14/1996
Studi di Estetica
III serie
anno XXIV, fasc. II

Ida Zaffagnini 
Ingegno, metafora e piacere in Thomas Hobbes

 

Thomas HobbesFin dall'Epistola dedicatoria di Elementi di legge,[i] Hobbes delinea una netta contrapposizione fra due tipi di sapere, su cui ritornerà più volte: il sapere matematico e il sapere dogmatico. "Il primo - egli scrive - è libero da controversie e dispute in quanto consiste unicamente nel confrontare figure e movimento" mentre nel secondo "non vi è nulla che non sia soggetto a discussione, poiché confronta uomini, ed interferisce nel loro diritto e profitto".[ii] Alla costruzione del primo tipo di sapere, Hobbes dedicò interamente il suo poderoso sforzo speculativo, drammaticamente protratto fra molti contrasti esterni[iii] ed interne difficoltà, nel tentativo, di cui rivendicò a sé la primogenitura,[iv] di estendere anche all'ambito morale e civile quella fondazione scientifica che in questo campo egli vede ostacolata proprio dalla pericolosità di un sapere retorico e sofistico che dissimula l'ignoranza delle questioni "con sentenze spiritose e salutari" e fa leva sugli affetti offrendo infiniti pretesti di dubbi, di dispute, di divisioni perniciose.[v]

Questa contrapposizione fra scienza e retorica sembra basarsi sulla fondamentale distinzione che Hobbes pone all'interno dell'ingegno naturale dell'uomo fra giudizio e immaginazione o fantasia.[vi] In Elementi di legge, dopo avere osservato che la differenza degli ingegni fra gli uomini "trae la sua origine dalle differenti passioni e dai fini ai quali il loro appetito li guida" e che, pertanto, chi è incline ai piaceri sensuali è meno allettato dalle immagini di gloria e di onore che stimolano quella rapidità di pensieri e quella ferma direzione verso un fine in cui consiste un buon ingegno, Hobbes rileva che, nel confrontare le cose che si presentano alla mente, "un uomo si diletta o col trovare una inaspettata somiglianza in cose per altri versi molto dissimili, ed in questo gli uomini pongono l'eccellenza della fantasia; e da ciò derivano quelle piacevoli similitudini, metafore ed altri tropi, mediante i quali sia i poeti che gli oratori hanno in loro potere di fare piacere o dispiacere le cose, e di farle apparire in buona o cattiva luce, come a loro piace; o anche nel discernere improvvisamente una dissomiglianza in cose che per altri versi appaiono identiche". E questa virtù della mente, grazie alla quale gli uomini giungono alla rigorosa e perfetta conoscenza, è comunemente chiamata con il nome di giudizio: infatti

 

giudicare non è altro che distinguere o discernere, e sia la fantasia che il giudizio sono comunemente compresi sotto il nome di ingegno.[vii]

 

Dunque l'ingegno è comune alla scienza e alla retorica ma la scienza, che mira alla conoscenza certa, richiede soprattutto il giudizio, mentre la retorica, qui unita alla poesia, fa leva sulla fantasia e mira a persuadere lusingando gli affetti con il gioco equivoco delle parole.

Sembrano così delinearsi due ambiti distinti nell'operatività ingegnosa dell'uomo, scienza da un lato, poesia e retorica dall'altro, guidati da facoltà diverse e con modalità e finalità diverse.

Ma, ed è questo il problema che ci poniamo, veramente la poesia si identifica completamente con il sapere retorico e si risolve in un gioco illusionistico che, facendo apparire le cose "in buona o cattiva luce", ha per fine la persuasione? o invece poesia e retorica, per quanto nei testi hobbesiani si possa sottolineare più di un debito pagato ad una situazione storica e culturale che della loro contiguità era profondamente intrisa, non vengono sottilmente distinguendosi fra loro, nella contrapposizione comune al sapere scientifico, delineando campi diversi per modalità operative e per fini? In sostanza, si tratta di verificare se, pur con ambiguità ed incertezze, sia possibile individuare in Hobbes l'emergere di una prospettiva di grande rilievo storico e teorico in cui la bellezza e le arti si ritagliano un ambito proprio, con prerogative specifiche, diverse e distinte non solo dalle modalità e finalità conoscitive della scienza ma anche dalle modalità e finalità persuasive della retorica.

