14/1996 Stefano
Ferrari Non
è certo mia intenzione assolutizzare l'elemento unheimlich
della fotografia: è evidente che anche sotto un profilo
psicologico, l'argomento può essere esplorato secondo
svariate prospettive. Ma all'interno di un percorso di ricerca
più vasto, che ritrova nel perturbante un motivo di continuità,
la fotografia e il fotografare, assunti in una dimensione di
larga e non specialistica universalità, ci permetteranno di
cogliere caratteristiche utili anche ai fini di una indagine più
ampia su alcuni elementi essenziali dell'attività artistica
in quanto tale.[i] 1.
La fotografia e la morte Associare
la fotografia alla morte è diventato senza dubbio quasi un
luogo comune, ma al di là dell'efficacia di questa
associazione, non è poi così semplice riuscire ad articolare e
a rendere conto di una tale correlazione, che, come vedremo, si
apre su diverse prospettive. Può intanto essere utile partire
da alcune delle più autorevoli testimonianze al riguardo. È
stato forse Roland Barthes, nel suo brillante saggio del 1980, La
camera chiara, che più di ogni altro ha sottolineato
questo motivo, parlando, per esempio, di quella "cosa
vagamente spaventosa che c'è in ogni fotografia: il ritorno
del morto."[ii]
E pensando al grande impegno profuso da ogni fotografo
professionista per conferire ai suoi modelli un'impressione di
naturalezza e appunto di 'vita', Barthes osserva poi con
ironia: Si
direbbe che il Fotografo, atterrito, debba lavorare moltissimo
per far sì che la Fotografia non sia la Morte.[iii] E
ancora: Per
quanto viva ci si sforzi di immaginarla (e questa smania di
"rendere vivo" non può essere che la negazione mitica di
un'ansia di morte), la Foto è come un teatro primitivo, come
un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e
truccata sotto la quale noi vediamo i morti.[iv] Ma
la morte, secondo il critico francese, è presente non solo,
come vedremo nell'esperienza del venir fotografati, ma anche
nell'atto stesso del fotografare: Tutti
questi giovani fotografi che si agitano nel mondo, consacrandosi
alla cattura dell'attualità, non sanno di essere degli agenti
della Morte. Insomma
nella fotografia, sotto ogni aspetto, egli non può non
riconoscere che "c'è sempre questo segno imperioso della
mia morte futura".[v] Per
non parlare poi delle tante, finissime osservazioni che Barthes
propone a proposito delle relazioni della fotografia con il
motivo del lutto, e nella fattispecie con il lutto,
proustianamente mitizzato, per la morte di sua madre.[vi] D'altra
parte, vedremo che questo senso di morte che così spesso
colleghiamo alla fotografia è già come iscritto nel bisogno
stesso che l'uomo ha di fotografare e fa tutt'uno con esso,
rappresentando, come si suol dire, semplicemente l'altra
faccia della medaglia. La fotografia, infatti, nella sua
sostanziale ambiguità, evoca, sì, la morte in quanto blocca e
congela la vita nel suo libero fluire, ma esprime così anche
tutta la sua forza, nella misura in cui questo le consente, in
senso lato, di sottrarre qualcosa alla caducità. Senza contare
che proprio in questo blocco e congelamento dello spazio e del
tempo ha poi origine quel meccanismo di difesa di cui parleremo,
che permette alla fotografia di controllare e dominare il caos e
la violenza del mondo. Procediamo tuttavia con ordine, senza
tralasciare qualche altra preziosa testimonianza. L'uomo
dunque (e lo si vedrà meglio in seguito) si rivolge soprattutto
alla fotografia per dare consistenza e verità ad una realtà
troppo mobile e troppo labile, per sottrarla, come dice Calvino,
all'"ombra insicura del ricordo".[vii]
Soltanto dopo che è stata fotografata, una certa realtà, come
dice ancora lo scrittore, sembra poter contare sulla
"irrevocabilità di ciò che è stato e non può essere messo
in dubbio". Ma
questa stessa idea di irrevocabilità, insinuandosi nella nostra
coscienza, genera come un senso di finzione retrospettiva, che
uccide ogni spontaneità. È per questo, spiega Calvino, che la
realtà fotografata assume subito un carattere nostalgico, di
gioia fuggita sull'ala del tempo, un carattere commemorativo,
anche se è una foto dell'altro ieri. E la vita che vivete per
fotografarla è già in partenza commemorazione di se stessa.[viii] Ecco
allora che, come ha scritto a sua volta Susan Sontag, Ogni
fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa
partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della
mutabilità di un'altra persona (o di un'altra cosa). Ed è
proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte
le fotografie attestano l'inesorabile azione dissolvente del
tempo.[ix] Per
quanto ci riguarda potremmo provare a ribadire ulteriormente
questa associazione della fotografia con la morte, segnalando
intanto alcuni elementi oggettivi e documentari, che
appartengono alle sue origini nel secolo scorso. Quasi a dire,
dunque, che questo senso di morte che incombe su di essa
costituisce come una specie di suo marchio di fabbrica. Tralasciamo
per il momento l'anche troppo ovvio e troppo ampio riferimento
alla pratica, certamente antica, collegata all'usanza (o
all'esigenza) di fotografare i cadaveri, anche se, spaziando
dalla antropologia alla medicina legale, essa comporta tuttavia
più di un contatto con il mondo dell'arte. E cominciamo con
il menzionare due luoghi piuttosto curiosi della storia della
fotografia, che per quanto secondari, gettano una luce
particolare sul tema delle sue relazioni con la morte.[x] Il
primo di questi riguarda la diffusione delle cosiddette
'fotografie di fantasmi' di moda tra la fine del secolo
scorso e l'inizio di questo. Come si ricorderà, la fotografia
era chiamata dal movimento occultista e spiritista a dar prova
obbiettiva dell'esistenza di fenomeni strani e paradossali, a
cominciare appunto dai pretesi fantasmi, i quali effettivamente
sembravano capaci di impressionare le lastre fotografiche. Qui
l'associazione tra fotografia e morte non potrebbe essere più
eloquente: è il defunto stesso che ritorna e si lascia
fotografare... Inutile dire che tutto ciò oggi non ha nulla di
perturbante: è, anzi, solo oggetto di una quasi divertita
curiosità.[xi] Un
altro capitolo stravagante di storia della fotografia che sembra
portarci nella stessa direzione è quello relativo al cosiddetto
fantasma dell''ultimo istante', secondo cui la retina del
morto conserverebbe impressionate come su una lastra fotografica
le ultime immagini viste. Si tratta indubbiamente di un tema
fantastico, che però ebbe nella seconda metà dell'Ottocento
una notevole diffusione anche negli ambienti scientifici, dando
luogo a davvero singolari esperimenti. Venne ripreso soprattutto
dalla criminologia, nell'ipotesi che il volto dell'assassino
rimanesse impresso negli occhi della vittima. "È di questi
giorni - scriveva nel 1865 un giornale americano - la
scoperta di una nuova applicazione della fotografia alla
