13/1996
Studi di Estetica
III serie
anno XXIV, fasc. I

Introduzione

 

 

Il "neostoricismo", come termine e come movimento critico, è comparso sulle scene accademiche statunitensi circa alla fine degli anni '70, relativamente in sordina, almeno fino alla crisi della Decostruzione e della voga teorica imposta dai cosiddetti "critici di Yale".

Di "metodo storico" si era già ovviamente parlato, non solo come caratteristica della critica marxista, ma anche all'interno della scuola della ricezione, sia sul versante europeo (pensiamo a Hans Robert Jauss, e in particolare al suo saggio Literary History as a Challenge to Literary Theory[1]) che nella sua versione americana. Ma l'aspetto che sembra distinguere il neostoricismo è la sua opposizione netta alla tradizione formalista dei New Critics e ai loro eredi della Decostruzione americana. La polemica negli ultimi decenni era talmente diffusa che Edward Pechter ironicamente così iniziava un suo saggio sul PMLA: "Uno spettro si aggira per la critica, lo spettro del neostoricismo".[2]

Oggi, a circa vent'anni dalla formazione della nuova scuola, appare invece evidente che il neostoricismo, come la Decostruzione, si inseriscono nel panorama di quella galassia complessa e variegata che è stata definita, per mancanza di definizioni migliori, "poststrutturalismo". Alla netta contrapposizione tra neostoricismo e Decostruzione, che ha contraddistinto in maniera polemica le prime mosse di questo tanto conclamato "ritorno alla storia", è subentrato un più attento studio del legame quasi inevitabile tra i due movimenti. Così Lee Patterson mette in luce come la Decostruzione, nella sua sfida all'idealismo, all'essenzialismo e al trascendentalismo, non solo non nega la realtà della storia, ma è "una pratica critica che si sforza di capire in che modo la 'realtà' si posiziona attraverso i mezzi discorsivi".[3]

Per rintracciarne le origini e rinvenire le caratteristiche comuni delle varie ramificazioni del neostoricismo, potremmo partire dalle stesse parole di quello che è ormai riconosciuto - suo malgrado - come il "fondatore", Stephen Greenblatt.

"Molti anni fa - scrive Greenblatt in Resonance and Wonder - volendo segnalare una svolta dall'analisi formale e decontestualizzata che dominava il New Criticism, usai il termine neostoricismo per descrivere un interesse per il tipo di problematiche che cercavo di affrontare - come il radicamento degli oggetti culturali nella contingenza della storia - e il termine da allora ha ottenuto credito. Ma, come molte etichette, è un termine sviante. Il neostoricismo, come il Sacro Romano Impero, smentisce costantemente il proprio nome. L'American Heritage Dictionary fornisce tre significati per il termine 'storicismo':

1- La credenza che l'uomo possa fare ben poco per alterare i processi che sono all'opera nella storia.

2- La teoria che lo storico deve evitare ogni giudizio di valore nel suo studio delle epoche passate o delle precedenti culture.

3- La venerazione della tradizione passata.

Molti degli scritti etichettati come neostoricisti, e certamente i miei, si sono risolutamente posti contro tali posizioni".[4]

Sicuramente, si tratti degli studi sul Rinascimento di Greenblatt e Montrose o di quelli sul Romanticismo di Jerome McGann e Marilyn Butler,[5] dell'ala retorica di Berkeley o di quella "politica" di Duke e di Cambridge (U. K.), il neostoricismo si propone di rivalutare l'importanza del contesto storico-sociale per lo studio dei testi letterari, ma in modo "rinnovato" rispetto alle precedenti forme di storicismo.

