capacità di operare (da parte dell'autore che
sia dotato di un simile talento) senza regola data - nonostante in
essa valgano, per ragioni differenti, 1) sia l'intervento di regole
riconducibili a un concetto riguardato come scopo e 2) sia l'influsso
degli esempi intesi come esibizioni dei criteri estetici di
organizzazione formale desunti dalla scuola e dalla tradizione
(approvati dal Giudizio). E dunque, è certamente vero che per Kant la produzione di una bella
forma è sempre e soltanto un affare dell'immaginazione creatrice e
non del gusto; tantomeno dell'attività tecnico-meccanica per cui si
realizza un oggetto perfetto, da giudicarsi, in quanto tale, secondo la
prospettiva teleologica del Giudizio riflettente. Tutto questo è
riconfermato nel § 48, là dove Kant prende in esame un'operatività
artistica guidata dal gusto, ma senza l'intervento del genio;
attività, quest'ultima, il cui esito è infatti il semplice piacevole
formale. Ma è ancor vero che il fatto di mirare alla produzione di un
oggetto bello, di cui si possa giudicare anche la perfezione e il fatto
ancora di operare sulla scorta di una conciliabilità necessaria tra
gusto e genio (quanto alla capacità di inventare una forma bella)
costituiscono degli accorgimenti poietici che, sia pure da un punto di
vista "estrinseco" rispetto allo stesso genio come talento dell'immaginazione
creatrice, consentono all'arte, come dice Kant, di "non svaporare"
nell'insignificanza. In tal senso, il genio, se non vuole mancare il suo scopo, deve essere
necessariamente anche un artista in senso lato; e dunque, in quanto
artista geniale, la cui finalità esclusiva è quella di produrre belle
forme (che piacciano nel giudizio), egli non può realizzarsi se non
nell'ambito delle cosiddette arti belle. E anzi, per converso, le arti
belle sono in tal senso esclusivamente arti del genio. Tutto sempre per
via del fatto che l'immaginazione creatrice senza freno non conduce a
nulla che possa essere apprezzato dal gusto e dichiarato bello, sicché
è necessario qualcosa che "ritagli le ali" al genio,
condizionandolo indirettamente (ovvero senza fornirgli alcuna regola
positiva o una qualche norma operativa). Del resto, l'idea che la libertà dell'immaginazione creatrice possa
essere graduata (dall'esterno) senz'essere eliminata in virtù di
una concomitanza di funzioni distinte ma tutte convergenti sul medesimo
oggetto, non comporta alcuna contraddizione, dal momento che ripete, sul
piano del fare, quanto Kant già riconosceva come opportuno nella
funzione educatrice che il gusto sa svolgere legittimamente nella
formazione di un talento geniale. In altri termini, se il gusto educa il genio, e se così facendo non gli
toglie tuttavia la libertà, ma anzi la rende effettuale, allo stesso
modo noi possiamo concepire l'operatività del genio in un rapporto
estrinseco con quelle funzioni dell'artista in generale che comportano
il conseguimento della perfezione di un oggetto (unitamente alla
realizzazione di una forma apprezzabile dal Giudizio estetico come
bella). Ecco allora che, rispetto alla produzione geniale, la concomitanza delle
funzioni 1) estetica, 2) puramente tecnica e 3) generalmente "pedagogica"
(prodotta dagli esempi tratti dalla tradizione), pur non toccando
intrinsecamente (per via di una regola determinata) la creatività dell'immaginazione,
diviene qualcosa di essenziale al prodotto geniale come risultato di un'attività
artistica comunque incentrata sulla bellezza della forma; sulla bellezza
di una forma resa possibile anche dal fatto che, grazie all'intervento
di momenti estrinseci alla libertà dell'immaginazione creatrice, si
evita la stravaganza. E la stravaganza, sempre dal punto di vista
tecnico, si traduce, all'interno della teoria kantiana della bellezza,
quantomeno 1) nell'insignificanza estetica della forma - poiché
solamente una libera regolarità dell'immaginazione creatrice conduce
a un concetto originale che riunisce in sé l'ideazione estetica come quantum
semantico - e 2) nell'inconciliabilità della forma con