medicina legale; si è riusciti, sottoponendo al dagherrotipo la
retina di un individuo assassinato, a ritrovarvi l'immagine di
colui che lo aveva colpito."[xii] Si tratta di un motivo che ha avuto poi
una larga diffusione sia nella letteratura che nel cinema. Ma
al di là di questi aspetti comunque molto particolari, alle sue
origini la fotografia poteva essere collegata con la morte non
solo e non tanto perché spesso veniva eseguita nei cimiteri
(luoghi per eccellenza aperti e caratterizzati da molta luce e
molta tranquillità - ciò di cui si aveva bisogno per i
lunghi tempi di esposizione), ma soprattutto per
quell''aura' di cui parla Benjamin e che le vecchie foto
possiedono anche loro malgrado. Essa deriva tra l'altro
dall'espressione 'strana', un po' allucinata che la
stessa lunghezza della posa imponeva su quei volti antichi,
irrimediabilmente marcati, sotto ogni aspetto, dal segno di un
tempo trascorso. Si tratta poi sempre in questi casi, data la
distanza che ci separa da esse, di fotografie di defunti, magari
di un qualche antenato, appese ai muri delle camere da letto o
appoggiate sulla credenza del soggiorno, che evocano in noi
appunto un inevitabile, dolce e malinconico senso di un passato
che non torna, quali testimonianze e reliquie di un tempo che
non c'è più. Notava
al riguardo F. Bacon con un cinismo solo apparente, che maschera
lo stupore sconcertato di ognuno di noi di fronte all'enigma
estremo: Penso
che il fascino delle vecchie fotografie, a parte i graffi e le
macchie, sia il pensiero: "Adesso sono tutti morti". Quelle
persone camminavano e non pensavano che la morte li avrebbe
raggiunti; lo fanno tutti - pensano di essere eterni e che
sono solo gli altri a morire - tutta quella gente color seppia
che cammina nella strada del tempo; e tu pensi, "Adesso tutti
sono morti": è questo che li rende affascinanti.[xiii] Ma
a prescindere da questi elementi che fanno parte delle origini
della sua storia, la fotografia, come è naturale, può venire
associata alla morte sia in quanto oggetto, riproduzione di una
determinata immagine, sia in quanto idea e processo. Nel primo
caso intanto, seguendo un percorso di più meno libere
associazioni, possiamo menzionare: -
Innanzi tutto le 'foto dei morti': non penso tanto alla
ormai quasi saturante esibizione di cadaveri, a cui per i più
diversi motivi, ci hanno abituato la stampa e la TV (dove pure
non mancano 'belle' fotografie); o tanto meno al dubbio
fascino di certi scorci di camere mortuarie o di sale
anatomiche, che pure hanno attratto l'obbiettivo di alcuni
artisti e che la dicono lunga su certe implicazioni necrofile
della fotografia (o del fotografo);[xiv]
non penso neppure all'usanza, questa, sì, molto antica (si
ricordi la maschera funeraria) di ritrarre le sembianze del
morto prima della definitiva sepoltura, per conservarne,
attraverso l'immagine, la memoria, secondo un rituale che,
fatta forse eccezione per gli esempi di grandi pittori o grandi
fotografi nei confronti di grandi personaggi, reca un
inevitabile senso di lugubre inutilità - un'usanza,
comunque, oggi pressoché scomparsa nella nostra cultura;[xv]
parlando delle foto dei morti, penso più semplicemente alle
foto che vogliono ricordare i morti come vivi, nei cimiteri,
nelle vecchie camere da pranzo, nei polverosi album di famiglia,
nei disordinati scomparti dei nostri portafogli... -
E allora in generale il motivo del ritratto come sostituto
dell'assente, come tentativo di duplicare la realtà, la vita
per sottrarla alla morte, ma che finisce poi, mediante questa
negazione, per evocare la morte stessa. -
Con questo ci riallacciamo ad una costellazione ritenuta per
definizione unheimlich
quella del 'doppio', sorta appunto dal bisogno dell'uomo
di negare la realtà della morte dell'Io, che viene perciò
duplicato attraverso la sua immagine. Anche sotto questo profilo
si può valutare il senso vagamente perturbante della
fotografia. -
Del resto, tutte le vecchie fotografie, come abbiamo già
ricordato, recano intrinsecamente un''aura', ed evocano la
morte in quanto evocano un mondo che non c'è più: fotografie
come reliquie... (In realtà non soltanto le 'vecchie'
fotografie, ma anche quelle più o meno recenti, chiamate a
consacrare ricorrenze di per sé felici, come battesimi,
matrimoni, lauree, compleanni e anniversari vari - anche
queste fotografie producono un vago senso di malinconia: non
solo perché in esse, magari, ritroviamo chi oggi non c'è più,
ma soprattutto perché chi anche oggi è anagraficamente in vita
non è più quello della foto - a cominciare da noi stessi...) -
Dobbiamo poi ricordare la funzione della fotografia, o meglio,
del ritratto fotografico, nel lavoro del lutto. Ed è una
funzione ricorrente e sicuramente importante, ma non essenziale.[xvi]
Essa serve di appoggio, di supporto all'elaborazione psichica,
nel senso che quando abbiamo perduto una persona amata il
guardare continuamente le sue foto fa parte di quello che ho
definito il 'lavoro del ricordo': gli conferisce, per così
dire, sostanza e alimento, seppure con i limiti e le
contraddizioni rilevate anche da Barthes.[xvii]
Su questo tema restano illuminanti le pagine di Proust nelle «Intermittenze
del cuore» sul lutto per la morte della nonna - la foto della
nonna scattata da Saint-Loup che il Narratore 'riscopre'
solo dopo che la
memoria involontaria ha innescato il lavoro del lutto... Vediamo
ora di considerare la fotografia non più solo come prodotto,
cioè come semplice oggetto (ritratto, reliquia, foto-ricordo,
ecc.) ma anche come idea e processo, per quanto v'ha in essa e
nel suo gesto di premeditato e intenzionale. Ma prima, quale
momento di passaggio, e quasi a ribadirne la provvisorietà e la
relatività, è forse opportuno riproporre questa stessa
distinzione in relazione alla speciale esperienza del soggetto,
di un Io, cioè, considerato ora davanti all'oggetto
della propria fotografia e ora di fronte all'obbiettivo del
fotografo, durante il processo del venir fotografato. -
Eccoci dunque a guardare le nostre foto, di fronte cioè alla
nostra stessa immagine ritratta nella fotografia. Essa in fondo,
anche secondo la prospettiva di Barthes, è la rivelazione
dell'altro (morto) che è in noi: quando ci rivediamo nelle
foto non ci riconosciamo più, o meglio, ci riconosciamo come
altro, ci riconosciamo nella nostra morte, mediante lo sguardo
degli altri - nel senso che quello che scopriamo non è quello
che gli altri vedono ma quello che gli altri hanno
visto e che ora non esiste più, è morto appunto. È
questo comunque un processo che opera in senso inverso rispetto
alla fase dello specchio descritta da Lacan, attraverso cui il
bambino scopre il suo Io: o meglio, è lo stesso percorso, ma è
appunto un percorso di morte, perché l'immagine fotografica
riguarda ora, da un lato, un Io già strutturato, e