Pur nella consapevolezza delle differenze e delle varie ramificazioni,[6] tenteremo qui di sintetizzare i tratti più salienti dell'approccio neostoricista:

- La visione complessa del rapporto tra storia "speciale" (arte, letteratura) e storia "generale", un rapporto di reciprocità in cui non esiste più una distinzione netta fra cause ed effetti. Fra il testo letterario e gli altri discorsi si instaura una rete di "negoziazioni" e di scambi. Per i neostoricisti esistono molte altre forme di mediazioni oltre a quella linguistica, come per esempio i modi di produzione, i costumi sociali, le pratiche patriarcali, le istituzioni dello stato e gli eventi politici: tutte queste forme di mediazioni incidono sul discorso simbolico dei testi. Come dice Edward Said "Le parole e i testi sono tanto insiti nel mondo che la loro efficacia, in alcuni casi perfino il loro uso, sono questioni che hanno a che fare con il progetto, l'autorità, il potere e l'imposizione della forza".[7] Si tenta cioè di proporre, seguendo la lezione di Foucault, un'alternativa alla visione marxista della storia che presupponeva un'assoluta dipendenza della scrittura dall'organizzazione economica. La nuova interpretazione della storia sottolinea i rapporti tra l'episteme di ogni cultura e il suo modo di vedere, comprendere e descrivere il mondo.

- L'interesse per fonti marginali ed extraletterarie quali gli aneddoti[8] e i diari di viaggio, i manufatti e le tracce non testuali, i dettagli apparentemente trascurabili. Così, per esempio, negli studi del Rinascimento, il mercantilismo viene utilizzato come mezzo per contestualizzare ed interpretare il testo teatrale.

- L'approccio interdisciplinare, e gli incroci con discipline quali l'antropologia e i cultural studies per i quali la letteratura è intesa come uno dei tanti fenomeni culturali. Per Clifford Geertz, che insieme a Foucault è uno dei modelli teorici dei neostoricisti, vi è un proficuo interscambio fra antropologia e scrittura finzionale. Per Geertz, infatti, sono narrazioni tutti gli scritti antropologici in cui l'atto immaginativo è costituito dalla sua forma di "descrizione densa" (thick description), un atto che non è sostanzialmente diverso dalla scrittura di un romanzo.[9]

- L'idea che la storia non è una descrizione oggettiva di quanto è realmente accaduto, ma un racconto, una narrazione, un "artefatto culturale", analizzabile quindi con gli strumenti classici della critica letteraria, e soprattutto della retorica del discorso. È Hayden White che, nel suo ormai famoso Metahistory,[10] ha messo in crisi la possibilità dell'oggettività della ricerca storica, contribuendo a una rinnovata autocoscienza epocale che demistifica l'idea consolatoria di un intreccio storico onnicomprensivo, per lasciare spazio a quello che Foucault chiamava: "il gioco della rarità" contrapposto all'idea di "una continua generosità del senso".[11]

- L'attenzione particolare del critico per la sua condizione di osservatore all'interno del sistema che sta studiando, nei confronti cioè della propria storicità con le inevitabili "deformazioni" introdotte dalla prospettiva temporale. È questa prospettiva che più delle altre avvicina, a nostro avviso, il neostoricismo alla decostruzione e al "reader-response criticism".

 

Sulle origini più remote, e sulle ragioni della polemica pro e anti storicismo, le versioni sono molteplici: da una parte, tra i critici di formazione marxista, Terry Eagleton o Frank Lentricchia accusano il poststrutturalismo e i seguaci di de Man e della scuola di Yale di pericoloso "fatalismo" e di colpevole "oblio" della storia, responsabili di quella mancanza di impegno che dovrebbe caratterizzare la critica come continuo attacco al potere costituito.[12]

Dall'altra, per critici come Jonathan Culler o Tony Bennett il problema contemporaneo della storia si pone seriamente anche nel poststrutturalismo dove, accanto alle differenze interne, emerge la tendenza comune al revisionismo,[13] che modifica non solo la metodologia storica e letteraria, ma anche lo stesso pensiero politico di derivazione marxista.

