13/1996 Brian Rosenberg Da un certo punto di vista, la
storia del neostoricismo è breve, facilmente documentata e persino
secondo i criteri recenti, caratterizzata da un insolito grado di
autocoscienza teorica. Negli ultimi dieci anni, in un gran numero di
libri e articoli importanti, i critici hanno menzionato e definito
il movimento, differenziandone i presupposti e le metodologie da
quelle caratterizzate come "vecchio" storicismo, esprimendo
giudizi frequenti e acuti sull'opera l'uno dell'altro.[i]
Ciononostante, così come è accaduto a termini come New Criticism e New Wave,
l'aggettivo può essere fuorviante, perché tende ad oscurare le
connessioni tra un movimento contemporaneo e le precedenti influenze
e movimenti analoghi, in questo caso tra una forma di critica che è
diventata sempre più importante negli studi letterari, soprattutto,
anche se non solo, nello studio della letteratura rinascimentale, e
modi più vecchi di descrivere, comprendere, e rappresentare la
storia. Paradossalmente, il neostoricismo, trascurando di
riconoscere le sue radici più profonde come molti eventi che si
dichiarano rivoluzionari, è stato un movimento curiosamente
astorico. Fondamentalmente, il neostoricismo
ha combattuto una lotta rivoluzionaria su due fronti: contro il
"vecchio" storicismo, per lungo tempo componente importante
negli studi letterari, e contro le varie forme di critica astorica o
antistorica che hanno dominato tali studi fin dalla nascita, mezzo
secolo fa, del New Criticism. Il vecchio storicismo che ha i suoi
esponenti di spicco in J. Dover Wilson, Erich Auerbach, M. H. Abrams,
tende, secondo Stephen Greenblatt, ad essere "monologico": si
preoccupa cioè di scoprire una singola visione politica, di solito
identica a quella che si attribuisce all'intera classe dei
letterati, oppure all'intera popolazione". A questa visione, una
volta definita, il critico attribuisce "la dignità di un fatto
storico [...] cui l'interpretazione letteraria può fare
riferimento senza pericolo".[ii]
Prendendo in prestito una delle metafore più usate dai critici, la
letteratura "riflette" le usanze, le credenze, e i valori, tutti
stabili e non-contingenti, dell'età in cui è stata prodotta. Per
il critico formalista, strutturalista o decostruzionista,
all'altro estremo, questa sottolineatura del contesto storico è
nella migliore delle ipotesi inappropriata e semplicistica, e nella
peggiore auto-ingannevole. Le letture new
critical relativamente accessibili di Cleanth Brooks e
Robert Penn Warren, le letture più radicali di Roland Barthes, e le
letture ancora più sovversive di Jacques Derrida, che privano il
linguaggio di "ogni riferimento a discorsi storicamente
identificabili",[iii] hanno in comune lo stesso impulso a
distruggere l'idea di una letteratura come specchio e a
riorientare l'attenzione critica verso il gioco dei significati
all'interno del testo stesso, senza badare al contesto. Il neostoricismo cerca non solo di
"ricollocare il testo nel contesto in cui è stato generato", ma
di fare della considerazione del contesto storico il centro o la
base di tutto lo studio letterario, la condizione senza la quale
altre forme di studio significative non possono avere luogo. La sua
comprensione del contesto, comunque, lo distingue nettamente dalle
vecchie forme di critica storica, dal momento che non immagina un
passato monologico oggettivamente verificabile, espresso nelle opere
letterarie consolidate, ma un passato di voci, valori e centri in
competizione il cui significato viene costruito, non scoperto, dal
critico e dallo storico. Sebbene Edward Pechter possa esagerare
quando caratterizza la storia della critica recente come
"determinata, interamente o nella sua essenza, dalla lotta, dalla
contestazione, dai rapporti di potere, dalla libido
dominandi",[iv]
sembra giusto affermare che, per la maggior parte dei neostoricisti,
un'attenta lettura storica non dovrebbe rivelare l'articolazione
di una qualche coerente Weltanschauung,
ma tracce di dissenso e conflitto. E poiché ogni versione della
storia è una crezione soggettiva del critico, una comprensione del
contesto in cui la lettura ha avuto luogo è importante quasi come una
comprensione del contesto primario in cui la scrittura
ha avuto luogo. I neostoricisti sono ben consapevoli della tendenza
della critica a condividere o ad essere sedotta dalle pratiche e
dalle credenze della letteratura che essa analizza. Anche
l'implicita priorità del contesto sul testo, quest'ultimo un
riflesso (artificiale) del primo (reale), viene messa in crisi,
perché sia la letteratura che la storia, secondo Jean Howard,
vengono considerate "opache, divise al loro interno e porose,
sarebbe a dire, aperte alle reciproche influenze intertestuali",[v]
e perché si pensa che nessuna delle due dia accesso al vero e
all'immutabile. In un certo senso il neostoricismo cerca di
fondere i principi del vecchio storicismo con quelli del
post-strutturalismo, che rivendicano la storia alla critica
letteraria mentre la ridefiniscono come un "testo" il cui
significato non è ben definito e costruito linguisticamente. I neostoricisti hanno prontamente
riconosciuto un numero di fonti e di modelli importanti, di cui non
tutti sono coerenti o compatibili fra loro. Sia l'interpretazione
marxista della storia, ad esempio, sia quella che Herbert
Lindenberger chiama "l'alternativa alla visione marxista [...]