Naturalmente non mancano soprattutto nelle pagine di critica letteraria,[viii] pur nella vivacità e freschezza con cui Hobbes anima, a volte con spunti geniali, i concetti della tradizione critica, le considerazioni consuete sulla funzione morale dell'arte e sul suo scopo di distogliere gli uomini dal vizio e di indurli ad azioni virtuose ed onorevoli[ix] o, come in Elementi di legge, rilievi sull'influenza che la tragedia può esercitare[x] ma, ci sembra, dopo avere riconosciuto il peso che concezioni così diffuse e consolidate potevano avere al suo tempo, che Hobbes, nella sua riflessione filosofica intorno all'ingegno, al linguaggio e alla bellezza, introduca alcuni elementi che prefigurano un diverso percorso giungendo a giustificare teoricamente un'attività intelletturale governata da una facoltà, l'immaginazione, che opera connessioni inedite con un gioco che ha il suo fine nel piacere che esso semplicemente e immediatamente produce.

Vediamo innanzitutto la netta distinzione che Hobbes autorevolmente delinea e sancisce[xi] nelle sue pagine fra le due facoltà della mente umana, fantasia o immaginazione e giudizio e fra le loro rispettive funzioni. L'immaginazione è in Hobbes una facoltà molto importante e complessa e Hobbes ne delinea con precisione la ricca fenomenologia. È noto che per Hobbes la causa dei nostri concetti o immagini è l'azione degli oggetti esterni sui nostri organi di senso; infatti "non si dà nessuna concezione nella mente umana che non sia generata inizialmente, in tutto o in parte, dagli organi di senso".[xii] Queste immagini o fancies, che non sono nulla di reale nell'oggetto ma solo ciò che appare a noi di quel movimento che l'oggetto opera, attraverso i nervi, nel cervello[xiii] o nel cuore,[xiv] non scompaiono quando l'oggetto si sottrae ai nostri sensi ma restano, per quanto più deboli e meno chiare, oppure noi possiamo richiamarle, e questa sensazione illanguidita (decaying) che permane dopo l'atto del senso è l'immaginazione o fantasia che, quando si voglia esprimere soprattutto l'indebolimento, l'attenuazione, l'essere passata, si chiama anche memoria.[xv] Ma l'immaginazione non è soltanto riproduzione passiva e debole dell'immagine della percezione sensibile; essa può anche liberamente unire, comporre immagini apparse isolatamente al senso come ad esempio un cavallo alato, una montagna d'oro, o un centauro, e dunque può costruire immagini mai prima percepite come tali in natura, può inventare figure nuove che Hobbes chiama significativamente finzioni della mente (Fictions of the mind).[xvi]

In tale immaginazione composta (compounded imagination), e nel suo distacco dalla semplice funzione riproduttiva e gnoseologica della simple imagination o memory, è la premessa di quell'operare della fantasia artistica cui Hobbes fa riferimento nel passo già citato di Elementi di legge ma che descrive più pienamente, riconoscendone la dignità e l'importanza, nell'esordio del De principiis.[xvii] In questo passo famoso, poi ripreso nella Answer to sir Davenant's preface before Gondibert, Hobbes mette espressamente la fantasia in relazione con le opere d'arte e ne caratterizza  l'attività come una rapida combinazione di immagini lontanissime, come una veloce connessione di dati sensibili entro il copioso deposito di materiali che la memoria le fornisce e che viceversa il giudizio provvede a ordinare e distinguere. Al giudizio che

 

lavora esaminando con gravità e rigore tutte le parti della natura e registrando con lettere il loro ordine, cause, usi e differenze ecc.,

 

cui spetta dunque il compito severo della scienza, viene opposta la fantasia che,

 

quando deve essere eseguita qualunque opera d'arte, trova i suoi materiali pronti sottomano per usarli e non ha bisogno d'altro che di muoversi rapidamente dall'uno all'altro [...]. Così che quando sembra volare da un'India all'altra, e dal cielo alla terra e penetrare nelle cose più difficili e nei luoghi più oscuri, nel futuro [...] il viaggio non è lungo perché essa non fa che andare verso se stessa e la sua meravigliosa rapidità non consiste tanto in movimento, quanto in una abbondante provvista di immagini bene ordinate e registrate perfettamente nella memoria.[xviii]

 