Il dibattito si inserisce in una più vasta querelle fra ideologia ed estetica. In anni recenti abbiamo assistito a una radicale trasformazione nello studio della letteratura, evidenziata non solo dall'enfasi molto accentuata sulla teoria a scapito del close reading, o dall'eliminazione della distinzione fra testo primario e commento, ma anche dal dibattito difficile e controverso sul canone letterario in rapporto all'emergere delle letterature extraeuropee. In questo senso è da intendersi il libro di Edward Said Orientalism, del 1978, che ha dato l'avvio alla penetrante critica del discorso culturale etnocentrico, mettendo sotto accusa non solo il concetto di "Occidente", ma anche l'indiscussa preminenza del canone letterario occidentale.[14] Questo cambiamento coinvolge il concetto stesso di letteratura, cioè la domanda su che cosa costituisca l'essenza del "letterario", o detto altrimenti dell'"estetico", in rapporto all'ideologico. Il problema non è certamente nuovo, ma assume diverse connotazioni nella cultura postmoderna, dove il ritorno ossessivo della storia si spiega come una sorta di compensazione al fenomeno della sua pericolosa obliterazione in una società altamente tecnologizzata.[15]

In questo binomio la letteratura è stata spesso ridotta o assimilata all'ideologia tout court, o è stato affermato che fra il letterario e l'estetico da una parte, l'ideologico e il politico dall'altra, non c'è né ci può essere alcun rapporto (s'intende che in queste semplicistiche riduzioni si considera il termine "ideologia" nel senso più negativo di mistificazione).

Nel primo caso, come sostiene Myra Jehlen nel suo saggio Literary Criticism at the Edge of the Millennium; or, from Here to History,[16] la missione del critico letterario che sposa la tesi della critica ideologica risulta piuttosto ambigua. Infatti, riducendo le opere letterarie che studia a menzogne storiche (o a falsi ideologici), il critico si erige a nemico e accusatore d'ufficio delle opere che analizza (e che in fondo dovrebbe avere scelto perché le ama). Nel secondo caso, come rileva Peter Brooks nel saggio Aesthetics and Ideology: What happened to Poetics?,[17] oggi i critici letterari soffrirebbero di un complesso di inferiorità, o di cattiva coscienza. Sentendosi "poeti o critici retorici e sociali manqués, sono colpiti dal continuo sospetto di non avere un soggetto veramente valido da professare".

Ma, aldilà di ogni banale semplificazione, la critica anglosassone sta vivendo una difficile crisi di identità che l'obbliga a porsi una serie di problemi contingenti: da una parte, l'enfasi sulla teoria rispetto all'interpretazione rischia di allontanarla dai testi letterari, con la conseguente accusa di astrattezza metafisica. Dall'altra, l'interesse si concentra non tanto sul significato del testo, quanto piuttosto sulle sue condizioni materiali, sui processi di mediazione o negoziazione tra i diversi sistemi che sono impliciti ed esterni al testo letterario stesso. C'è infine la diffusa resistenza all'idea di "valore letterario o estetico assoluto", transtorico, e in particolare all'idea di grandezza letteraria e di "genio", da cui deriva un'enfasi sulla necessità degli studi interdisciplinari, "beyond the boundaries". Il rifiuto, che si colora talvolta di disprezzo, per l'aborrito formalismo del New Criticism si riallaccia alla ripresa di una funzione "politica" della letteratura vista come inutile o mistificante se isolata dal contesto socio-politico, o semplicemente come facente parte della "cultura" e della "storia". E, mentre Walter Michaels, un critico vicino al marxismo e al neostoricismo, afferma che "l'unico rapporto fra la letteratura in quanto tale e la cultura in quanto tale, è che la prima fa parte della seconda",[18] altri critici contestano che la "letteratura" sia una categoria chiaramente definibile del discorso, adducendo come prova che, fin dalle origini, non esisteva una distinzione tra la lingua letteraria e quella non letteraria.[19] Ma proprio per nostra memoria storica è forse utile ricordare che questo problema faceva parte del discorso letterario (o della teoria della letteratura) anche prima del dibattito culturologico e neostoricista recente, almeno da Sartre in poi, se si pensa alla distinzione fra uso letterario e non letterario del linguaggio.