dall'altro, un Io che si trova alienato nella foto: la nostra
immagine, l'immagine viva che ciascuno di noi ha dentro di sé
viene come negata da quella, morta, che ci sta davanti nella
foto, che è un fantasma, uno spettro, qualcosa che ci è stato
rubato, che siamo noi e non siamo noi. Quindi lo 'specchio'
della foto tende ad innescare un processo di identificazione che
procede a ritroso, facendoci identificare con un Io che non
esiste più. Tuttavia questo processo, che la fotografia appunto
oggettiva, è non solo utile, nella misura in cui ci consente di
conservare il senso di unità dell'Io, o meglio, della sua
continuità tra passato e presente, ma si rivela per altri versi
addirittura essenziale. Esso infatti ci permette di elaborare
quel lutto impossibile che riguarda appunto la nostra stessa
morte - quella morte che non potendo essere altrimenti
rappresentata non può neppure venire accettata, venendo meno
così ogni meccanismo di difesa. Ma guardando il nostro
ritratto, in particolare la nostra fotografia, noi possiamo
finalmente rappresentarci la nostra morte in quanto ci
identifichiamo nello sguardo di chi ci sopravviverà:
quell'immagine che abbiamo sotto gli occhi è la stessa che
avranno domani i nostri figli o i nostri nipoti e possiamo così,
come dire? unirci al loro compianto.[xviii] -
E ora immaginiamoci invece di fronte all'obbiettivo del
fotografo mentre la nostra immagine sta per essere catturata da
quella specie di scatola magica che egli maneggia con tanta
disinvoltura. Nonostante l'abitudine e l'ostentata
indifferenza, noi, di solito, non possiamo contare su
altrettanta disinvolta sicurezza. L'essere fotografati è
sempre un'esperienza un po' speciale, subita con un certo
disagio, che riusciamo a malapena a nascondere e compensare
dietro il piacere di essere, come si suol dire, immortalati. La
morte infatti, come ha osservato Barthes in un passaggio
cruciale che abbiamo in precedenza volutamente omesso, fa parte
integrante dell'esperienza dell'essere fotografati: Immaginariamente,
la Fotografia (quella che io assumo) rappresenta quel
particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono né un
oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente
diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza
della morte (della parentesi): io divento veramente spettro.[xix] Questa
impressione soggettiva trova come un riscontro concreto
nell'antico e diffuso timore di essere ritratti, che ha radici
profonde nell'inconscio filogenetico dell'uomo. L'idea del
ritratto che uccide, assorbendo linfa vitale al modello, va
infatti collegata all'antica credenza nella magia
dell'immagine e trova ampia rispondenza sia a livello
antropologico che letterario. Dopo gli esempi scontati di
Hoffmann, Poe, Wilde, ecc, che riguardano comunque
esclusivamente la pittura, questo stesso motivo lo ritroviamo,
per esempio, nel romanzo di Bioy Casares, L'invenzione
di Morel, in cui la duplicazione fotografica della
realtà (una duplicazione naturalmente volta a conservare oltre
la vita la vita stessa) comporta comunque inesorabilmente la
morte dei soggetti rappresentati. -
Ma al di là di queste specifiche associazioni, la fotografia in
generale, come abbiamo già visto all'inizio, richiama
l'idea della morte in quanto blocca (e, in certo senso 'uccide')
il flusso della vita nella sua continuità e spontaneità: ogni
scatto è un istante rubato, sì, all'incertezza del divenire,
ma è anche, e forse soprattutto, qualcosa che viene sottratto
alla totalità e alla continuità del reale. In questo senso la
foto falsifica la realtà considerata nel suo fluire, la nega
come processo, la frammenta, la rende quindi inautentica,
sostanzialmente morta. Sotto questo aspetto, secondo un
meccanismo che conosciamo bene, più la fotografia vuole
ricordare la vita, e più finisce per evocare la morte. Questo
congelamento del tempo - ebbe a dire la Sontag - [è] la
stasi insolente e straziante di ogni fotografia.[xx] -
Eppure (lo abbiamo detto), nello stesso tempo, il fotografare
nasce come un gesto di difesa, che vuole conservare le cose che
si perdono. È quindi, da questo punto di vista, un atto di
ribellione contro la caducità e la morte: io fotografo una
realtà che sta per perdersi, sta per morire, assorbita,
inglobata in un fluire nullificante, che annienta lo specifico
del mio Io, qui ed ora. E la fotografia invece vorrebbe
salvaguardare quell'attimo che sono io, che sei tu qui ed
ora... Ma è appunto un gesto disperato, su cui già incombe
quella morte che si vorrebbe negare.[xxi]
-
Se ora cerchiamo di considerare più da vicino il gesto del
fotografo, vedremo che anche il voyeurismo, che è
universalmente considerato come una caratteristica essenziale
della dimensione psicologica della fotografia, può essere messo
a sua volta in relazione con la morte. Infatti il voyeurismo
implicito nell'atto del fotografare e soprattutto il
voyeurismo di chi osserva senza essere osservato[xxii]
comporta tendenzialmente una passività sempre più completa
dell'oggetto, che può arrivare a coincidere appunto con
l'ideale di un oggetto morto: una morte, dunque, da un lato,
iscritta già nella passività che la fotografia documenta; una
morte, dall'altro, che può essere cercata, auspicata (quando
non procurata) dal fotografo stesso come occasione di
osservazione e spettacolo. Del
resto, questo bisogno di guardare gli altri, spinti da una sorta
di pulsione ossessiva, fa tutt'uno con quella componente, per
così dire, cinica, insita nell'osservare in quanto tale,
nell'identificazione con una 'istanza osservativa'
privilegiata e onnipotente, che assiste come dall'alto allo
spettacolo delle miserie del mondo;[xxiii]
ma nello stesso tempo, rivela forse a monte un sostanziale senso
di impotenza, e ricorda come il gesto di un assassino
potenziale. O meglio, il voyeurismo tipico del fotografare può
essere associato alla costellazione sado-masochistica che a
volte si ritrova anche in certi assassini. Lo ricordo perché il
motivo del fotografo assassino è stato spesso sfruttato
soprattutto dal cinema, a cominciare da L'occhio
che uccide (1960) di Michael Powell, in cui il
protagonista ammazza le donne con un'arma nascosta nella
macchina fotografica, così che egli riesce a fotografare e
spiare gli ultimi istanti della vittima, osservando
letteralmente la morte riflessa nei suoi occhi. Il
film - nota la Sontag - presuppone una connessione tra
impotenza e aggressività, tra occhio professionale e crudeltà,
che porta alla principale fantasia collegata con la macchina
fotografica. La macchina come fallo è, al più, una fragile
variante dell'inevitabile metafora che tutti tranquillamente
adoperano.[xxiv] Quello
del film di Powell è certo un caso estremo, ma esso segnala che
esiste nel gesto indiscreto e curioso, e appunto, vampiresco del
fotografare qualcosa che viene vissuto a volte come patologico.