proposta da Michel Foucault"[vi]
hanno avuto una grande influenza. La prima sottolinea la dipendenza
di tutto il pensiero e della scrittura dall'organizzazione
economica, e quest'ultima sottolinea i rapporti tra l'episteme,
o modalità di conoscenza, di ogni cultura, e il suo modo di vedere,
comprendere e descrivere il mondo. Gli antropologi come Victor
Turner e, soprattutto, Clifford Geertz, hanno fornito agli studiosi
di letteratura delle strutture teoriche e degli esempi pratici;
alcuni critici di recente hanno ripreso, con pochi cambiamenti, sia
la spiegazione di Geertz sul modo in cui le società creano
significato attraverso i simboli, che il suo appello ad una
descrizione "densa" o altamente contestualizzata, di eventi
apparentemente banali. Storici sociali come Lawrence Stone, cui
viene attribuito il merito (o la colpa) di aver creato la
"nuova" storia, e storici come Hayden White, che mettono in
crisi la possibilità dell'oggettività storica, hanno contribuito
a far sorgere - e continuano a influenzare - la pratica del
neostoricismo.[vii]
Quello che emerge da queste influenze eterogenee (e da molte altre)
è un corpus critico più differenziato per metodo e scopo che, ad
esempio, la decostruzione o il formalismo russo, ma coerentemente
animato dalla convinzione che la letteratura deve essere compresa in
rapporto a un contesto storico il più possibile ampio e specifico. Anche se Lindenberger potrebbe aver
ragione nel far notare che il neostoricismo "ha poco a che fare
con il vecchio storicismo", e che è stato nutrito in un ambiente
unicamente "post-modernista",[viii] tale caratterizzazione suggerisce una
frattura troppo assoluta tra modalità vecchie e modalità
contemporanee di comprendere e rappresentare il passato. Non sto
alludendo a una sottile somiglianza tra la vecchia critica
storicista e quella neostoricista, sebbene a volte, per qualche
sorprendente ragione politica e retorica, i neostoricisti descrivano
i loro immediati predecessori come meno diversi e meno consapevoli
di quanto fossero in effetti. Nonostante le importanti somiglianze,
ci sono differenze molto estese e sostanziali tra l'opera storica
dell'attuale generazione di critici e quella delle generazioni
precedenti. Direi che i veri predecessori dei neostoricisti non sono
Wilson, Auerbach e Abrams, ma Walter Scott, Thomas Carlyle, John
Ruskin e George Eliot, cioè, i principali romanzieri storici e gli
storici immaginativi del XVIII secolo, perché, a parte le nette (e
inevitabili) differenze di vocabolario e di metodologia, le credenze
sulla storia condivise da questi scrittori di epoche precedenti
somigliano molto a quelle di alcuni teorici contemporanei. Oggi più
che mai, gli scopi della critica storica hanno cominciato a
somigliare a quelli della romanzo storico classico. Un gran numero di critici storici
contemporanei allude alla somiglianza tra critica e letteratura (Lindenberger,
ad esempio, osserva che "la scrittura storica [...] imita ed
esprime i gesti e le pratiche caratteristiche del campo artistico"[ix])
senza approfondire le implicazioni di questa connessione. Dire che
scrivere la critica storica è simile all'operazione di scrivere
testi letterari non significa semplicemente dire che entrambi i tipi
di scrittura sono estrapolazioni soggettive dal "fatto", ma
suggerisce presupposti comuni su ciò che costituisce il processo
storico, romanzesco, e interpretativo. I vecchi storici avrebbero
potuto distinguere le loro attività da quelle dei romanzieri in
molti modi inequivocabili; per i nuovi storici la distinzione è
difficile come lo era per alcuni dei principali scrittori della metà
del XIX secolo. Carlyle e George Eliot contestarono con vigore, come
un qualunque critico contemporaneo, la concezione tradizionale del
rapporto tra la storia e la letteratura, ed erano guidati, direi, da
una serie di credenze "contemporanee" che li portarono a una
serie di conclusioni "contemporanee". Sebbene essi dessero
risalto, naturalmente, non ai testi ma agli eventi o ai contesti
storici, alcuni teorici contemporanei si sono presi la briga di
dimostrare che le differenze tra questi due elementi sono più
illusorie che reali. Giudicata da una prospettiva moderna, la loro
comprensione di come e perché lavora lo storico/romanziere appare
sorprendentemente neostoricista. In altre parole, si potrebbe dire
che i critici neostoricisti scrivono narrazioni storiche i cui
soggetti non sono gli uomini nella storia ma i testi nella storia.
Questo non significa sminuire la loro impresa definendola meno
affidabile, fattuale, od obiettiva rispetto all'opera di altri
critici o storici, dato che tutte le forme di critica e storia sono
in certo qual modo delle elaborazioni fittizie. Significa piuttosto
suggerire che le elaborazioni particolari dei neostoricisti hanno
molto in comune, per metodo e scopo, con opere che vengono
convenzionalmente etichettate come romanzi storici, e molto meno con
opere caratterizzate come "vecchia" storia. Geertz, sui cui
sforzi tanti neostoricisti si sono basati, è più esplicito di
molti critici letterari nel riconoscere queste connessioni con la
letteratura; egli chiama "narrazioni" tutti gli scritti
antropologici, e "atto immaginativo" la sua forma di descrizione
"densa", un atto non sostanzialmente diverso dallo scrivere un
romanzo.[x]
Ironicamente, i critici neostoricisti, il cui soggetto immediato è
la letteratura, hanno preferito riconoscere le somiglianze tra
critica storica e antropologia piuttosto che quelle tra critica e
letteratura di immaginazione cui la stessa antropologia è affine. Ogni giustapposizione tra la
critica neostoricista e quella che sto definendo come narrazione
storica o, in senso più lato, storia immaginativa, viene resa più
complicata dalla diversità ed elusività di entrambe le categorie.
Il neostoricismo, come ho suggerito, assume una grande varietà di
forme (H. Aram Veeser arriva persino a definirlo come
"un'espressione senza un referente adeguato"[xi])
e il termine narrazione storica, in senso lato, può descrivere non
solo i romanzi degli scrittori da Scott a James Michener, ma una
gamma considerevole di sottogeneri e forme narrative. Ciononostante,
nessuna categoria è senza confini, ed entrambe contengono un nucleo
di opere interrelate che ci permettono di parlare significativamente
di interessi e sottolineature comuni.[xii]
Ho già identificato quelle che considero le caratteristiche
distintive di molta critica neostoricista. Per "narrazione
storica" intendo non soltanto ogni romanzo ambientato nel lontano
passato, ma, sulla scia di Gyorgy Lukács, romanzi che vedono
l'esistenza dell'individuo e della società come "qualcosa di
storicamente condizionato", e la storia come una forza "che
influenza profondamente [...] la vita giornaliera."[xiii]
Lukács, e con lui virtualmente ogni critico successivo del genere
romanzo, concordava sul fatto che ciò che rende la narrazione
"storica" più interessante è l'uso della storia non come
scenario ma come soggetto: la collocazione dell'azione in un
periodo del passato delineato con precisione non è fine a se
stessa, ma un mezzo per rivelare, in modo più evidente che nei
romanzi di vita contemporanea, il meccanismo dei processi storici.