Attingendo entro il bagaglio della memoria, l'immaginazione o fantasia gioca veloce con le immagini, le unisce in maniera nuova cogliendo nessi impreveduti o, come Hobbes scrive con espressione felice nel De Homine, "confonde gioiosamente oggetti dissimili".[xix] Essa gioca anche con le parole. Il collegamento fra fantasia e linguaggio metaforico ricorre infatti costantemente nelle formulazioni hobbesiane dell'ingegno, non solo in quella di Elementi di legge cui si è fatto precedentemente riferimento ma anche nelle pagine molto dense del Leviatano in cui, riprendendo l'analisi di quella virtù intellettuale, Hobbes ribadisce la distinzione dell'immaginazione e del giudizio e delle loro rispettive funzioni. Qui, tuttavia, dove sembra prevalere una preoccupazione di tipo metodologico e scientifico, egli accentua particolarmente l'importanza del giudizio entro l'operare dell'ingegno; se infatti l'immaginazione consiste nella felicità di cogliere somiglianze raramente osservate da altri mentre una buona capacità di giudizio risiede nel distinguere, discernere, giudicare una cosa rispetto ad un'altra, nel caso che queste distinzioni non siano facili, solo una collaborazione molto stretta di immaginazione e giudizio possono caratterizzare secondo Hobbes il vero ingegno. Anzi egli giunge ad affermare che

 

il giudizio senza immaginazione è ingegno ma non lo è l'immaginazione senza giudizio.[xx]

 

L'intervento del giudizio, la discretion,[xxi] deve frenare e ordinare mantenendo la direzione dei pensieri al fine che una immaginazione troppo vivace potrebbe smarrire e deve dunque esercitare un fermo controllo sulla fantasia che, abbandonata a se stessa, cadrebbe nella stravaganza di collegamenti incomprensibili o inopportuni. Laddove il giudizio le ritagli le ali, una ricca fantasia saprà trovare legittimamente e con facilità le similitudini e le metafore appropriate che piaceranno "per la rarità delle loro invenzioni".[xxii] Consideriamo pertanto più da vicino la connessione che Hobbes pone fra giudizio, immaginazione e linguaggio.

Il giudizio esamina con gravità e rigore tutte le parti della natura e le registra con nomi; la sua capacità di discernere, trovando dissomiglianze laddove appaiono somiglianze, sembra dunque essere il fondamento dell'univocità e della costanza dei nessi tra quei segni sensibili, arbitrariamente imposti, che sono i nomi, e i concetti, che è il presupposto stesso del discorso scientifico. Per Hobbes infatti la scienza è un metodo, una disciplina del linguaggio secondo il modello matematico del calcolo. Ragionare non è altro che calcolare le conseguenze dei nomi univocamente definiti. La ragione, come Hobbes scrive nel Leviatano,

 

si consegue con l'industria, cominciando dalla corretta attribuzione dei nomi e impadronendosi successivamente di un metodo buono e ordinato nel procedere dagli elementi che sono i nomi, alle asserzioni che risultano dalla loro connessione, e ai sillogismi che sono connessioni di asserzioni, fino a raggiungere la conoscenza di tutte le conseguenze dei nomi che appartengono all'argomento in questione.[xxiii]

 

In tal modo, nominando i nostri concetti in modo rigoroso, operazione cui presiede il giudizio, e acquisendo un metodo corretto di calcolo, si costruiscono edifici logico-linguistici coerenti (cui inerisce il valore di verità o falsità), che hanno alla loro base punti di contatto incontrovertibili con i dati sensibili significati (la scienza è "evidenza di verità")[xxiv] in grado di estendere l'ambito di previsione al di là di ogni esperienza particolare.

Questa connessione fra giudizio e specificità del linguaggio spiega la ragione per cui Hobbes, analizzando nel Leviatano il tipo di ingegno che presiede alle varie attività intellettuali umane, afferma che "in ogni ricerca rigorosa della verità la capacità di giudizio è tutto", ed esclude dall'ambito della scienza le metafore "che professano apertamente l'inganno".[xxv] Alcune pagine prima, definendo la ragione e la scienza, tale esclusione suonava ancor più netta e definitiva:

 

La luce della mente umana sono i termini chiari, selezionati preliminarmente attraverso definizioni chiare e purgate dall'ambiguità [...]. Al contrario le metafore e le parole ambigue e senza senso sono come ignes fatui; ragionare su queste equivale a perdersi fra innumerevoli assurdità e il loro risultato sono la contesa, la sedizione e il disprezzo.[xxvi]

 

Quando appunto si tratta di ragionare, cioè di calcolare, le parole devono mantenere significati costanti e su questo piano giocare con le parole è opera di mistificazione che fa nascere opinioni infondate.

Viceversa la fantasia sembra avere una stretta relazione con l'equivocità del linguaggio. Cogliendo improvvisamente fra le cose somiglianze imprevedute, essa turba e perverte l'ordine istituito del linguaggio e favorisce il gioco della metafora in cui una parola viene spostata dal significato stabilito per indicare qualcosa d'altro sulla base di una somiglianza intravista.