Anzi, secondo alcuni, l'affinità e insieme la contrapposizione fra storia ed estetica viene fatta risalire addirittura al Settecento, con le riflessioni di Baumgarten sulla poesia; per altri, viene ripresa dall'opposizione fra sincronia e diacronia nel Corso di Linguistica generale di Saussure, da cui prima lo strutturalismo poi il poststrutturalismo avrebbero derivato l'idea di "mettere fra parentesi la storia".[20] Un'accusa, questa, lanciata da Lentricchia, che addirittura scomoda la tassonomia trascendentale di Platone come primo modello corruttore, ripresa da Edward Said e, più recentemente, da Eagleton secondo una prassi di difesa d'ufficio della storia tipica della cosiddetta "left", cioè l'ala di sinistra degli intellettuali anglo-americani.

Ma forse è più corretto dire che lo strutturalismo, con la sua nozione di sistema e la sua insistenza sullo specifico letterario mentre poneva sicuramente domande alla storia, finiva per occultarne, se non addirittura reprimerne il problema; invece, nel poststrutturalismo - come sostiene anche Fredric Jameson - emerge chiaramente "la crisi della stessa storicità".[21] Jonathan Rée, riprendendo Ricoeur, afferma che nella nostra epoca postmoderna, mentre elaboriamo il lutto per l'abbandono dello storicismo hegeliano, dobbiamo cercare di capire "la fallacia storicistica", che consiste nella presa di coscienza della contingenza della storia, cioè la sua inevitabile deformazione non appena cerchiamo di trovarne il senso.

È lo stesso Derrida, tacciato da Eagleton di essere "volgarmente anti-storico", che rileva il passaggio fra una concezione dialettica e una teoria della differenza: "L'atteggiamento strutturalista e il nostro modo di porci di fronte e dentro al linguaggio, non sono solamente momenti della storia. Stupore, piuttosto, che ci viene dal linguaggio come origine della storia. E dalla storicità stessa".[22] Per Jonathan Culler, addirittura, anche il nemico numero uno dei neostoricisti, cioè il New Criticism, non ha mai veramente trascurato la storia.[23]

 

Ma allora che cosa contraddistingue il neostoricismo dal vecchio storicismo o dalla decostruzione? Per noi, più la poetica della storia che la storicizzazione della letteratura. Infatti, a differenza di un marxismo vetero-deterministico, anche l'ala più dichiaratamente politica del neostoricismo, quella del cosiddetto "materialismo culturale", erede di Raymond Williams, accanto al richiamo al contesto, non trascura i problemi del linguaggio. Come scrive Tony Bennett,[24] "il significato storico dei testi è determinato non tanto rapportandoli alle condizioni della loro produzione, ma collocandoli all'interno del meta-testo della Storia che il marxismo pretende di conoscere, ma i cui giudizi finali - che possono essere dati qualora il processo della Storia sia completato - esso può solo anticipare". Il neostoricismo si sforza di coniugare una comprensione culturale e materialista della storia con il concetto post-strutturalista di testualità. Come ben sottolinea Louis Montrose, l'aspetto più saliente di questo nuovo orientamento nei confronti della storia è proprio il reciproco interesse per la storicità dei testi e per la testualità della storia.[25]

La scelta dei saggi che seguono è stata quindi determinata dalla complessità dei temi in oggetto, e cerca di far emergere le varie posizioni in campo, non solo sull'identità di quel movimento che abbiamo definito neostoricismo (anzi, dovremmo dire "neostoricismi", seguendo la sottile distinzione di Louis Montrose[26]), ma sull'ampiezza di un dibattito critico che coinvolge l'identità stessa di una "coscienza storica" alla fine del Millennio.

Per questo motivo si sono privilegiati non tanto i cosiddetti padri fondatori del neostoricismo, che pure sono presenti, quanto piuttosto quei critici che non identificandosi interamente con esso discutono, potremmo dire dai margini, alcuni punti teorici nodali: la differenza terminologica fra storico e storicista, il rapporto testo/contesto, ideologia/estetica, e soprattutto l'identità del soggetto critico/interpretante. Una scelta, se si vuole, eccentrica, ma voluta, perché paradossalmente è proprio da questi commentatori, critici accesi o simpatizzanti del neostoricismo, che si evidenziano le peculiarità di questa nuova tendenza critica angloamericana.