Sebbene anche i romanzi moderni possano occasionalmente utilizzare
la storia in questo modo, la tradizione cui Lukács si riferisce
sorse durante il XIX secolo e fu caratteristica di quel periodo, in
cui le influenze correlate di Scott e Carlyle erano più forti, e
quasi ogni grande romanziere europeo si fece le ossa con il genere
che si riteneva avesse avuto origine da Scott. Due somiglianze casuali tra le
situzioni del neostoricismo contemporaneo e della storia
immaginativa dell'Ottocento balzano immediatamente agli occhi.
Entrambi i movimenti, tanto per cominciare, sono reazioni conscie
sia ai vecchi modi, più oggettivisti, di rappresentare la storia,
sia all'evidente indifferenza per la storia. George Eliot,
definendo la sua forma ideale di immaginazione storica, chiede
"qualcosa di diverso dal trattamento astratto che appartiene alla
storiografia solenne [...] e qualcosa di diverso dalla schematicità
pittoresca della solita narrazione storica"[xiv],
qualcosa che combini la fedeltà al passato della prima con la
concretezza e la soggettività riconosciuta di quest'ultima. Scott
rifiuta gli eccessi della storia "pedante" e del raccontare
astorico, e Carlyle, lo storico dell'Ottocento con la maggiore
autocoscienza metodologica, definisce l'"artista nella storia"[xv]
distinguendolo sia dallo storico politico tradizionale, sia dal mero
narratore di storie. Pur non essendo un compromesso tra lo
storicismo e il post-strutturalismo, è un tentativo analogo di
utilizzare le tecniche di due forme narrative che prima erano
incompatibili, in questo caso sia quelle della storiografia del
XVIII secolo, sia quelle del romanzo realistico che stava diventando
sempre più popolare. La competizione epistemologica tra queste due
forme fu così intensa nei due secoli precedenti, come lo è stata
quella tra critica storica e astorica nel nostro, e all'interno di
quella competizione certi autori di romanzi storici occupavano una
posizione di mediazione paragonabile a quella dei neostoricisti. Allo stesso modo, la tendenza
neostoricista a problematizzare la distinzione tra "letteratura"
e forme non letterarie come la critica e la storia, non è affatto
una tendenza nuova. Quando R. G. Collingwood scrisse nel 1946: "in
quanto opere di immaginazione, l'opera dello storico e quella del
romanziere non sono diverse",[xvi]
egli basava il suo giudizio in larga parte su esempi forniti dagli
scrittori dell'Ottocento, molti dei quali erano consapevoli delle
fondamentali somiglianze tra la narrazione e la storia. Le
distinzioni di genere sono state tracciate e sistematizzate più
facilmente in questo secolo che in quello precedente, quando le
opere di Carlyle, Ruskin e Disraeli (e in misura minore, di Tolstoy
e George Eliot) resistevano alle classificazioni convenzionali, e
quando i romanzieri e gli storici erano più propensi a riconoscere
il loro comune impegno sia nei confronti della verosimiglianza che
della ri-creazione immaginativa. Infatti, la caduta in discredito di
un'opera come The French Revolution
di Carlyle può essere in parte attribuita alla sua aperta adozione
di tecniche proprie del romanziere (così come il recente interesse
per Carlyle può essere stato incoraggiato dall'avvento del
neostoricismo). Quando Jean Howard afferma che fino a poco tempo fa
veniva universalmente riconosciuto il fatto che "storici e critici
possono trattare obiettivamente i fatti della storia",[xvii]
o quando Lindenberger afferma che "gli storici di una volta [...]
pensavano fosse giusto o responsabile cancellare se stessi",[xviii]
nessuno dei due ha in mente una figura come Carlyle, che non pretese
mai di essere obiettivo, né fece il minimo tentativo di cancellare
la sua personalità esuberante e le sue idiosincrasie. Per una serie di motivi Carlyle è
la chiave per comprendere le connessioni tra il neostoricismo e i
vecchi modi di rappresentare la storia. Come hanno fatto notare gli
scrittori da George Eliot a Gertrude Himmelfarb, la sua voce e le
sue idee esercitarono una straordinaria influenza sul modo di
pensare dell'Ottocento[xix]
e, insieme all'opera di Scott, divennero la fonte primaria
dell'atteggiamento nei confronti della storia che è alla base del
successo del romanzo storico. In opere come The
French Revolution (1837), Past
and Present (1843) e,
ancora prima, in saggi come On
History (1830), Biography
(1832), e On History Again
(1833), Carlyle creò la teoria ed esemplificò la pratica di quella
che ho chiamato storia immaginativa; sebbene non fosse un romanziere
in senso stretto, fornì ai romanzieri delle ragioni per scrivere di
storia e modelli per farlo in un certo modo. Forse è ancora più
importante che egli affermasse con altrettanta sicurezza di un
neostoricista la centralità e perfino la necessità della
contestualizzazione storica. Pertanto, in On
History Again egli definisce la storia non solo come
"lo studio più consono" ai tempi moderni, ma come "l'unico
studio" che "include tutti gli altri".[xx]
Quando David Simpson descrive il suo desiderio di inscrivere "il
politico" (che potrebbe anche essere chiamato semplicemente "lo
storico") come "l'unico centro credibile" della critica
letteraria,[xxi]
non sta innalzando la storia a nuove altezze ma sta restituendola
alla posizione di preminenza descritta da Carlyle, per cui tutta la
scrittura era in qualche modo storica e tutte le forme di conoscenza
erano storicamente condizionate. "La storia", scrisse Carlyle
agli inizi della sua carriera, "in quanto è alla base di ogni
scienza, è anche il primo prodotto ragguardevole della natura
spirituale dell'uomo; la sua prima espressione di ciò che può