Continua la Sontag: Tuttavia
l'atto di fare una fotografia ha qualcosa di predatorio.
Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa
non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può
mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere
simbolicamente posseduto. Come la macchina fotografica è una
sublimazione della pistola, fotografare qualcuno è un omicidio
sublimato, un omicidio in sordina, proprio di un'epoca triste,
spaventata.[xxv] Ciò
trova un concreto corrispettivo nel fastidio, di cui si diceva,
che molta gente prova ad essere fotografata, soprattutto di
sorpresa: si ha infatti come la sensazione di venire violati
nella propria intimità, o meglio, nella propria essenza
individuale, nella propria identità, appunto come se ci venisse
davvero rubata l'anima. 2.
Meccanismi di difesa e implicazioni
psicopatologiche del fotografare A
questo punto riprendiamo e sviluppiamo un motivo che abbiamo già
incontrato, quello della fotografia come meccanismo di difesa,
che ci riconduce nell'orizzonte dell'arte come riparazione.
Credo del resto che sotto molti aspetti la fotografia concentri
e in qualche misura amplifichi funzioni che sono tipiche
dell'arte in generale. Vediamo quindi di riassumere i punti
principali: a)
il fotografare sembra innanzi tutto condensare un bisogno di
controllo sulla realtà che passa attraverso un processo di
conoscenza dell'oggetto di cui l'arte e la letteratura
costituiscono varianti più complesse ma in fondo meno esplicite
e dirette: Fotografare
- osserva ancora la Sontag - significa infatti appropriarsi
della cosa che si fotografa. significa stabilire con il mondo
una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza,
e quindi di potere.[xxvi] b)
Come la fotografia anche l'arte in generale vuole essere poi
qualcosa oltre la morte, che ruba, sottrae alla morte porzioni,
frammenti, istanti di vita e fantasmi di essa... c)
Anche nell'arte, come nella fotografia, c'è poi qualcosa di
vampiresco: queste fotografie che fermano, uccidono la realtà
ad ogni scatto, che a volte sembrano obbedire ad una vera e
propria follia omicida sono un po' l'immagine enfatizzata,
il corrispettivo tecnologico dell'artista che fruga tra la
sofferenza degli uomini, cercando modelli, pretesti per i suoi
quadri o i suoi romanzi (Poe, Proust...). d)
Nell'idea e nella pratica della fotografia è inoltre
implicito un altro meccanismo tipico dell'arte e della
letteratura in generale. Mi riferisco all'ideale, già
ricordato, di un'osservazione distaccata e superiore dei
fatti, che fa della vita e dei suoi dolori solo l'occasione
per una contemplazione estetica. Chi fotografa, infatti, deve
essere presente, è questa una conditio
sine qua non, ma al tempo stesso la sua è una 'non
presenza', una presenza, per così dire, solo tecnica e non
emotiva. Il fotografo non è, e non può essere, coinvolto dai
fatti, egli si limita a documentarli. È questo un elemento
imprescindibile, costitutivo, che non possiamo trascurare: "il
fotografo - scrive Arnheim - deve essere dove si svolge
l'azione", cioè deve essere presente, dentro alla scena,
parte di essa; "tuttavia, - aggiunge - quando si scattano
foto, si trasforma la vita e la morte in uno spettacolo che va
osservato con distacco".[xxvii]
Notava a sua volta Susan Sontag, citando esempi di immagini
memorabili in cui il fotografo ha ripreso eventi altamente
drammatici invece di cercare di evitarli: Fotografare
è essenzialmente un atto di non intervento [...] Chi interviene
non può registrare, chi registra non può intervenire.[xxviii] È
questo anche l'ideale di Kafka e di tutti i malati di
letteratura: essere partecipi, dentro la scena della vita,
magari come protagonisti, e al tempo stesso 'spettatori
imparziali', freddi e distaccati, che osservano le cose al
sicuro dietro un sipario di onnipotenza. Se
le cose stanno così, si possono capire certe implicazioni
psicopatologiche del (bisogno di) fotografare, soprattutto
quando esso diviene una sorta di irresistibile coazione (come di
chi vive con la macchina fotografica in mano, che vede e osserva
il mondo come una perenne occasione di fotografia): è un tipico
meccanismo di difesa, di cui ho parlato anche a proposito della
scrittura, e che fa capo a quello 'spettatore imparziale' di
cui dicevo prima: in questo modo la realtà finisce per non
esistere se non per
e nella sua
rappresentazione.[xxix]
Su questo motivo sono esemplari le pagine di Calvino, che
segnalano del resto come questa coazione ossessiva del
fotografo, che vorrebbe fissare e registrare praticamente ogni
momento della realtà e ogni frammento del mondo fa parte, in
fondo, della logica stessa della fotografia, o almeno di chi
pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è
come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente
bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare
quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più
fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni
momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità,
la seconda alla pazzia.[xxx] E
sarà proprio quest'ultima la via intrapresa dal suo
personaggio, che decide di fotografare l'oggetto del suo amore
in tutte le pose, a tutte le ore del giorno e della notte,
incessantemente. E a chi gli contestava questa singolare mania,