 

Gli appellativi che sono universali e comuni a più cose - scrive Hobbes in Elementi di legge - non sono sempre dati a tutti i particolari secondo concetti e considerazioni simili in tutti; e questa è la ragione per cui molti di essi non hanno un significato costante, ma recano nella nostra mente pensieri diversi da quelli per i quali erano stati istituiti; e questi sono chiamati equivoci [...]. Anche tutte le metafore sono (per definizione) equivoche.[xxvii]

Se dunque il giudizio con la sua funzione di discriminare e di distinguere è la facoltà naturale che, aggiunta all'acquisizione di un metodo rigoroso di calcolo, permette la costruzione della scienza fondata sull'uso univoco dei nomi, la fantasia con il suo gioco rapido che scompagina il riferimento delle parole ai significati stabiliti presiede all'attività artistica e alla retorica.

Si tratta ora di riprendere l'esame dell'operare ingegnoso nella poesia e nella retorica, così come Hobbes lo configura, per vedere se l'uso del linguaggio figurato, che pertiene ad entrambe, e che del resto Hobbes ritiene proprio anche del parlare comune,[xxviii] non si riveli funzionale, nell'uno e nell'altro caso, ad esiti diversi. Trattando nel Leviatano, dei tipi di ingegno richiesti per le varie attività intellettuali dell'uomo, Hobbes si sofferma anche sulla poesia e sull'eloquenza e sembrano emergere alcune rilevanti differenze.

 

In una buona poesia - egli scrive - sia essa epica o drammatica come anche nei sonetti, negli epigrammi e in altre composizioni, sono necessarie sia la capacità di giudizio che l'immaginazione. L'immaginazione deve però prevalere perché queste composizioni piacciono per la loro eccentricità ma non devono dispiacere per la mancanza di discrezione.[xxix]

 

Dunque immaginazione e giudizio devono operare insieme affinché la ricchezza e la novità degli accostamenti imprevisti dell'immaginazione, mancando di una guida e di un controllo che orienti fermamente verso un fine, non degeneri in una specie di "follia" e questa attività di discretion del giudizio, che frena e contiene la fantasia, si configura come organizzazione del molteplice in una unità. Infatti nella prefazione, To the Reader, alla traduzione dei poemi omerici che tratta delle virtues of an heroic poem, Hobbes chiarisce inequivocabilmente che

 

la discrezione sta in ciò che tutte le parti del poema sian tali da condurre ad essere ordinate per rapporto al proposito e disegno del poeta.[xxx]

 

Ma tale collaborazione si inscrive nel segno della preminenza della varietà, e dunque della fantasia e della ricchezza del gioco metaforico del linguaggio che deve procurare piacere per la novità e la rarità delle sue invenzioni; in questo caso il fine della fantasia e dell'uso linguistico figurato è semplicemente quello di dar piacere, il piacere naturale e proprio dell'uomo di cogliere relazioni nuove ed inaspettate fra le cose.[xxxi] Viceversa, nelle varie forme di eloquenza, il gioco dell'immaginazione ed il linguaggio figurato che gli appartiene non vengono messi in relazione semplicemente con il piacere ma con il fine di sopraffare emotivamente mistificando la realtà. "Nei panegirici e nelle invettive l'immaginazione è predominante perché non si mira alla realtà ma all'onore e al disonore..." e "nelle esortazioni e nelle difese secondo che serva meglio allo scopo prefisso la verità o la dissimulazione, sarà principalmente necessaria la capacità di giudizio o l'immaginazione...".[xxxii] Laddove, come nella scienza, è in questione la verità, il giudizio (e il linguaggio rigoroso che gli pertiene) domina incontrastato ma se il fine è la dissimulazione, se si tratta di produrre un'apparenza di verità che convinca e seduca gli ascoltatori è l'immaginazione che agisce con il suo potere di fare assumere alle parole significati diversi in relazione alle passioni diverse di coloro che le usano.

 

L'eloquenza - scrive Hobbes in Elementi di legge - non è altro che il potere di ottenere credito in ciò che diciamo, e a questo fine dobbiamo trarre aiuto dalle passioni dell'ascoltatore [...]. E tale è il potere dell'eloquenza, che molte volte grazie ad essa un uomo viene indotto a credere di sentire sensibilmente dolore e danno, quando non sente nulla, e ad entrare in uno stato di indignazione, senz'altra causa di quella che risiede nelle parole e nella passione dell'oratore.[xxxiii]

 

La persuasione infatti mira a far nascere un'opinione da una passione,[xxxiv] per cui

 

la facoltà di parlare con potenza consiste in una abitudine acquisita di mettere insieme parole appassionate, e di applicarle alle presenti passioni dell'ascoltatore.[xxxv]

 