essere chiamato pensiero".[xxii]
Si potrebbe obiettare che Carlyle e
un teorico contemporaneo come Simpson intendono cose molto diverse
quando parlano di "storia" e di ricreazione storica. Da un certo
punto di vista, naturalmente, questo è vero, come è ovvio che sia
dopo un secolo e mezzo. Per citare due ovvie differenze, Carlyle si
sarebbe fidato in misura minore rispetto ai critici moderni, del
potere della letteratura di modellare la storia e del potere del
linguaggio di costruire e controllare la propria comprensione della
realtà. E' tutta via notevole osservare fino a che punto i
significati della storia per Carlyle e per i neostoricisti si
sovrappongano e, insieme, differiscano dai significati
caratterizzati come vecchio storicismo. La sostituzione della storia
monologica con storie diverse, in competizione fra loro, che è il
nucleo centrale del programma neostoricista,[xxiii]
sarebbe stato largamente accettabile per Carlyle, che distingueva
tra la natura "lineare" della narrazione storica e la natura
"solida" dell'azione storica, e che prese in giro il
compiacente tentativo dello storico di rintracciare le cause e gli
effetti individuali "attraverso un certo numero di anni e di
miglia quadrate, quando l'intero è una vasta, profonda immensità,
e ogni atomo è 'incatenato' e intrecciato con il tutto".[xxiv]
Per Carlyle, come per il neostoricista, la storia non viene scoperta
ma creata, possibilmente dall'arbitrio e certamente dalla
soggettività dello storico, a partire da un materiale del passato
densamente intrecciato. Negando la possibilità dell'oggettività
storica, Carlyle insisteva invece che "l'uomo più dotato può
osservare, ancor più può registrare, solo le sequenze
delle sue impressioni",[xxv]
e capiva che il contesto da cui hanno origine i documenti storici è
altrettanto significativo dei documenti stessi. Sicuramente la
diffidenza neostoricista nei confronti dell'autorità e
dell'ortodossia, descritta da Lindenberger come "ereditata dalla
teoria contemporanea",[xxvi]
è fortemente presente nelle prime opere di Carlyle, dove le storie
canoniche di Hume e Robertson vengono scartate in quanto limitate e
con poco spessore. In pratica, il neostoricismo può
differire più nettamente da vecchie forme di critica storica nella
sua volontà di considerare molti dettagli tratti da una grande
varietà di discorsi e di esperienze e nella sua adozione della
tecnica narrativa di incapsulare l'astratto nel particolare.
Specificità che i critici precedenti possono aver scartato come
irrilevanti e non letterarie, la natura delle prigioni del
Settecento, ad esempio, o del mercantilismo rinascimentale, vengono
utilizzate come mezzi per contestualizzare e interpretare la
letteratura, così come Geertz si basa su un universo di dettagli
che gli antropologi precedenti possono aver trascurato. La sua
definizione del campo di studi particolare dell'antropologia
potrebbe oggi servire come una descrizione più generale delle
ultime tendenze della critica e della storia sociale: l'antropologo si avvicina in modo caratteristico [...] a più
ampie interpretazioni e più astratte analisi procedendo da
conoscenze molto estese di faccende estremamente piccole. Egli
affronta le stesse grandiose realtà che altri - gli storici, gli
economisti, gli studiosi di scienze politiche, i sociologi -
affrontano nei loro contesti più fatidici: il Potere, il Mutamento,
la Fede, l'Oppressione, il Lavoro, la Passione, l'Autorità, la
Bellezza, la Violenza, l'Amore, il Prestigio; ma li affronta in
contesti abbastanza oscuri [...] per togliere loro le maiuscole. In
contesti così umili, queste costanti troppo umane, [...] assumono
una forma dimessa: ma il vantaggio è proprio questo.[xxvii] Questa caratterizzazione, che
coglie bene la scarsa propensione del neostoricismo a ipostatizzare
concetti come il Potere e il Mutamento, non può essere messa in
dubbio. Ad ogni modo, si potrebbe sostituire "antropologo" con
"romanziere storico" nella prima riga, e l'argomentazione non
cambierebbe, perché Geertz qui ripropone la distinzione che si fa
comunemente, soprattutto da parte dei romanzieri, tra l'opera dei
romanzieri storici e quella degli storici tradizionali. Liberi dalla
responsibilità di doversi basare interamente sulle prove
documentarie, e dovendo affrontare l'esigenza di creare un mondo
densamente realistico, i romanzieri, o gli storici che adottano
metodi da romanzieri, possono permettersi di fornire "conoscenze
estese di faccende estremamente piccole"; e quello che viene
sacrificato in verificabilità viene recuperato in vitalità e
interesse umano. Ecco perché George Eliot chiedeva che si
scrivessero delle storie immaginative sulle "circostanze che
condizionano i singoli destini",[xxviii]
rifacendosi, di nuovo, all'esempio di Carlyle, che aveva rifiutato
il ruolo dello storico politico tradizionale - "che non vede
altro mondo se non quello delle corti e degli accampamenti militari;
e scrive solo di come i soldati furono infilzati e uccisi [...]"
- come se fosse puramente e semplicemente "un Gazzettino più o
meno istruttivo"[xxix]
cieco ai dettagli più semplici ma in ultima analisi più
importanti. Le tecniche della descrizione "densa" di alcuni
storici contemporanei vengono riprese direttamente dalla narrazione
storica così come dall'antropologia, forse in modo ancor più
diretto, dal momento che l'opera di immaginazione creata dal
critico storicista appare a volte più romanzesca che antropologica.
I neostoricisti spesso descrivono i
loro rapporti con il passato in termini che una volta venivano
riservati ai romanzieri e ad altri artisti creativi. Così S.