rispondeva: È
una questione di metodo. Qualsiasi persona tu decida di
fotografare, o qualsiasi cosa, devi continuare a fotografarla
sempre, solo quella, a tutte le ore del giorno e della notte. La
fotografia ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini
possibili.[xxxi] (Anche
in questo caso comunque si registra una precisa corrispondenza
con certe funzioni della letteratura, soprattutto di quella
autobiografica: si scrive la propria vita per darle un senso,
per sottrarla alla inconsistenza e alla precarietà di un
incessante trascorrere. Si pensi alle parole di Zeno nel Vecchione:
"Mi pare di non aver vissuto altro che quella parte di vita
che descrissi.") Nel
fotografare c'è poi un'identificazione sia con l'oggetto
fotografato (la 'vittima', la vittima metaforica del
fotografo oppure quella reale dell'evento tragico che il
fotografo spesso, troppo spesso documenta) sia con
l'aggressore, che in casi estremi può essere il fotografo
stesso. In questa duplicità sta dunque un doppio appagamento su
di un registro, come si diceva, sado-masochistico. E ciò spiega
l'ambiguità di fondo, tanto spesso denunciata, di certi
servizi fotografici, che sembrano (dichiarano di) fare appello
alla pietà, ma che in realtà a volte indulgono un po' troppo
ad un certo gusto del macabro o dell'orrore. Inutile ricordare
che ciò incontra, del resto, il favore del pubblico, a sua
volta dimidiato dalla stessa ambivalenza. Anche
in relazione a quanto si diceva a proposito di quel meccanismo
di difesa onnipotente che è parte integrante dello statuto del
fotografo come 'spettatore disinteressato', possiamo dire
infine che il bisogno stesso di fotografare corrisponde ad un
processo psichico che può essere così sintetizzato: ho
paura del mondo e io allora lo fotografo, perché
fotografarlo vuol dire bloccarlo, disinnescarne le potenzialità
offensive, in quanto la realtà fotografata, per quanto brutta e
violenta, per quanto paurosa, non ci può più offendere (anzi,
la possiamo ammirare, trasformandola in un evento estetico). Ma,
soprattutto, fotografare vuol dire, nell'operare stesso della
macchina fotografica (uno scatto dopo l'altro), parcellizzare
la realtà, inquadrarla, sezionarla, smontarla, pezzo per pezzo,
momento per momento; quel tutto, quella continuità che in
quanto tale ci sovrasta e ci annienta, noi la trasformiamo in
qualcosa di controllabile, di ordinato in sequenze separate:
ecco il gesto di difesa onnipotente: io fermo il mondo, che
viene ridotto all'interno del mio obbiettivo in una
successione di fotogrammi che io stesso ho scelto. In questo
modo ciò che appariva come un limite insopprimibile della
fotografia (la quale, si diceva, cancellando la continuità e la
processualità del reale, finisce per negare e uccidere la realtà
stessa) si trasforma in una delle sue maggiori potenzialità
difensive. A
questo punto, e a questo proposito, vien fatto di pensare alle
differenze tra fotografia e cinema. Il film, da una parte,
sembra essere più aderente al fluire ininterrotto della realtà,
anche se poi ogni film finisce inevitabilmente per ritagliare
solo delle sequenze, che soltanto il montaggio fa apparire
conseguenti e continue e comunque solo per la durata del film;
dall'altra, proprio a causa di questo flusso ininterrotto di
immagini, esso rischia di impedire l'elaborazione psichica
connessa con la parcellizzazione delle sequenze, fotogramma per
fotogramma, di cui si diceva. Penso in particolare ad una
penetrante affermazione di Kafka, che diceva che "il cinema
impedisce di guardare" perché le immagini "si
impadroniscono dello sguardo e allagano la coscienza.".[xxxii] Tornando
alla fotografia, questo meccanismo di difesa, che ritroveremo,
per certi aspetti, amplificato sia nel momento dello sviluppo e
della stampa che in quello successivo e conclusivo, quando il
fotografo può contemplare a suo agio le immagini da lui
riprodotte, questo meccanismo, dicevo, agisce dunque già quando
egli progetta di diventare, e diventa effettivamente fotografo:
nel caos e nella violenza del mondo, di quel mondo che gli fa
paura, lui non va indifeso allo sbaraglio, ci va armato della
sua macchina fotografica, che gli dà sicurezza e protezione. Ciò,
a volte, (sto pensando ai fotografi nelle missioni di guerra) si
traduce in qualcosa di istituzionalmente riconosciuto: il
fotografo ha infatti uno speciale lasciapassare e gode di uno
status appunto protetto. Ci sono poi precise testimonianze di
reporter che confermano questo senso di (falsa) sicurezza e
quasi di invulnerabilità dato loro dalla macchina fotografica.
E nei casi, purtroppo non infrequenti in cui essi restano
uccisi, l'evento desta anche in noi un senso di stupore
profondo, prima ancora che di pietà, perché sentiamo che è
avvenuto qualcosa di non previsto né prevedibile, che un patto
è stato infranto. Fatto sta che con la macchina fotografica in
mano l'uomo diventa un altro, uno che controlla e domina la
situazione. Non solo, secondo un meccanismo che abbiamo già
ricordato più volte, è un po' come se tutto quel caos, quel
dolore, quel sangue, quella violenza, che fino ad un attimo
prima lo avevano sconcertato e spaventato fosse ora solo un
pretesto, un'occasione per la ripresa, e gli fosse offerto
appunto come spettacolo.