Mentre nella retorica l'attività dell'immaginazione e le espressioni ingegnose che ne conseguono sono funzionali a muovere gli animi per ottenere il consenso intorno ad un'opinione o ad un'azione, nell'arte l'immaginazione crea finzioni ricorrendo al gioco metaforico delle parole ma in funzione di produrre semplicemente meraviglia e piacere. In entrambi i casi non è in questione la verità poiché "non la verità, ma l'immagine crea la passione",[xxxvi] ma nella retorica il fine è esterno all'opera: ottenere il consenso, indurre un'opinione, convincere ad un'azione; nella poesia l'elemento illusorio ha il suo fine solamente nel piacere che produce. Infatti nell'esame che Hobbes conduce nel Leviatano degli usi particolari del discorso, egli ne indica uno che può offrire "piacere e diletto [...] attraverso il gioco innocente delle parole fatto per piacere o per ornamento" ben distinto da quell'abuso che mira, mediante l'uso metaforico delle parole, ad "ingannare gli altri".[xxxvii] È vero che parlando di "ornamento" o, come nel De corpore dove viene ripresa la distinzione, di "abbellimento",[xxxviii] Hobbes ha presente una concezione esornativa del linguaggio che è propriamente di matrice retorica e che appanna un poco il valore delle sue affermazioni, ma resta il fatto che, attraverso la distinzione netta fra piacere e ornamento ovvero inganno, viene riconosciuta un'attività dell'immaginazione che non ha altro fine se non il piacere che produce e che solo in esso trae la sua piena giustificazione, senza alcuna diretta implicazione pratica. Tale intuizione di un gioco innocente dell'immaginazione che ha in sé la sua finalità trova conferma anche nella trattazione hobbesiana della bellezza. E che essa implichi delle difficoltà si rivela già dal fatto che Hobbes denuncia in proposito un problema terminologico e ricorre alla parola latina pulchritudo dichiarando che manca nella lingua inglese un termine perfettamente corrispondente.[xxxix] Come ha opportunamente sottolineato in proposito il Tatarkiewicz, "si tratta di un'osservazione interessante per quel che riguarda la terminologia dell'estetica" dalla quale egli deduce che "inizialmente vi erano vari termini estetici particolari, ciascuno con un limitato campo di applicazione" (e Hobbes infatti cita, nel Leviatano, fair, beautiful, gallant, honourable, amable), "sostituiti con il passare del tempo da uno solo di essi, che gradualmente aveva ampliato il proprio significato fino ad abbracciare tutto il campo dei fenomeni estetici".[xl] Ma proprio in questa prospettiva giova poi rilevare che entro l'ambito dell'accezione molto ampia, di stampo latino, della pulchritudo, che Hobbes fa proprio, egli sembra individuare anche una dimensione puramente formale della bellezza. Secondo la formulazione del Leviatano, pulchrum è "ciò che per alcuni segni apparenti, promette del bene",[xli] laddove bene è per ognuno, secondo Hobbes, quel che gli piace e male quel che gli dispiace.[xlii] Ma poi ne distingue diverse specie che, nella versione latina del Leviatano[xliii], caratterizza con i termini formosus, honestus, decorus, jucundus, indicando così entro un'accezione generalissima del termine pulchritudo che si estende anche alle azioni ed ai caratteri, una bellezza che quanto meno è legata alla forma dal momento che viene definita dall'aggettivo formosus distinto per es. da honestus o jucundus. Ancor più esplicitamente, nel De Homine, dove pure Hobbes definisce la bellezza in generale come "quella qualità degli oggetti che fa sì che ci se ne aspetti un bene", egli distingue entro il genere più ampio della bellezza come indizio di un bene futuro, una bellezza delle azioni, che si chiama "onestà", e una bellezza della forma ed aggiunge che la bellezza "piace anche prima che venga acquisito il bene di cui è indizio grazie all'immaginazione".[xliv]