Greenblatt rivela, all'inizio del suo recente libro: "Il primo
impulso a scrivere questo libro è stato il desiderio di parlare con
i morti."[xxx]
Geertz, in modo simile, celebra "la capacità dell'immaginazione
scientifica di metterci in contatto con le vite di estranei".[xxxi]
Dominick La Capra chiede che ci siano "dei dialoghi (con) i
morti", e Jerome McGann degli "incontri tra il passato e il
presente."[xxxii]
E' ovvio che sia la tendenza ad incarnare il passato in figure
umane ("i morti", "le vite di estranei") che la tendenza a
personalizzare le interazioni tra il presente e il passato
("dialoghi", "incontri") rimanda al rapporto tra i lettori e
i personaggi dei romanzi più che il rapporto tra i lettori e i
soggetti della critica storica tradizionale. I romanzieri storici
hanno di solito citato la propria abilità di incorporare il passato
in specifici personaggi fittizi e ad introdurre il lettore nel mondo
di questi personaggi come il loro principale vantaggio rispetto allo
storico puro e semplice, per cui il passato deve necessariamente
rimanere più impersonale ed astratto. In luogo del mondo fisso,
monologico, descritto dagli storici, i romanzieri poterono creare un
passato diverso, controverso, sempre in evoluzione. Invece di
incoraggiare lo studio del passato, i romanzieri si poterono
permettere di farvi entrare qualcuno, e di farglielo vedere dalla
prospettiva di coloro per i quali esso era il presente. Il passato
nel romanzo storico, in altre parole, ha una sorta di perenne
attualità che si richiede all'azione nella maggior parte delle
opere di narrativa, mentre il passato nella tradizionale critica
storica non la possiede, e i neostoricisti dicono che dovrebbe
averla. Questo passato, inoltre, è più apertamente il prodotto di
una creazione e di una interpretazione, meno ovviamente il prodotto
di una scoperta, rispetto a quello descritto nei libri di storia: già
la sola pretesa del romanziere di essere
un romanziere, dopo tutto, si basa sull'ammissione di stare
scrivendo ciò che non è vero, nel senso più letterale del
termine. Quando i neostoricisti ammettono che stanno modellando
soggettivamente il passato e rifiutano il modello progressivo,
scientifico della loro disciplina "di cui (la vecchia storia) era
così orgogliosa",[xxxiii]
essi stanno accettando la condizione dei romanzieri, le cui opere
sono sempre in competizione ma non possono mai soppiantarsi l'una
con l'altra. Termini come dialogo
e incontro
suggeriscono deliberatamente che le attuali condizioni del critico
saranno oggetto dello studio neostoricista tanto quanto il passato
dell'opera letteraria: la critica significherà non l'analisi di
un momento nel tempo, ma l'unione di due momenti. Di nuovo, un
tale programma ha più cose in comune con la forma di fiction
storica che ho identificato che con la critica storica
convenzionale. Se si suppone, come ha fatto qualche critico della
vecchia scuola storica, che è possibile un approccio relativamente
obiettivo alla letteratura e alla storia, allora la situazione
culturale e storica del critico diventa largamente irrilevante. M.
H. Abrams non qualifica né contestualizza il suo studio sul
Romanticismo in The Mirror and
the Lamp, quando fa notare che sta scrivendo negli anni
cinquanta.[xxxiv]
Tuttavia, avendo negato la possibilità dell'obiettività, i
neostoricisti devono porre le loro visioni del passato in rapporto
alle proprie circostanze personali, professionali, sociali e altro.
Critici come la Howard, Lindenberger, McGann, Simpson e Louis
Montrose comprendono che la loro metodologia storica deriva, con
diverse sfumature, dalla loro attuale situazione nell'accademia, e
alcuni arrivano a considerare le loro letture del passato in primo
luogo impegnate a dare una risposta agli interessi e alle angosce
del presente. "Un modo di vedere il recente rinnovato interesse
per le questioni della storia negli studi letterari", suggerisce
Montrose, "può essere una compensazione per l'accelerazione
dell'oblio della storia che sembra caratterizzare un'accademia e
una società sempre più tecnocratiche e orientate verso il futuro
[...] Non credo che comprometta la serietà intellettuale di questo
interesse il vederlo stimolato da una messa in questione della
nostra stessa capacità di azione, da un senso fastidioso di
impotenza professionale, istituzionale, e politica."[xxxv]
McGann osserva: "L'attenzione del critico per la storia, in
quanto costituita su ciò che chiamiamo 'il passato', raggiunge
il suo compimento critico
solo quando quello studio del passato rivela il suo significato nel
e per il presente e il
futuro".[xxxvi] Ecco che cosa scriveva, più di un
secolo prima, George Eliot: L'esercizio di una immaginazione veritiera nella
rappresentazione storica sembra essere capace di uno sviluppo che può
aiutare molto il giudizio sugli eventi presenti e futuri. Per
mancanza di [...] una reale, minuta visione di come si verificano i
cambiamenti nel passato, cadiamo in valutazioni ridicolmente
inconsistenti dei movimenti reali, condannando nel presente ciò che
lodiamo nel passato, e pronunciando processi impossibili che si sono
sempre ripetuti nella preparazione storica del sistema stesso in cui
viviamo. Un falso tipo di idealizzazione ottunde la nostra
percezione del significato delle parole quando si collegano agli
eventi passati [...]; per mancanza di un confronto, non sorge
nessuna immagine ammonitrice per verificare la componente beffarda
di quelle stesse espressioni che vengono consacrate in altre
associazioni.[xxxvii] La notevole somiglianza tra George
Eliot e gli altri risiede nella comprensione generale dello scopo e
dell'importanza dello studio storico. Come Montrose, G. Eliot nota
un "oblio della storia" nell'epoca contemporanea (e i
conseguenti sentimenti di impotenza e impossibilità) e come McGann
vede lo studio della storia come un mezzo per contestualizzare e
(forse) migliorare una serie di circostanze presenti. Per la maggior
parte dei grandi vittoriani, ricreare il passato era una risposta
deliberata, sfrontata, ai bisogni del presente, così come un
riconoscimento di quei bisogni è percepibile ovunque nelle loro
storie. Il famoso inizio di A
Tale of Two Cities, in cui la Francia del XVIII secolo
viene minacciosamente paragonata all'Inghilterra del XIX secolo,
è tipico di una forma i cui scenari e soggetti storici vengono
scelti esplicitamente per la loro rilevanza rispetto alle
preoccupazioni contemporanee. Past
and Present di Carlyle, che ha poche pretese di
obiettività, è un paradigma di narrazione storica in cui il
passato viene consapevolmente creato dal presente dello scrittore,
fatto anzi in modo da rispondere ai suoi problemi attuali. I dialoghi con il passato stabiliti
dai neostoricisti prendono come soggetto, più comunemente,
l'esercizio e gli effetti del potere, o almeno ritengono che la
lotta per il potere sottenda la maggior parte delle transazioni
individuali, sociali, e artistiche. Quasi tutta la critica
neostoricista è, in questo senso, una critica politica (ricordate
l'equazione di Simpson tra "il politico" e "lo storico"?):
di solito ha un interesse politico e spesso, nelle varianti più
apertamente marxiste o femministe, un obiettivo politico. Anche se
la politica, soprattutto nelle sue forme più apertamente
istituzionalizzate, era un soggetto accettabile per lo storicismo