Il saggio di David Bromwich ripropone l'aspetto tipicamente americano, non solo del neostoricismo, ma anche del difficile dibattito che quest'ultimo ha innescato nei confronti della scuola critica marxista, del poststrutturalismo e della Decostruzione. Infatti Bromwich critica l'eccesso di teoria, che vede pericolosamente presente nello scenario accademico, perché da una parte manca di una vera conoscenza storica e sociale e dall'altra finisce per generare una sorta di gergo, di "newspeak" di orwelliana memoria che pretende di avere un rapporto diretto col controllo politico sul presente. "La mia idea è che una coscienza del passato come tale riveste una funzione critica per la critica di oggi". Questa frase riassume la posizione provocatoria di Bromwich, di un critico che ha il coraggio di prendere le distanze, di non allinearsi, una posizione che appare però meno chiara e delineata rispetto a quella del suo "maestro" Harold Bloom. Se Bromwich, come Bloom, ripropone in maniera pressante un problema anche caro alla Decostruzione (cioè quello dei requisiti indispensabili del critico, come la competenza e l'istinto), a differenza di Bloom non si espone fino in fondo ai rischi di posizioni estreme, proprie di un critico/lettore "forte".

Rosenberg ridiscute l'aggettivo "new" preposto al termine storicismo, sottolineando che l'enfasi che si è voluto dare sulla novità è tipica della fase polemica e di fondazione di ogni corrente critica. Solo così si spiega, per Rosenberg, l'accentuazione da parte di certi neostoricisti di Marx, di Foucault, di Bachtin come privilegiati ascendenti culturali e l'obliterazione di figure come Carlyle e di romanzieri storici come W. Scott e G. Eliot. Vi è infatti una disattenzione da parte dei neostoricisti nei confronti dell'800 e del romanzo storico, di un periodo cioè che ha messo bene in evidenza la continua commistione fra scrittura storica e scrittura romanzesca, e la concezione della storia non più monologica, ma caratterizzata da voci diverse.

I due saggi di Charles Altieri e di Jonathan Rée pongono in primo piano l'inevitabilità di pensare a noi stessi in termini di storia, e di vedere la storia secondo gli stili culturali e generali delle nazioni e dei periodi. E mentre Rée pone come paradossale, ma inevitabile, l'anacronismo, Charles Altieri, occupandosi di strategie moderniste, programmaticamente antistoriciste, si trova di fronte ad una situazione ugualmente paradossale e apparentemente insolubile: come si scrive la storia di un movimento che è fortemente critico nei confronti dei modi narrativi della narrazione storica senza cadere in palese contraddizione?

Appare ormai chiaro che il neostoricismo è un fenomeno abbastanza complesso, che non può essere liquidato e spiegato opponendolo semplicemente alla Decostruzione, perché nasce e si sviluppa nella comune temperie culturale del poststrutturalismo, dove la questione della storia viene posta come la questione della "temporalità", e la narrazione storica, come quella letteraria, viene sottoposta alla contingenza dell'interpretazione e alle regole retoriche del discorso. È anche in questo senso che si può intendere la "poetica culturale" di Greenblatt, perché è forse proprio "poetics" il vero tertium da inserire a questo punto fra ideologia ed estetica. Fin dal titolo, infatti, questo saggio di Greenblatt con il quale apriamo la presente raccolta - vera 'professione di fede' del nuovo movimento - non può non alludere a un progetto, e soprattutto si colloca in una tradizione della storia dell'estetica che lo stesso Greenblatt fa risalire ad Aristotele. In queste pagine si avverte una continua tensione fra l'idea di un progetto e l'ansia di fissarlo in norme troppo rigide: da una parte, permane il desiderio di una visione unificante (che l'idea di poetica come insieme di regole e di cultura come pratiche sociali presuppone), mentre dall'altra, la paura di cristallizzarlo evoca i concetti di movimento, esemplificati dai termini "forza, energia, scambio" che sono tipici del linguaggio greenblattiano. Questa doppia anima trova un terreno di studio privilegiato nel teatro rinascimentale, "uno spazio liminale" pieno di conflitti, nella dialettica fra messa in scena del potere e la sua sovversione, riappropriato ermeneuticamente secondo parametri propri della postmodernità.