lo stesso Giudizio, sicché essa, per ciò, non potrà mai essere
dichiarata autenticamente bella. Evitare la stravaganza significa allora
consentire all'immaginazione di accordarsi con l'intelletto in
generale nella sua legalità senza alcuna subordinazione - del resto
tecnicamente impossibile - a un qualche concetto determinato che
pregiudicherebbe irreparabilmente la sua libertà. In sintesi, per Kant la bellezza è indubbiamente un prodotto del genio
in quanto tale. Tuttavia, una serie di dati affatto estrinseci alla
bellezza e al fare estetico geniale, "tecnici" o di natura "paradigmatica",
concorrono alla stessa realizzazione della bellezza, ma - cosa del
tutto essenziale per l'autonomia del fare "estetico" - senza
produrre alcuna norma positiva determinata che condizioni in qualche
modo l'immaginazione nel suo ideare. E del resto, le regole meccaniche
conducono alla realizzazione della perfezione dell'oggetto e non della
sua bellezza; gli esempi desunti dalla tradizione delle arti belle non
forniscono alcuna regola ma manifestano semplicemente l'effettualità
di una "regola che non si può dare". Nondimeno, questi due fattori
consentono all'immaginazione creatrice di evitare l'insignificanza,
e impediscono ai suoi prodotti, come dice Kant, di "svaporare". In definitiva, questa coniugazione di talento estetico e talento tecnico
obbliga alla fine a collocare sempre il fenomeno della creatività
geniale all'interno del territorio artistico, e avvalora così l'immagine
tradizionale di un fare dell'autore che si specifica non solamente
sulla scorta di una astratta creatività, ma in rapporto a tutta quella
serie di elementi tecnici, che ha a che fare con regole da apprendere,
ovvero con occorrenze desunte dalla tradizione (sempre riconducibili a
un'arte bella affatto determinata), in cui si esplica in concreto il
talento artistico geniale. In tal senso si giustifica appieno il fatto che Kant, quando ci parla di
"genio per l'arte bella", pensi in un certo senso sempre al poeta;
o all'oratore; o al pittore, e via di seguito; a tutti quegli artisti
che producono cioè nel concreto di un'arte bella senz'altro
identificabile, come è del resto riconfermato dall'ormai celebre §
51 sulla divisione delle belle arti. Ecco dunque che, in effetti, nella terza
Critica si concepisce il genio in modo tale da ritrovarne poi
riconfermato il profilo all'interno dell'operatività concreta e
tecnicamente specificata delle singole arti belle. Questo indirizzo
critico è del resto documentato pure dalla definizione kantiana dell'attività
geniale del § 49, là dove essa è esplicitata come capacità di
invenzione semantica, tanto da figurare in quella stessa identica
prospettiva che condurrà di lì a poco, nel § 51, a un'analisi delle
arti belle proprio in rapporto all'idea di linguaggio.
Tipica del genio è infatti l'anima (Geist),
"che non è altro che la facoltà di esibizione delle idee estetiche;
dove per idee estetiche, continua Kant, intendo quelle rappresentazioni
dell'immaginazione, che danno occasione a pensare molto, senza che
però un qualunque pensiero o un concetto possa essere loro adeguato".[xxxii]
E tuttavia, il genio "trova per esse l'espressione giusta [...]
perché sa esprimere ciò che è inesprimibile". Infatti, per far ciò
è necessaria "una facoltà che colga a volo il rapido giuoco dell'immaginazione,
e lo riunisca in un concetto che si possa comunicare senza la
costrizione delle regole (a un concetto che appunto perciò è
originale, e rivela nel tempo stesso una nuova regola che non si è
potuta derivare da nessun principio od esempio anteriore)".[xxxiii] La "vicenda" linguistica in cui Kant colloca la questione della
bellezza giunge così a un passo dal suo epilogo. E infatti, il famoso
§ 51 - divenuto tale anche in forza della recente riconduzione
operata da E. Migliorini della classificazione delle arti di Kant a
quella dei Beaux Arts batteuxiani
(riconduzione peraltro operata pure da Paolo Gambazzi nel suo lavoro su