critico tradizionale, non era mai l'unico soggetto, né veniva
considerata inseparabile da tutte le forme di esperienza umana. Fino
a poco tempo fa, naturalmente, la critica storica non era soggetta
all'influenza di Foucault, che avrebbe potuto dire del potere ciò
che Carlyle disse della storia, che non è soltanto lo studio più
adatto all'epoca moderna, ma l'unico studio, che "include
tutti gli altri". Le prime nozioni di Foucault sull'autorità e
sulla sovversione e la successiva concezione dell'ubiquità del
potere caratterizzano gran parte dell'opera dei neostoricisti: L'onnipresenza del potere: non perché ha il privilegio di
consolidare tutto sotto la sua invincibile unità, ma perché viene
prodotto da un momento all'altro, in ogni punto, o
piuttosto in ogni rapporto tra un punto e l'altro. Il
potere è ovunque, non perché comprende tutto, ma perché proviene
da tutte le parti.[xxxviii] Le critiche più penetranti nei
confronti del neostoricismo, a mio parere, hanno indicato il
potenziale autolimitante di questa enfasi sul potere: potrebbe sia
"privare sistematicamente il testo della sua capacità di
sorprendere", come dice Pechter,[xxxix]
sia impegnare il critico in una lotta per il potere sul testo e
sulle altre letture critiche. Senza generalizzare in modo troppo
avventato, sembra giusto dire che la lotta per il potere ha occupato
un posto quasi altrettanto importante nella tradizione della
narrativa storica europea che nel pensiero dei neostoricisti. Gran
parte dei più importanti romanzi storici sono stati ambientati in
epoche di guerra, rivoluzione, o tumulti civili, perché in tali
momenti la natura del processo storico è più evidente: il
passaggio attraverso il tempo viene visto come inevitabilmente
contrassegnato dal conflitto tra volontà opposte.[xl]
Forse è più rilevante in questa sede osservare che i romanzieri
hanno sentito in misura minore, rispetto agli storici tradizionali,
il bisogno di sussumere queste opposizioni definendole come un
sistema di credenze o una visione del mondo dominante, dal momento
che i romanzi, a differenza delle storie vere e proprie, non hanno
bisogno di parlare con una singola voce. Poche epoche storiche
vengono considerate stabili o univoche, tranne che, brevemente e in
modo poco convincente, alla fine della storia, quando per una serie
di ragioni morali, politiche e pratiche, le forze in conflitto si
riconciliano. E, parafrasando Foucault, le lotte per il potere in
tali romanzi sono dovunque, non solo sul campo di battaglia o nella
camera del consiglio: nel modello stabilito da Scott, le divisioni
nazionali e internazionali vengono rispecchiate e chiarificate in
spaccature all'interno delle comunità, delle famiglie, e perfino
all'interno degli individui. Edward Waverley, la cui lotta
personale tra passione e lealtà alla famiglia è parallela alla più
ampia lotta tra Scozia e Inghilterra, divenne il modello per
generazioni di protagonisti altrettanto ambivalenti. Sebbene i
neostoricisti moderni e i romanzieri storici dell'Ottocento
definiscano, implicitamente o esplicitamente, degli ideali politici
che tendono ad essere molto diversi (i neostoricisti si collocano più
a sinistra rispetto ai romanzieri) essi condividono una visione
della storia come "determinata, interamente o nella sua essenza,
dalla lotta, dalla contestazione, dai rapporti di potere, dalla libido
dominandi." Sicuramente non è un caso che i romanzi
storici di Dickens, Thackeray e George Eliot fossero più o meno
contemporanei alle opere fondamentali che Marx ed Engels stavano
elaborando in Inghilterra; e che Lukács, il critico che ha scritto
in modo più autorevole sul romanzo storico dell'Ottocento, fosse
un marxista, e che la teoria marxista abbia a sua volta contribuito
a dare origine alla critica neostoricista. Contrariamente a quanto
affermano Pechter e gli altri, non tutta la critica neostoricista è
marxista, ma molta di essa presuppone, in modo più o meno
antagonistico, i meccanismi, gli effetti, e la terminologia del
capitalismo. Nella sua introduzione a The
New Historicism, Veeser identifica il bisogno di
sviluppare "un metodo e un linguaggio critico adeguati a esprimere
la cultura sotto il capitalismo" come uno dei "presupposti
chiave che continuamente riappaiono e mantengono uniti" i
neostoricisti.[xli]
Il primo storico in lingua inglese che cercò attivamente tale
metodo e linguaggio, secondo me, fu Carlyle, che inizialmente, in Chartism
(1839), descrisse (e decretò) "il pagamento in contanti come
l'unico legame tra uomo e uomo"[xlii]
e, nelle storie immaginative come Past
and Present e The
French Revolution, cercò di scoprire gli effetti di un
tale nesso ad ogni livello di discorso e di comportamento sociale.
Sebbene la soluzione prescritta da Carlyle per i mali sociali non
fosse certamente quella di Marx, la sua diagnosi su quei mali le
somigliava molto, ed è altrettanto certo che le storie e i romanzi
storici profondamente influenzati da Carlyle, come quelli di Ruskin,
Dickens e Disraeli, erano profondamente convinte, come le storie di
stampo marxista, degli effetti pervasivi del capitalismo. La stessa
identica critica è stata mossa a certe opere storiche vittoriane
come a certe opere neostoriciste, e a partire dalle stesse identiche
posizioni: che esse non sono "vere" storie perché non sono
abbastanza obiettive e sono troppo apertamente conformi a un dato
programma politico e sociale. Non è mia intenzione in questa
sede insinuare che l'ultima moda teorica non è originale o che
sia roba vecchia, ma suggerire che l'immaginazione storica come
viene descritta e manifestata dai neostoricisti somiglia a quella
che è stata solitamente considerata un'immaginazione romanzesca
piuttosto che critica. Nella sua insistenza sull'importanza e la
rilevanza uniche della storia, nella sua sostituzione del monologico
con il diverso e il controverso, nel suo pronto riconoscimento del
ruolo della creazione e dell'intenzione nella scrittura storica,
nella sua determinazione a ricavare il significato dalle minuzie
della vita quotidiana, nel suo tentativo di ricreare i vari
presupposti e credenze di coloro per cui il passato era il presente,
nella sua autocoscienza metodologica, e infine nella sua attenzione
per i momenti decisivi di conflitto, il neostoricismo richiama le
priorità e le tecniche del romanzo storico classico. La sua genuina
originalità risiede nel suo sottoporre a critica, per la prima
volta su larga scala, molte delle credenze che hanno precedentemente
influenzato molte delle forme "narrative" e "non-narrative"
del discorso storico. Come ha fatto notare David Richter, la visione
della storia che ora sembra "una novità per alcuni storici
letterari [...] era perfettamente chiara ai filosofi della storia da
almeno cinquanta anni a partire da R. G. Collingwood"[xliii] e, aggiungerei, ai romanzieri storici
da almeno un altro secolo. Da questa constatazione sorgono due
domande tra loro collegate: perché i neostoricisti hanno riflettuto
così poco sulle loro connessioni con il discorso storico del XIX
secolo, e quale effetto, se mai, dovrebbe avere la scoperta di
quelle connessioni sulla propria risposta al neostoricismo? Si
potrebbe rispondere alla prima domanda in vari modi. Come ho
suggerito prima, il neostoricismo, come molti nuovi movimenti, tende
a esagerare, o almeno a sottolineare, la sua originalità e unicità.