Si vede allora come la spettacolarizzazione del caos, del
dolore, della morte non sia soltanto un dato, per così dire,
tecnico e accessorio, legato alla situazione oggettiva di chi
fotografa, o soltanto un inevitabile e quasi indesiderato
effetto collaterale, ma faccia parte del suo progetto, sia
qualcosa di iscritto nel fatto stesso di scegliere di essere
fotografo (come di essere artista, del resto). Questo
processo tuttavia trova il suo naturale compimento solo nelle
fasi successive. Infatti, come dicevo, sviluppare, stampare,
correggere, ingrandire, velare, sezionare, e poi guardare,
osservare, studiare i risultati così ottenuti è il punto di
arrivo di un gioco esaltante, che permette letteralmente di
riscrivere la realtà del mondo. Insomma la fotografia si
configura come un meccanismo di difesa onnipotente prima,
durante e dopo
il suo stesso operare. Consideriamo
ora una situazione più specifica, quando cioè il campo
dell'obbiettivo del fotografo via via si stringe e si
concentra su una determinata figura. E pensiamo in particolare
allo speciale rapporto che si istituisce con l'oggetto
amato/odiato, che viene fotografato ripetutamente, in tutte le
pose, in tutte le occasioni, con una frenesia che è
l'espressione del nostro desiderio incontenibile: l'oggetto
sembra appartenerci di più e meglio, è un modo per
controllarlo e dominarlo, per possederlo fino in fondo (ah, la
paura che ci sfugga! ed ecco che noi lo blocchiamo in quelle
mille pose che ci guardano senza poter opporre alcun
rifiuto...). Su questo aspetto sono davvero illuminanti le
pagine di Calvino, dove l'associazione tra sessualità e
fotografia è ampiamente esplorata, sia a livello implicito che
esplicito, sia come seduzione che come possesso: in certe
situazioni fotografare sembra davvero un modo, l'unico, per
possedere e godere dell'oggetto. Al di là della pornografia
esplicita, al di là dei nudi più o meno artistici, la gamma e
i gradi della perversione fotografica sono davvero pressoché
infiniti, e partono da lontano: come non ricordare, per esempio,
l'ambiguità violenta dell'innocenza esibita e compiaciuta
delle bambine seminude di Lewis Carrol? In
un contesto decisamente meno perverso, secondo una felice
espressione di Lalla Romano, il fotografare l'oggetto
d'amore da parte di un innamorato può talvolta essere
considerato letteralmente come un atto di adorazione: una formula che dà tutto il senso di
un'osservazione che si fa contemplazione rituale, con quanto
c'è in questo termine appunto di protratto ed enfatico, che
trasforma l'obbiettivo in uno strumento quasi religioso: "lei
sapeva che quella foto era un atto (per quanto contemplativo) di
adorazione..."[xxxiii]
scrive infatti Lalla Romano a proposito di una bellissima
fotografia che il padre fece alla madre. Ma
rimanendo all'interno delle particolari dinamiche che possono
caratterizzare la relazione del fotografo con il suo oggetto,
date le note implicazioni magiche connesse comunque alla
riproduzione di immagini, fotografare può essere anche un modo
per deturpare, ferire, violentare, o addirittura uccidere, più
o meno simbolicamente la persona rappresentata. Naturalmente
anche in questo caso la fotografia resta comunque una violenza o
un assassinio che si può perpetrare impunemente, e ripetere,
senza timori, con il nobile alibi, per giunta, dell'arte o
quanto meno dell'hobby innocente. Ma
si pensi al piacere successivo, quando, al riparo da occhi
indiscreti, in quella solitudine che anche per Barthes è in
qualche modo consustanziale al fatto di guardare le 'nostre'
fotografie, abbiamo l'opportunità di manipolare e contemplare
quell'oggetto amato/odiato, desiderato/temuto, che ora è in
nostro potere, di cui ne possiamo osservare ogni particolare,
magari ingrandito: oggetto lascivo del desiderio, oggetto
spogliato, indifeso, che noi scrutiamo e frughiamo con la lente
impura della nostra voglia di amore o di morte. Ma
la componente voyeuristica dello spiare, dell'osservare senza
essere visto salta fuori soprattutto nei giochi segreti della
camera oscura, (con "il
sottile piacere delle manipolazioni alchimistiche"
di cui parla anche Calvino),[xxxiv] in quella solitudine lasciva che il
termine stesso di 'oscuro' sembra direttamente evocare: è lì
che si compie il peccato di un possesso osceno, impudico: dove
il corpo è dato nella sua passiva, aperta, ostentata nudità...
E tutto questo è tanto più vero e più eccitante quanto più,
suggestionato dal risvegliarsi di quel potere antico della magia
dell'immagine, il fotografo sente dentro di sé che la figura
coincide in parte con la persona reale, che si è trasferita
dentro la carta: la sua stessa anima è ora lì in sua balia
nella trasparenza traslucida di quel foglio ancora umido. È
evidente che in tutto questo osservare, scrutare, sezionare,
ingrandire, ritagliare c'è anche qualcosa di macabro, oltre
che di osceno, che ricorda l'arte perversa di certi chirurghi
o di certi assassini sezionatori di cadaveri. O meglio, come
abbiamo in parte già visto, c'è in tutto questo qualcosa di necrofilo,
alla lettera, come di chi non è in grado di possedere nella
realtà l'oggetto del desiderio e lo possiede da morto, per
non sentirsi rinfacciare la propria sostanziale impotenza. Si
dirà invece che l'idea della stampa, della moltiplicazione
all'infinito dell'oggetto amato richiama finalmente una
creatività felice e solare, libera e potente: è bello
riprodurre mille volte l'immagine del nostro amore,
ingrandirla in un poster sul muro della stanza, oppure
ritagliarla nel formato più confacente, per inserirla nel
portafogli, in un libro, nel diario di scuola - quel volto che
amiamo e che noi riproduciamo con lo stesso entusiasmo e lo
stesso spirito di devozione di chi scrive mille volte il nome
dell'amata sul quaderno, sul muro, sulla sua stessa pelle. È
anche questo un modo per gridare al mondo il nostro amore e la
nostra felicità... È vero, ma questa creatività felice è
soprattutto qualcosa di 'a posteriori', di successivo ed
esterno all'essenza della fotografia, qualcosa che si brucia e
si consuma nell'atto stesso del suo prodursi, e che in fondo
non ha niente a che fare con il gesto intrinseco del
fotografare, con quanto v'ha in esso di violento e disperato.