Operando questa distinzione, Hobbes, ci sembra, muove verso l'identificazione di una dimensione estetica e formale della bellezza. Se infatti affinché si provi un "piacere della mente"[xlv] occorre sempre un intervento attivo dell'immaginazione che mette in relazione le immagini del bene che ci si attende con la sensibilità attuale, realizzando il piacere qui ed ora, dobbiamo implicare una differenza nel caso che si tratti di una bella azione ovvero di una forma bella. Infatti mentre, in relazione ad una "bella" azione, l'immaginazione rende attuale il piacere rappresentandomi le cose buone che ne deriveranno, quando si tratta di una pura forma quel che conta è il modo della rappresentazione ed è rispetto ad esso che l'immaginazione realizza un piacere che non si risolve in niente altro. In tal caso non è l'ottenimento di un bene futuro che viene attualizzato dall'immaginazione ma la realizzazione del bene, cioè il piacere, è opera dell'immaginazione in un movimento che ha nella forma, nel modo della rappresentazione, il suo inizio e la sua fine. Nel caso della forma bella, si potrebbe dire, è l'immaginazione che motiva e realizza il piacere, che conduce e conclude il gioco. Non ci si attende altro se non quel piacere che l'immaginazione produce in relazione alla forma. L'introduzione di una bellezza che consiste nella forma e di un piacere dell'immaginazione ad esso relativo rappresenta pertanto l'importante riconoscimento di un processo tutto interno all'immaginazione, che non ha in vista null'altro al di fuori di sé. Nell'ambito complessivo di una nozione di bellezza che si estende a tutti gli aspetti o segni delle cose che contengono la promessa di un bene, si specifica un'accezione particolare, più ristretta, che consiste nella pura forma; e in questo caso, conviene sottolinearlo, l'immaginazione viene per così dire motivata e coinvolta nel modo della rappresentazione e da questo solo si trae il piacere.

È forse opportuno non forzare oltre le scarne considerazioni hobbesiane sulla bellezza, per quanto appaiano rilevanti. Si tratta evidentemente di spunti che emergono intorno ad un problema quale l'arte, e la poesia in particolare, che nelle opere filosofiche di Hobbes occupa un posto abbastanza marginale nell'economia dell'intero sistema. E tuttavia ci sembra non privo di interesse sottolinare, nell'antropologia hobbesiana, l'emergere della fisionomia di un ambito estetico autonomo rispetto a quello scientifico ed anche a quello propriamente retorico; un ambito dominato da una facoltà, la fantasia o immaginazione, che deve collaborare con il giudizio (la cui funzione su questo piano è di contenimento e di controllo), in cui l'uso del linguaggio figurato che si avvale di similitudini e di metafore, linguaggio che appartiene anche ad altri ambiti (linguaggio comune, eloquenza), si risignifica nei confronti di una finalità che gli è propria, il semplice piacere. Immaginazione, metafora, piacere: ecco gli elementi funzionalmente interdipendenti che configurano l'ambito specifico dell'arte, distinto nettamente da quello della scienza e, con una linea più sottile, ambigua, sfumata, anche da quello della retorica. Il gioco della poesia è innocente... Esso non mira a persuadere o a veicolare con tutti gli ornamenti appropriati verità o convinzioni morali ma l'illusione delle sue finzioni ci attrae con un piacere che è fine a se stesso. E se in Hobbes il piacere "è anche una sollecitazione o provocazione ad avvicinarsi alla cosa che piace",[xlvi] nel caso dell'arte ciò si potrebbe tradurre nella tendenza a protrarre il gioco dell'immaginazione, che rinnova il piacere stesso.

Per comprendere come sia possibile che Hobbes, così impegnato nella costruzione di un sistema rigorosamente materialistico e meccanicistico, venga riconoscendo in qualche modo un'attività della mente che ha il suo fine in se stessa e ne profili le modalità, forse non è ininfluente ricordareil fatto che dietro la riflessione hobbesiana su questi temi vi è "a rather wide and intimate experience of imaginative literature",[xlvii] che egli fu in proprio anche uomo di lettere e di gusto riconosciuto e che, a lato dell'impegno filosofico, coltivò una costante e partecipe attenzione ai fatti della letteratura. E proprio la marginalità stessa del problema rispetto alle sue preoccupazioni speculative dominanti possono averlo reso fruttuosamente meno sorvegliato, lasciando trasparire, pur nella mancanza di un contesto teorico organico, una prospettiva che in Locke doveva trovare una ben più matura, piena, e stimolante affermazione.[xlviii]

 



[i] Quest'opera fu pubblicata, per la prima volta, a Londra nel 1650 sotto forma di due opere separate, intitolate rispettivamente Human nature e De corpore politico; ma era stata redatta nel 1640 e circolò manoscritta. Nel 1889 Ferdinand Tönnies pubblicò la trascrizione del manoscritto originale reintegrando anche il titolo primitivo Elements of Law Natural and Politic. Si cita dalla traduzione italiana: Elementi di legge naturale e politica, a cura di A. Pacchi, Firenze, 1968 (d'ora in poi indicata con la sigla EL).

[ii] EL, pp. 3-4. La distinzione fra i due tipi di dotti (matematici e dogmatici) viene ripresa anche in EL, XIII, 3, p. 104.