In questo caso, la tendenza è stata particolarmente forte perché
il numero di "ismi" da cui il neostoricismo ha lottato per
distinguersi, vecchio storicismo, marxismo, femminismo,
post-strutturalismo, è ampio e vario. Il fatto che il movimento sia
sorto dagli studi sul Rinascimento, ed abbia continuato a
concentrare la sua attenzione su questo periodo, ha anche
contribuito probabilmente alla sua disattenzione nei confronti del
XIX secolo. Inoltre, quasi nessuna opera neostoricista è stata
dedicata al romanzo storico, forse perché le difficoltà di
considerare due contesti storici, il tempo di produzione e il tempo
di lettura, sono abbastanza consistenti senza cercare di farne
spuntare dal cappello una terza, il tempo intorno
al quale la letteratura storica viene scritta. Forse la
spiegazione più sottile può essere ricavata dall'opera di
Stephen Bann, il cui saggio sulla formazione della coscienza storica
nell'Inghilterra dell'Ottocento implica alcuni dei rapporti che
sono andato qui identificando. Bann, che suggerisce delle
somiglianze tra la critica storica contemporanea e
"l'appassionata evocazione di Carlyle della risposta soggettiva
al passato", osserva che, fino a poco tempo fa, gran parte degli
storici caratterizzavano l'Europa dell'Ottocento come la culla
della storiografia moderna, "obiettiva", emarginando l'opera
molto diversa, meno "professionale", di scrittori come Scott,
Carlyle e Macaulay.[xliv]
I neostoricisti, pertanto, potrebbero probabilmente ritrovare
nell'Ottocento gli inizi del metodo storico che essi rifiutano, ma
essere poco disposti a scoprire nella stessa epoca le proprie radici
teoriche. Sebbene il riconoscimento di queste
radici possa togliere un po' di smalto alla critica neostoricista,
esso rende anche la storia della sua origine notevolmente più
interessante e conseguente. Piuttosto che un mero sviluppo del
momento, destinato, come la maggior parte di tali sviluppi, ad
essere rapidamente soppiantato, il neostoricismo sembra essere la
ricomparsa o la riconfigurazione di una potente forma di
storiografia immaginativa. Sebbene Scott e Carlyle abbiano avuto
poca influenza diretta sui teorici contemporanei, le due istanze
parallele della critica moderna, l'astoricità dello
strutturalismo e della decostruzione e la pretesa di obiettività
del vecchio storicismo, hanno generato una risposta che ricorda le
loro opere, o rappresenta il loro equivalente critico. I presupposti
di Greenblatt, Montrose e altri non sono identici a quelli di
Carlyle; ma, come ho cercato di dimostrare, essi sono più vicini a
quelli di Carlyle di quanto non fossero i presupposti di gran parte
degli storici letterari di alcuni anni fa. Bann ha suggerito che,
nell'Ottocento e nel Novecento, il modello scientifico, obiettivo,
della storia trionfò sul modello degli "amateurs" e dei romanzieri, e si irrigidì nelle moderne
discipline storiche e critiche.[xlv]
La comparsa del neostoricismo rivela, forse, che la battaglia è in
corso, e che la storia scientifica ha finalmente catalizzato una
reazione di opposizione. In fondo, il neostoricismo è un modo di
comprendere il passato diverso da quello del vecchio storicismo. Se
nessuno dei due è necessariamente "più vero" dell'altro, la
condizione migliore potrebbe essere quella in cui entrambi
pretendono di avere la precedenza, in cui, nell'oscillazione tra i
due, coloro che vivono nel presente potrebbero scoprire innumerevoli
modi di parlare coi morti. (Traduzione di Paolo Prezzavento) *
Titolo originale: B. Rosenberg,
Historicizing
the New Historicism: Understanding the Past in Cricism and
Fiction, "Modern Language Quarterly", 50, n. 4,
1989, pp. 375-92. [i]
Stephen
Greenblatt ha reso popolare il termine "New Historicism"
nella sua introduzione ad una raccolta di saggi da lui curata, The
Forms of Power and the Power of Forms in the English Renaissance,
"Genre", XV, 1-2 (1982), pp. 3-6, sebbene Michael
McCanles avesse usato il termine pochi anni prima in The
Authentic Discourse of the Renaissance, "Diacritics",
10, n. 1 (1980), p. 85. [ii]
S. Greenblatt,
op. cit.,
p. 5. [iii]
David
Simpson, Criticism,
Politics, and Style in Wordsworth's Poetry,
"Critical Inquiry", 11 (1984), p. 69. [iv]
Edward
Pechter, The
New Historicism and Its Discontents: Politicizing Renaissance
Drama, "Publications of Modern Language Association",
102 (1987), p. 292. [v]
Jean
Howard, The
New Historicism in Renaissance Studies, "English
Literary Review", 16 (1986), p. 25. [vi]
Herbert
Lindenberger, Toward
a New History in Literary Studies, "Profession"
(New York, Modern Language Association, 1984), p. 19. [vii]
Cfr. soprattutto Lawrence
Stone, The
Family, Sex, and Marriage in England, 1500-1800, New
York, Harper and Row, 1977, e Hayden
White, Metahistory:
The Historical Imagination in Nineteenth Century Europe,
Baltimore, Johns Hopkins U. P., 1973. [viii]
H. Lindenberger,
art. cit.,
p. 16 e p. 18. [ix]
H. Lindenberger,
art. cit.,
p. 17. [x] Clifford Geertz,
The