Il saggio di David Simpson, un critico che in questo ritorno alla storia ha proposto saggi non sul Rinascimento ma sul Romanticismo, tenta di trovare una posizione intermedia fra le punte estreme della Decostruzione e le posizioni dogmatiche, riduttive, totalizzanti e totalitarie della critica vetero-marxista. David Simpson esemplifica, a nostro avviso, il rapporto ambivalente che i neostoricisti hanno con il marxismo. Da un lato, il marxismo fornisce loro una serie di concetti critici - ideologia, lotta di classe, mezzi e modi di produzione - e, come dice McGann, "esso costituisce una tradizione potente e coerentemente dinamica di investigazione critica";[27] dall'altro, si offre a un'opera di netta revisione, perché le sue premesse appaiono troppo perentorie e costrittive. In questo processo di revisione si colloca in primo piano il concetto marxista di ideologia come falsa coscienza, che diventa nelle pagine dei neostoricisti - seguendo l'insegnamento di Geertz - "un sistema di simboli che interagiscono tra loro", o - nella versione di Althusser - "una rappresentazione del rapporto immaginario che gli individui stabiliscono con la condizione reale della loro esistenza."[28] Pur essendo consapevole che la rinascita del metodo storico può sfociare in ricostruzioni insidiosamente "idealistiche", Simpson afferma, rivelando la sua ascendenza dalla scuola britannica del materialismo culturale, che solo un metodo "che parte da basi materialistiche può fornire il fondamento per la ricostruzione di un insieme possibile. Solo una procedura materialistica ha un largo potenziale e può gestire vari dettagli, può produrre delle prove che non devono, in un progetto di studio serio, essere ignorate".

Fra i critici che qui proponiamo, Lentricchia è il più radicale nei confronti del neostoricismo, perché, a suo parere, lo storicismo, vecchio o nuovo che sia, rimane sempre all'interno della logica idealistica hegeliana e non rappresenta una rottura, come pretenderebbe di essere, "al solito lavoro degli studi letterari". Nella sua serrata critica a Greenblatt (che diventa il suo bersaglio privilegiato come critico esemplare del neostoricismo), Lentricchia mette in evidenza quelle che lui definisce le antinomie di questa nuova corrente critica. La prima è l'improbabile connubio fra Marx e Foucault, perché Marx, teorico del cambiamento sociale e della rivoluzione, finisce per diventare "un servo delle assemblee del cinismo, un teorico della ripetizione". La seconda è rappresentata dallo schema interpretativo dell'opposizione "contenimento/sovversione", che attraverso una fantasia paranoica costruisce l'illusione di un potere totalitario, da cui ci si illude di liberarsi solo attraverso momenti individuali di estremismo estetico. Per Lentricchia, quindi, i neostoricisti continuano, se non proprio a dimenticare o a reprimere la storia come i seguaci del New Criticism, sicuramente ad abusare della storia, come aveva già sostenuto anche nel suo libro più noto, After the New Criticism del 1980.

La polemica fra J. Hillis Miller e D. A. Miller riassume i punti nodali del dibattito fra neostoricismo e Decostruzione, e ci riporta all'obiezione che avevamo visto sollevata da Myra Jehlen a proposito del rapporto fra ideologia ed estetica: per quale ragione, infatti, dovremmo leggere, per esempio, i romanzi vittoriani se questi (usiamo le parole di D. A. Miller) "confermano il lettore nella sua identità di 'soggetto liberale', la cui libertà è costantemente legata al regime politico che fonda quel soggetto?" D. A. Miller lo giustifica dicendo che, in questo modo, il lettore scopre l'ideologia borghese. Ma in effetti, ribatte Hillis Miller, così si legge la letteratura "contro se stessa", usando le parole di Gerald Graff.