[iii] Per gli attacchi di cui Hobbes fu oggetto da parte dei contemporanei inglesi si veda S. I. Mintz, The Hunting of Leviathan, Cambridge, 1962. Un quadro delle critiche più o meno feroci che Hobbes dovette fronteggiare è delineato da A. Pacchi nella Introduzione a Th. Hobbes, Leviatano, Bari, 1989, pp. XXI-XXIX (d'ora in poi indicato con la sigla L).

[iv] Se ne veda l'orgogliosa rivendicazione nella Lettera dedicatoria a Il corpo in Elementi di filosofia. Il corpo - L'uomo, a cura di A. Pacchi, Torino, 1972, p. 63 (d'ora in poi EF).

[v] Th. Hobbes, Il corpo, I, 7, in EF, pp. 75-6.

[vi] Per l'identificazione di fantasia e immaginazione si veda EL, p. 21 e L, p. 15. Già nel pensiero classico vi era quella confusione fra fantasia e immaginazione che, protrattasi anche lungo il pensiero medievale, Hobbes eredita pienamente; in Hobbes infatti i due termini vengono usati per lo più come sinonimi. Per una ricostruzione del problema da Platone ai neoplatonici e nel pensiero medievale si veda Phantasiaimaginatio, Atti del V Colloquio internazionale del Lessico intellettuale europeo, Roma, 1986, pp. 23-184. Utile anche, in quanto esamina i predecessori di Hobbes sul tema, C. De Witt Thorpe, The aesthetic Theory of Th. Hobbes, London-Oxford, 1940, pp. 37-48. Più in generale si veda sul tema dell'immaginazione nella riflessione filosofica l'analisi di M. Ferraris in L'immaginazione, Bologna, 1996.

[vii] EL, pp. 78-80.

[viii] Accanto alla preminente attività filosofica e scientifica, Hobbes coltivò per tutta la vita un vivo interesse per la letteratura. Amico di letterati e poeti, tradusse in inglese Tucidide e, in età assai avanzata, i poemi omerici, premettendovi un'importante prefazione sui pregi del poema eroico. Che anche in campo letterario le sue opinioni fossero tenute in gran conto è dimostrato dal fatto che il Davenant gli dedicò il suo poema Gondibert, sottoponendogliene la visione prima che fosse pubblicato e che Hobbes si premurò di rispondergli trattando del Gondibert e del poema eroico in generale. Inoltre, per il giovane duca di Cavendish di cui era precettore, Hobbes compilò, fra il 1631 e il 1638, una traduzione-compendio della Retorica di Aristotele, più volte ristampata nel corso del secolo (si veda in proposito W. S. Howell, Logic and Rhetoric in England, New York, 1961, p. 384). Per una delineazione dell'attività letteraria e critica di Hobbes e del suo rilievo, si veda C. De  Witt  Thorpe, op. cit., pp. 3-5; 150-169.

[ix] Si veda per es. The Answer to sir Davenant's Preface before Gondibert, in Th. Hobbes, English Works, a cura di Sir William Molesworth, London, 1839-45, vol. IV, p. 443.

[x] EL, p. 105.

[xi] La distinzione era già presente in Bacone il quale nel De Augmentiis (II,1) divide tutto il sapere umano in storia, poesia e filosofia secondo le tre facoltà della mente: memoria, fantasia e ragione. Come scrive L. Anceschi, "la distinzione fra scienza e fantasia" posta da Bacone "costituisce il fondamento di tutta l'estetica dell'empirismo inglese". L. Anceschi, Tre studi di estetica, Milano, 1966, pp. 41-2. Sull'estetica di Bacone si veda anche, dello stesso autore, Da Bacone a Kant, Bologna, 1972, pp. 37-67.

[xii] L, p. 11.

[xiii] EL, p. 14.

[xiv] L, p. 11.

[xv] EL, p. 21; L, pp. 14-5.

[xvi] EL, p. 23; L, p. 16.

[xvii] De principiis cognitionis et actionis è il titolo, tratto dalle parole iniziali, con cui M. M. Rossi ha trascritto e pubblicato un manoscritto hobbesiano scoperto fra le carte di Herbert di Cherbury, datandolo fra il 1637 e il 1640. Si veda M. M. Rossi, L'evoluzione del pensiero di Hobbes alla luce di un nuovo manoscritto in "Civiltà moderna", 1941, XIII, pp. 125-50; 217-46; 366-402. Il Rossi ha ripubblicato il testo del manoscritto e lo studio che lo commenta in Alle fonti del deismo e del materialismo moderno, Firenze, 1942, pp. 103-94. L'esordio del De principiis fu inserito da Hobbes nella sua risposta a sir Davenant relativa al Gondibert.