Perché in fondo (e con questo torniamo al motivo iniziale del
nostro intervento) il viso che ci sorride dell'amata, sappiamo
che è un viso che non ci appartiene più, che non le appartiene
più, è qualcosa di passato, di morto, soprattutto di muto,
che difficilmente riesce poi a comunicarci il senso vivo
dell'emozione di cui la foto voleva essere una prova. Non
solo, quella foto che abbiamo tra le mani ora evoca anche
l'immagine, a sua volta perduta e 'morta' di noi quando
l'abbiamo scattata, di quel giorno e di quell'ora, di quelle
speranze, di quelle emozioni ormai perse per sempre. Insomma,
risulta davvero difficile connettere alla fotografia qualcosa di
assolutamente sereno: c'è infatti sempre quanto meno il
rischio che la felicità stessa che l'ha ispirata, nella sua
riproduzione e nella successiva contemplazione, si trasformi in
un vago senso di nostalgia e di rimpianto. C'è
poi un'altra componente che rende psicologicamente
interessante il nostro rapporto con la fotografia. È l'idea
che l'oggetto fotografato, una volta stampato, osservandolo e
scrutandolo, ricorrendo magari a qualche artificio tecnico, sia
capace di rivelarci una verità che diversamente resterebbe
nascosta: l'occhio meccanico dell'obbiettivo che vede di più
e meglio dell'occhio umano, cogliendo frammenti di verità che
altrimenti sfuggono. Non penso tanto a Blow-up,
(l'ingrandimento che riesce a rivelare qualcosa che neppure il
fotografo aveva visto, una realtà dunque che la macchina stessa
ha catturato autonomamente, - con quanto v'è in questo di
oggettivamente perturbante). Penso piuttosto a ciò che osserva
acutamente Barthes, a proposito di certe fotografie, che a volte
sono in grado di rivelare in noi la presenza di un antenato: Ma
ecco una cosa più insidiosa, più penetrante della somiglianza:
a volte la Fotografia fa apparire ciò che non si coglie mai di
un volto reale (o riflesso in uno specchio): un tratto genetico,
il pezzo di se stessi o d'un parente che ci viene da un
ascendente.[xxxv] Ma
questo mi ricorda anche i cosiddetti 'ritratti di famiglia'
di F. Galton, ottenuti sovrapponendo sulla stessa lastra più
volti, in modo che risultassero più evidenti le somiglianze
familiari. Con questo procedimento - notava Freud, paragonando
questa tecnica alla condensazione onirica, "i tratti comuni
spiccano più netti, mentre quelli che non concordano si
cancellano a vicenda e risultano nel quadro indistinti".[xxxvi] È
questa del resto una particolare variante del motivo ricorrente
del 'ritratto rivelatore', in grado di mostrare, al di là
di ogni possibile astuzia dissimulatoria, l'anima vera di un
uomo. E che ciò possa avvenire, non solo attraverso l'arte
lenta e sapiente della pittura, ma anche e forse soprattutto
grazie al potere rivelatorio della fotografia, per quel che di
magico e sorprendente si nasconde nella sua natura
esclusivamente meccanica, è cosa assai significativa, e non
tardò a stupire gli spiriti più avvertiti. Proprio di questo
parla anche Hawthorne, l'autore dei Ritratti
profetici, nell'episodio del dagherrotipista nella Casa
dei sette abbaini. La sostanziale malignità del
colonnello Pyncheon, che egli è sempre riuscito a dissimulare
attraverso i suoi modi cortesi, viene impietosamente e
definitivamente rivelata dal suo ritratto fotografico. Infatti: La
semplice luce del cielo aperto ha un meraviglioso intuito.
Mentre noi crediamo che dipinga soltanto la mera superficie,
essa in realtà fa emergere il carattere segreto con una
veridicità che nessun pittore oserebbe riprodurre, se pure
sapesse scoprirla.[xxxvii] Questo
loro carattere rivelatorio rende ancor più complicato e più
intenso il processo di identificazione con le nostre fotografie.
Infatti, l'Io rappresentato è, sì, per noi irrimediabilmente
passato e morto, ma il fatto di vederlo ora in questa
prospettiva che trascende la nostra concreta realtà di
individui, con quanto v'è in essa di precario, di limitato e
magari di falso, fa sì che la fotografia (magari proprio
'quella' fotografia) ci consenta di ritrovare un'unità più
antica e sostanziale: qualcosa che ci lega appunto ad una
dimensione lontana, che, se da un lato limita e, per così dire,
annega la nostra individualità, dall'altra la dilata in un
orizzonte al di là del tempo, dove anche il bene e il male, il
vero e il falso si stemperano e finiscono per perdere parte
della loro irritante, e in fondo irrilevante, puntualità - un
po' come avviene nei ritratti sovrapposti di Galton, dove
anche l'emergere dei contorni più netti fa parte comunque di
un alone indistinto. [i]
D'altra parte, a differenza forse di altre discipline artistiche, che
conservano in parte il privilegio di un certo esclusivo
retaggio, la fotografia, nonostante i suoi professionisti e
i suoi specialisti, sia a livello pratico che teorico, è
entrata così massicciamente nella realtà di ciascuno, che
anche il non addetto ai lavori è indotto ad avanzare le sue
riflessioni. Inoltre, la psicologia e la psicoanalisi non
solo hanno da sempre rappresentato un ottimo alibi
preventivo per incursioni in territori non sempre familiari,
ma attraverso il loro particolare punto di vista possono
effettivamente mettere in luce aspetti altrimenti
trascurati. [ii]
R. Barthes, La camera
chiara, tr.
it. Torino,
Einaudi, 1980, p. 11 [iii]
Ibid.,
p.16. [iv]
Ibid.,
p.
33. [v]
Ibid.,
p.
98. [vi]
Su questo si veda in particolare C. Assouly-Piquet, Le
retour du mort, "Critique",
1985 (459/460). [vii]
I. Calvino, L'avventura di un fotografo, in Gli amori difficili,
Torino, Einaudi, 1970, p. 35. [viii]
Ibid., p. 38. [ix]
S. Sontag, Sulla
fotografia, tr. it.
Torino, Einaudi,
1978, p. 15. [x]
Entrambi gli argomenti meriterebbero una trattazione
specifica più ampia, che qui tuttavia assumerebbe un
carattere eccessivamente digressorio. [xi]
Più suggestiva, se mai, appare la "bizzarra
idea di fotografarsi nell'estremo
atteggiamento",
cioè fingendosi morto, del nostro Capuana, che a sua volta
si dilettava sia di fotografia che di spiritismo. Li
chiamava "ritratti
profetici".
Questa ed altre informazioni si possono trovare nella tesi
laurea di Maurizio Marchesi, Fotografia e occultismo in Italia 1839-1913,
discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia nell'anno
accademico 1991-92. Quanto all'idea
di fotografarsi fingendosi morti, bisogna dire che si tratta
di un vero e proprio (e
ricorrente) archetipo nella storia della fotografia, che
troviamo addirittura in uno dei suoi primissimi esemplari.
È infatti datata 18 ottobre 1840 la terrificante versione
fotogenica dell'autoritratto
in forma di annegato dello sfortunato protofotografo
parigino Hippolite Bayard, a cui nessuno, come è noto, rese
allora il dovuto merito per la sua fondamentale scoperta
(prima di Daguerre e di Niépce) che gli consentiva di
fotografare direttamente sulla carta. (cfr. A. Gilardi, Storia
sociale della fotografia, Milano,
Feltrinelli, 1976,
pp. 6-7) [xii]
Cit. in M. Milner, La
fantasmagoria. Saggio sull'ottica fantastica, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1989, che dà un certo spazio a queste ricerche. Si veda anche J. Clair, Medusa.