Hillis Miller, secondo una sua tecnica offensivo-difensiva, tenta anche qui di estendere la Decostruzione fino a comprendere il neostoricismo, suggerendo che "la buona lettura" è storica e teorica insieme. Anzi, aggiunge, se non riusciremo, con le classiche strategie decostruttive, a smascherare l'ideologia che sottintende un determinato testo, non riusciremo neppure a comprendere la storia. Ma, allo stesso tempo, lo smascheramento fa parte di quella stessa strategia narrativa, o prosopopea, che ha bisogno a sua volta di essere smascherata e decostruita (come dimostra il racconto di Hawthorne). Mentre D. A. Miller mette in evidenza i vantaggi materiali che derivano dal fatto di "indossare un velo", e paragona il reverendo Hooper del racconto di Hawthorne (predicatore di successo proprio perché indossa quel velo nero), a Hillis Miller, il quale dovrebbe gran parte del suo successo di critico alla sua abilità di frapporre "un velo nero" fra il lettore e il testo.

 

Come dicevamo agli inizi, è un'impresa ardua cercare di fornire un quadro esaustivo di un fenomeno variegato ed eterogeneo qual è il neostoricismo, il cui stesso termine vago non dà ragione della varietà e ricchezza delle teorie e pratiche critiche presenti al suo interno. Nella mappa del neostoricismo, dai contorni poco delineati, si possono però individuare, a nostro avviso, alcuni crocevia su cui i critici inevitabilmente transitano.

Il primo consiste nella continua ricerca di nuovi orizzonti interpretativi, in un'avventurosa, ma avvincente condizione di eclettismo metodologico. Il secondo è la continua tensione che si avverte nei critici neostoricisti tra poetica/retorica e ideologia, tra il semiotico e lo storico, nel tentativo di trovare un difficile equilibrio fra testo e contesto, di creare cioè un'alleanza fra la "descrizione densa" sincronica e il desiderio di spiegare il momento storico nel suo progressivo cambiamento. La critica di Greenblatt è un esempio emblematico di questa tensione: talvolta sembra prevalere l'idea di una storia e di una vita politica dominate dai rapporti di potere, talaltra quella che l'opera d'arte ha sempre la capacità di generare meraviglia, sorpresa, "wonder", piacere nel lettore. Da questa tensione scaturisce il nucleo del dibattito all'interno del neostoricismo: se il critico, infatti, sottolinea troppo gli aspetti retorici, verrà accusato di formalismo; se, invece, si sofferma sugli aspetti ideologici sarà tacciato di essere riduttivo o troppo perentorio. Il terzo punto, più complesso ma per noi più stimolante, consiste nelle implicazioni ermeneutiche di questa difficile operazione di "dialogare con i morti". Un'operazione che mette in primo piano le capacità individuali di intuizione del critico, nel suo sforzo di defamiliarizzare il familiare, il consueto. Il recupero dell'alterità del passato acquista una potente carica euristica, perché il tentativo di esplorare l'intricato rapporto fra il mondo, il testo e il critico si riverbera sul presente, producendo una consapevolezza ermeneutica del nostro "essere nel mondo" che, se non ha un'incidenza politica diretta sulla realtà, si traduce in una reale coscienza storica e critica.

Vorremmo terminare sottolineando il significato delle due metafore che contraddistinguono la Decostruzione e il neostoricismo: la wilderness, il deserto che segnalava il disagio del lettore/critico in un'angosciante situazione di anarchia interpretativa, ha lasciato il posto ai boundaries, ai borders, ai confini, con l'idea che il critico deve essere in grado di potere transitare da una disciplina ad un'altra. Un'idea di confine non come frontiera trionfalistica e vittoriosa, ma come incessante spostamento e decentramento, dove il termine "posizione", invece di suggerire immagini guerresche o diplomatiche, riprende l'atteggiamento del dubbio, della ricerca sistematica come continua questioning, che non è mai né rassicurante né consolatoria. È in questa accezione che ci sembra di dover leggere la suggestiva frase di Stephen Greenblatt: "I began with the desire to speak with the dead".