[xviii] The Answer, ed. cit., vol. IV, p. 449. G. Morpurgo-Tagliabue, citando questo passo, sottolinea il carattere antiromantico dell'immaginazione hobbesiana, che, nel suo ricondursi ad operare sulla memoria, non ha nulla di "alato, sfrenato, pegaseo" (G. Morpurgo-Tagliabue, Anatomia del barocco, Palermo, 1987, pp. 49-50).

[xix] Th. Hobbes, De Homine, a cura di A. Pacchi, Bari, 1970, p. 166.

[xx] L, p. 59.

[xxi] Sulla "discrezione" si veda L, pp. 57-9; sulla sua funzione in ambito poetico si veda To the Reader  (1675) dove Hobbes scrive: "... nella fantasia sta la sublimità di un poeta, quell'empito poetico che quasi tutti i lettori cercano. Essa vola via rapidamente per riportare argomenti e parole, ma se non trova a casa sua discrezione sufficiente a distinguere quali sono adatte ad essere usate e quali no, quali sono decenti e quali inopportune date le persone, il momento e il luogo, vanno perduti il diletto che possono dare e la loro grazia" (To the Reader, in English Works, vol. X, p. V).

[xxii] L, p. 57.

[xxiii] L, p. 38.

[xxiv] EL, p. 45.

[xxv] L, p. 58.

[xxvi] L, pp. 39-40.

[xxvii] EL, p. 37. Per un'ampia esposizione del problema del linguaggio in Hobbes si veda: L. Formigari, Linguistica ed empirismo nel Seicento inglese, Bari, 1970, pp. 141-155. Molto utile per il rilievo del nesso fra immaginazione e linguaggio: C. A. Viano, Analisi della vita emotiva e tecnica politica nella filosofia di Hobbes, in "Rivista critica di storia della filosofia", XVII, 4, 1962, pp. 355-92.

[xxviii] L, p. 38.

[xxix] L, p. 58.

[xxx] Cfr. To the Reader, ed. cit., vol. X, p. III.

[xxxi] L, p. 46.

[xxxii] L, p. 59;

[xxxiii] EL, pp. 247-8.

[xxxiv] EL, p. 105;

[xxxv] EL, p. 248. L'atteggiamento di Hobbes nei confronti della retorica, fomentatrice di rivolte e di sedizioni, e pertanto pericolosa per l'ordine comunitario, è sempre molto polemico e negativo. Si veda anche in Elementi filosofici sul cittadino: "l'oratore [...] non parte mai da principi veri, ma da opinioni già accettate dalla massa, che per lo più sono erronee, e cerca di mantenere il proprio discorso aderente non già alla realtà delle cose ma alle passioni che hanno  investito gli animi [...] Del resto non si tratta di un difetto proprio dell'uomo, ma insito nell'eloquenza che, come insegnano tutti i maestri di retorica, non ha per scopo l'esposizione della verità [...] ma la vittoria, e suo compito non è di ammaestrare, ma di persuadere." (Th. Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino, in Opere filosofiche, a cura di Norberto Bobbio, Torino, 1959, p. 221). Su questo aspetto e sul rapporto fra la retorica e l'analisi delle passioni ha osservazioni molto puntuali C. A. Viano, op. cit., pp. 355-61; 366-83.

[xxxvi] EL, p. 105.

[xxxvii] L, p. 27 (cors. mio).

[xxxviii] Cfr. Il corpo, II, 12, in EF, p. 87.

[xxxix] EL, p. 51.

[xl] W. Tatarkiewicz, Storia dell'estetica, III, Torino, 1980, pp. 474-5.

[xli] L, p. 43.

[xlii] EL, p. 50.

[xliii] Th. Hobbes, Leviathan, in Opera philosophica, quae latine scripsit omnia, a cura di Molesworth, London, 1939-45, vol. III, p. 42.

[xliv] De Homine, cit., p. 150.

[xlv] La distinzione fra piaceri del senso e piaceri della mente, i quali ultimi "sorgono dall'aspettazione che procede dalla previsione del fine o dalla conseguenza delle cose, se esse piacciono o dispiacciono al senso" è posta in L, p. 44; si veda anche EL, pp. 55-61. Sulla correlazione fra piaceri della mente ed immaginazione ci permettiamo di rimandare al nostro Fancy, Judgment, Wit in Th. Hobbes, "Studi di estetica", 1977, 4, pp. 33-41.

[xlvi] EL, p. 50.

[xlvii] Cfr. C. De Witt Thorpe, op. cit., p. 6.

[xlviii] Se ne veda l'analisi penetrante e sicura di L. Cozzoli, in L'equivoco della metafora, Firenze, 1996, pp. 21-39.

 

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