Interpretation of Cultures: Selected Essays, New
York, Basic Books, 1973, p. 15 (trad. it. Bologna,
il Mulino, 1987, p. 54). [xi]
H. Aram
Veeser, Introduzione a The
New Historicism, New York, Routledge, 1973, p. X. [xii]
Una delle tendenze più noiose tra i neostoricisti è il
tentativo di sviare la critica o l'analisi affermando che non
c'è alcun movimento coerente da criticare o analizzare. Nelle
prime pagine di The
New Historicism, lo stesso Veeser afferma che questa
espressione è "priva di un referente adeguato"
(Introduzione, p. X), Greenblatt afferma che il neostoricismo
"non è affatto una dottrina" (Towards
a Poetics of Culture, p. 1), Louis
Montrose insiste sul fatto che coloro che vengono
associati al neostoricismo sono "in realtà piuttosto
eterogenei nelle loro pratiche critiche" (Professing
the Renaissance: The Poetics and Politics of Culture,
p. 18), e Catherine
Gallagher definisce il "fenomeno" come "un fenomeno
di evidente indeterminatezza politica" (Marxism
and the New Historicism, p. 37). Raramente si è
passato tanto tempo a parlare del fatto che non c'è niente di
cui parlare. [xiii]
Gyorgy
Lukács, Il
Romanzo Storico, Torino, Einaudi, 1965, p. 37. [xiv]
George
Eliot, Essays
of George Eliot, a cura di Thomas Pinney , New York,
Columbia University P., 1963, p. 447. L'osservazione
è tratta da un appunto sull' "Immaginazione Storica",
scritto nella metà degli anni '70 del secolo scorso. [xv]
Thomas
Carlyle, On
History, in English
and Other Critical Essays, Everyman's Library,
1915, ried. York,
Dutton, 1964, p. 86 (se non altrimenti segnalato, le citazioni
di Carlyle sono tratte da On
History). [xvi]
R. G. Collingwood,
The Idea
of History, Oxford, Clarendon Press, 1964, p. 246. [xvii]
J.
Howard, op.
cit., p. 18. [xviii]
H. Lindenberger,
art. cit.,
p. 16. [xix]Nel
1885 George Eliot osservò che "forse non esiste una mente
superiore od attiva di questa generazione che non sia stata
influenzata dagli scritti di Carlyle; forse non esiste un libro
scritto in Inglese negli ultimi dieci o dodici anni che non
sarebbe stato diverso se Carlyle non fosse esistito" (pp.
213-4). Più recentemente, Gertrude
Himmelfarb ha affermato che "il giovane Carlyle
contribuì a modellare la coscienza morale, intellettuale e
sociale del primo periodo Vittoriano come forse nessun' altra
figura singola" (The
New History and the Old, Cambridge, Belknap Press of
Harvard U. P., 1987, pag. 56). [xx]
Th.
Carlyle, op.
cit., p. 91. [xxi]
D.
Simpson, op.
cit., p. 75. [xxii]
Th.
Carlyle, op.
cit., p. 80. [xxiii]
"Mi sembra", scrive Montrose,
"che le varie modalità di quella che potrebbe essere definita
critica storica post-strutturalista (incluse le modalità del
marxismo revisionista o post-marxismo, così come del
'Neostoricismo' o della 'Cultural Poetics') possono
essere caratterizzate da [...] uno spostamento dalla Storia alle
storie" (Professing
the Renaissance: The Poetics and Politics of Culture,
in The
New Historicism, cit., p. 20). [xxiv]
Th.
Carlyle, op.
cit., p. 85. [xxv]
Ibid.,
p. 84. [xxvi]
H. Lindenberger,
art. cit.,
p. 21. [xxvii]
C.
Geertz, op.
cit., p. 21 (trad. it. cit., pp. 59-60). [xxviii]
G.
Eliot, op.
cit., p. 446. [xxix]
Th.
Carlyle, op.
cit., p. 87. [xxx]
S.
Greenblatt, Shakespearean
Negotiations: The Circulation of Social Energy in Renaissance
England, Berkeley, California U.P., 1988, p. 1. [xxxi]
C.
Geertz, trad.
cit., pp. 54-5. [xxxii]
Cfr. Dominick
La Capra, History,
Politics, and the Novel, Ithaca, Cornell University
P., p. 50; Jerome
McGann, The
Beauty of Inflections: Literary Investigations in Historical
Method and Theory, Oxford, Clarendon Press, 1988, p.
5. [xxxiii]
H.
Lindenberger, art.
cit., p. 21. [xxxiv]
Meyer
H. Abrams, The
Mirror and the Lamp, New York, Oxford University P.,
1953 (trad. it. Bologna,
il Mulino, 1976). [xxxv]
L.
Montrose, Renaissance
Literary Studies and the Subject of History,
"English Literary Review", 16 (1986), pp. 11-2. [xxxvi]
J.
McGann, op.
cit., p. 25. [xxxvii]
G.
Eliot, op.
cit., pp. 446-7. [xxxviii]
Michel
Foucault, Storia
della sessualità, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 82. [xxxix]
E.
Pechter, op.
cit., p. 302. [xl]
Allo stesso modo, Jean
Howard, nel saggio citato, descrive il particolare
interesse del neostoricismo per il Rinascimento mettendo in
evidenza la chiarezza con cui "si può vedere messo in scena
uno scontro di paradigmi e ideologie" in quell'epoca" (p.
16). [xli]
H.
Aram Veeser, Introduzione a The
New Historicism, cit., p. XI. [xlii]
Th.
Carlyle, Chartism,
cit., p. 208. [xliii]
David
Richter, Poststructuralism,
in The
Critical Tradition: Classic Texts and Contemporary Trends,
a cura di David H. Richter, New York, St Martin's Press, 1989,
p. 954. [xliv]
Stephen
Bann, The
Sense of the Past: Image, Text, and Object in the
Formation of Historical Consciousness in Nineteenth
Century Britain, in The
New Historicism, cit., pp. 102-15; p. 104; p. 102. [xlv]
S.
Bann, art.
cit., pp. 102-4.
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