sensibilità, immaginazione e bellezza in Kant, edito nel febbraio del
1981)[xxxiv]
- introduce il tema delle arti belle in analogia con i caratteri di
"quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare
per comunicarsi, quanto perfettamente è possibile, non soltanto i loro
concetti, ma anche le sensazioni".[xxxv] Del resto è quantomeno sulla scorta
dei tre elementi emblematici del linguaggio ordinario risalenti alla
tradizione quintilianea[xxxvi]
che Kant classifica le belle arti; ma certo non su criteri
essenzialistici, bensì in rapporto alla capacità che è propria di
ognuna di esse di realizzare quell'invenzione semantica che è la
caratteristica imprescindibile del fare geniale (massimamente esplicata
dalla poesia).[xxxvii] Relativamente alle arti belle, si riconferma, dunque, la natura
linguistica della teoria kantiana della bellezza nel suo complesso; un
carattere, oltretutto, quest'ultimo, che coinvolge già di per sé,
sia pure in generale, proprio la categoria dell'arte bella, dal
momento che un linguaggio, quale che sia, presuppone sempre un'intenzionalità
comunicativa e dunque rivela sempre, letteralmente o analogicamente, le
connotazioni essenziali dell'artisticità. E infatti per Kant la bellezza in generale, sia essa dell'arte o della
natura, deve essere intesa come "l'espressione di idee estetiche",[xxxviii]
sicché lo stesso bello naturale manifesta la sua autentica identità
solamente secondo l'analogia con un linguaggio. Anche il bello di
natura è dunque un linguaggio estetico da intendersi come un linguaggio
sui generis, ovvero del sentimento, cui spetta una specifica,
ad esso assolutamente peculiare modalità di instaurazione semantica. [i]
I. Kant, Critica del Giudizio,
trad. it. di A. Gargiulo, Bari 1978 (dalla quale alcune volte ci si
discosterà traducendo dall'ed. contenuta nei Kant's
gesammelte Schriften, Bd. V,
Berlin 1913), pp. 216-7. [ii]
Ibid..,
p. 143. [iii]
Ibid..,
p. 74. [iv]
Ibid. [v]
Ibid. [vi] Ibid..,
p. 143. [vii]
Ibid..,
p. 180. [viii]
Ibid.,
p. 156. [ix] Ibid.,
p. 158. [x]
Ibid. [xi]
Ibid. [xii]
Ibid.,
p. 160. [xiii]
Ibid.,
p. 174. [xiv]
Ibid. [xv]
Ibid., p. 217. [xvi]
Il passo è significativamente posto in luce da W. Hogrebe,
Teoria della conoscenza senza
conoscenza, in Aa.
Vv., Statuto dell'estetica,
Modena 1986, p. 103. [xvii]
I. Kant, Critica del Giudizio,
cit., pp. 174-5. [xviii]
Ibid.,
p. 177. [xix]
Cfr. ibid., p. 216. [xx]
Ibid.,
p. 175. [xxi]
Ibid.,
p. 177. [xxii]
Ibid.,
p. 181. [xxiii]
Ibid.,
p. 166. [xxiv]
Ibid.,
p. 165. [xxv]
Ibid.,
p. 167. [xxvi]
Ibid.,
p. 168. [xxvii]
Ibid.,
p. 169. [xxviii]
Ibid. [xxix]
Ibid. [xxx]
Ibid. [xxxi]
Ibid. [xxxii]
Ibid.,
p. 173. Su Geist,
libertà dell'immaginazione e Gusto, cfr., ad esempio, W. Biemel,
Die Bedeutung von Kants Begründung der Ästhetik für die Philosophie
der Kunst, "Kantstudien Ergänzungshefte", 77, 1959,
pp. 108 e passim. [xxxiii]
I. Kant, Critica
del Giudizio, cit., p. 177. [xxxiv]
Cfr. E. Migliorini, Il § 51 della
Critica del Giudizio: Batteux e Kant, in Aa.Vv., Statuto dell'estetica,
cit., pp. 222-33. Per quanto riguarda l'indicazione in causa sul
rapporto Kant-Batteux, cfr. P. Gambazzi,
Sensibilità, immaginazione e bellezza, Verona 1981, p.
360. [xxxv]
I. Kant, Critica del Giudizio,
cit., p. 181. [xxxvi]
Sulla probabile origine retorica dei tre fattori: parola, gesto,
tono si esprime G. Morpurgo-Tagliabue (che rimanda a Quintiliano, Institutio
oratoria, I, 10, 23), Kant
e la musica, "Rivista di storia della filosofia", 2,
1991 (pp. 257-284), p. 261. [xxxvii]
Cfr. in proposito, L. Cozzoli,
Il significato della bellezza, cit., pp. 71-89. Cfr. anche W.
Flach (Zu
Kants Lehre von der symbolischen Darstellung, "Kant-Studien",
73, 4, 1982, pp. 461-462) che insiste sulla teoria kantiana del
simbolo, ed esclusivamente su questa (ovvero senza riconoscere alla
bellezza una specifica potenzialità semantica non semplicemente
simbolica). [xxxviii] I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 180.
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