L'orrido e il sublime nell'arte,
trad. it. Milano, Leonardo, 1989. [xiii]
Cit. in M. De Micheli, Il disagio
della
civiltà e le immagini, Jaca Book, 1981, p. 46. [xiv]
Penso, per esempio, alla selezione fotografica di Andres
Serrano, The Morgue,
di cui parla M. Brisebois in Ars
Moriendi: Andres Serrano, in Identità
e alterità. Figure del corpo 1895/1995, La
Biennale di Venezia, Marsilio, 1995. [xv]
Potrebbe essere altrimenti la testimonianza di un'assai
problematica e conflittuale relazione intercorsa tra il vivo
che fotografa e il morto che è fotografato (ho in mente
certe pagine del Male
oscuro di G. Berto) [xvi]
Non dimentichiamo che si sta parlando qui della foto come oggetto,
cioè del ritratto della persona amata che guardiamo dopo la
sua scomparsa. Molto diverso è invece il caso di chi
utilizza il ritratto, nel senso del fare il ritratto (sia
pittorico che fotografico), della persona morta o che sta
per morire. Ricordo, da un lato, l'episodio
raccontato da Zola ne L'oeuvre del
pittore che dipinge il figlio morto (dove il processo del
lutto coincide tragicamente e cinicamente con il lavoro dell'artista); ricordo, dall'altro,
il diffusissimo gesto di pietà filiale di chi è preso dal
desiderio di fotografare le persone molte anziane, pensando
all'imminenza
della morte: in questo caso la fotografia, o meglio il
fotografare, agisce anche come un lavoro del lutto
anticipato. [xvii]
Interessanti al riguardo le osservazione della già citata
Assouly-Piquet, che richiama, a questo proposito lo statuto
ambiguo della fotografia, la quale con il suo "gioco indefinito di morte e resurrezione" si situa "nel cuore di
un tentativo di raddoppiamento che designa l'impossibilità di un lavoro del lutto": in questo caso infatti, secondo l'autrice, il "lavoro del
lutto non si può fare. Il processo di simbolizzazione si
inverte, e libera un sentimento di perturbante. L'oggetto
assente diventa fantasma, con quanto v'è in esso di verità, di 'essenzialità',
è apparentemente vivo, e tuttavia irrimediabilmente morto"
(p. 815) [xviii]
Si apre con ciò la possibilità di rileggere il motivo del 'doppio'
(di cui la fotografia è chiaramente una variante) e del suo
costante rapporto con la morte in una prospettiva che ne
ripristina a tutti gli effetti l'antica
valenza di difesa. Il fatto che il sosia si riveli spesso
come l'immagine
della nostra morte, al di là dell'indubbio
effetto perturbante che questo comporta (un perturbante
tuttavia che nella fotografia è molto attenuato, come
attenuata è del resto l'immagine
stessa della nostra morte) costituisce infatti un mezzo
indispensabile e in un certo senso unico per consentirci di
elaborare quel trauma. [xix]
R. Barthes, op. cit.,
p. 15. [xx]
S. Sontag, op. cit.,
p. 98. [xxi]
Senza contare il paradosso, richiamato da Barthes, per cui
il Monumentum
che la fotografia è in grado di innalzare è per la materia
stessa in cui viene prodotto (la carta) quanto di più
caduco e deperibile si possa immaginare ed è quindi destinato
ad una scarsissima durata. [xxii]
Naturalmente questo
elemento è molto più accentuato nelle fasi successive,
quando la foto è stata scattata e il fotografo o chi per
lui può osservarla a suo piacere. [xxiii]
"Come il voyeurismo sessuale [il fotografare] è un modo per lo meno
tacito, ma spesso esplicito, di sollecitare ciò che sta
accadendo perché continui ad accadere. fare una fotografia
significa avere interesse per le cose quali sono, desiderare
che lo status quo rimanga invariato (almeno per tutto il
tempo necessario a cavarne una 'buona'
foto), essere complici di ciò che rende un soggetto
interessante e degno di essere fotografato, compresa, se l'interesse
consiste in questo, la sofferenza e la sventura di un'altra
persona." (S. Sontag, op.
cit, p. 12) [xxiv]
S. Sontag, op.
cit., p. 13. [xxv]
Ibid.,
p.
14. [xxvi]
S. Sontag, op.
cit., p. 4. [xxvii]
R. Arnheim, Sulla natura della fotografia, in Intuizione e intelletto. Nuovi
saggi di psicologia dell'arte,
tr. it. Milano,
Feltrinelli, 1987,
p. 130. [xxviii]
S. Sontag, op.
cit.,
p.11. [xxix]
Esito estremo di questo processo, allargato anche alla
prospettiva dello spettatore qualunque, quello passivo che
non gode dunque del privilegio di cui si diceva, è quello
della televisione nel mondo di oggi: un fatto che non sia
registrato dalla Tv non esiste; e viceversa un evento finto
visto in Tv acquista una precisa realtà. [xxx]
I. Calvino, op.
cit., p.
37. [xxxi]
Ibid.,
p. 43. [xxxii]
F. Kafka, Confessioni e
diari, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1972,
p. 1026. [xxxiii]
L. Romano, Lettura di un'immagine,
Torino, Einaudi 1975, p. 46. [xxxiv]
I. Calvino, op.
cit., p.
35. [xxxv]
R. Barthes, op.
cit.,
p. 103. [xxxvi]
S. Freud, III, pp.
271-2. [xxxvii]
N. Hawthorne, La casa dei sette abbaini, tr. it. in
Opere scelte,
Milano, Mondadori,
1994, p. 844. Potrebbe sembrare che qui il potere
rivelatorio della fotografia sia in relazione alla sua
capacità di cogliere, per così dire, quei 'lapsus
espressivi'
di cui parla anche la fisiognomica e che di solito sfuggono
alla nostra attenzione. In realtà in questo caso ci
troviamo di fronte a qualcosa di più profondo e di più
inquietante, perché non si tratta, nell'esempio citato, di un'istantanea,
in grado appunto di catturare
ciò che sfugge all'occhio
umano, ma di un dagherrotipo coi suoi tempi lunghissimi. Ed
è noto che i tempi lunghi della posa se mai tendono a
cancellare gli elementi transitori, gli 'accidenti' emotivi, per fissare solo i tratti salienti. In questo caso, dunque, ciò
che il ritratto del colonnello Pincheon rivela è davvero la
sostanza della sua anima.
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