 

Vita Fortunati

Giovanna Franci



[1] Jauss, H. R., Literary History as a Challenge to Literary Theory, traduzione dei capitoli V-XII di Literaturgeschichte als Provokation, Frankfurt, Suhrkamp, 1970 (che riprendono il saggio del 1967 Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft).

[2] Pechter, E., The New Historicism and its Discontents: Politicizing Renaissance Drama, PMLA, May 1987 (trad. it. in Il neostoricismo, a cura di V. Fortunati e G. Franci, Modena, Mucchi, 1996)

[3] Patterson, L., Making Identities in Fifteenth Century England: Henry V and John Lydgate, in New Historical Literary Study, ed. by J.N. Cox and L.J. Reynolds, Princeton U.P., 1993.

[4] Greenblatt, S., Learning to Curse, New York and London, Routledge, 1990, pp. 163-4.

[5] McGann, J., The Romantic Ideology, Chicago U.P., 1983. Tra i numerosi studiosi che si possono annoverare nel neostoricismo romantico ne nominiamo solo alcuni, tra cui - oltre ai già citati McGann e Butler - John Barrell, Alan Bewell, Julie Carlson, Paul Hamilton, Alan Liu, Marjorie Levinson e David Simpson.

[6] Tali ramificazioni sono testimoniate, fra l'altro, dalle miriadi di nomi a cui questa nuova corrente ha dato origine: "new history", "critical historicism", "historical-materialist criticism", "cultural poetics", "cultural history". Per la discussione su questi termini, cfr. New Historical Literary Study, cit., p. 3.

[7] Said, E.W., The World, the Text, and the Critic, Harvard U. P., 1983, p. 48.

[8] Per una discussione approfondita sul ruolo dell'aneddoto nella storia e nel neostoricismo, cfr. J. Fineman, The History of the Anecdote: Fiction and Fiction, in The New Historicism, ed. by A. Veeser, New York and London, Routledge, 1989, pp. 49-76.

[9] Geertz, C., The Interpretation of Cultures, New York, 1973 (trad. it., Bologna, il Mulino, 1987).

[10] White, H., Metahistory, Baltimore, The Johns Hopkins U.P., 1973 (trad. it. Retorica e storia, Napoli, Guida, 1978, 2 voll.).

[11] Foucault, M., L'ordine del discorso, p. 53, cit. in J. Rée.

[12] Cfr. Post-Structuralism and the Question of History, ed. by D. Attridge, G. Bennington, R. Young, Cambridge U.P., 1987.

[13] Il termine "revisionismo" è comparso sulla scena critica nord-americana con la Decostruzione, in particolare con H. Bloom e G. Hartman, per indicare un attacco sistematico alle categorie del discorso letterario.

[14] Said, E., Orientalism, New York, Pantheon Books, 1978 (trad. it. Torino, Boringhieri, 1991).

[15] Cfr. Aesthetics and Ideology, ed. by G. Levine, Rutgers U.P., 1994.

[16] Jehlen, M., Literary Criticism at the Edge of the Millennium; or, From Here to History, in Aesthetics and Ideology, cit., p. 40.

[17] Brooks, P., Aesthetics and Ideology. What Happened to Poetics?, in Aesthetics and Ideology, cit., pp. 153 e sgg.

[18] Cfr. Thomas, B., W. B. Michaels and the Cultural Poetics, in The New Historicism and Other Old Fashioned Topics, Princeton U.P., 1991.

[19] A questo proposito R. Cohen ci ricorda che anche nell'edizione del Dizionario di Johnson del 1785, il termine "literary" veniva definito in rapporto all'istruzione a alla capacità di leggere (R. Cohen, Generating Literary Histories, in New Historical Literary Study, cit., p. 45). Importante per tutte queste discussioni sull'evoluzione del significato di termini come critica, letteratura e cultura, oltre che sul loro etimo, è il noto Key Words di R. Williams, a cui tutti si richiamano.

[20] Cfr. Attridge, D., Language as History/History as Language, in Post-Structuralism and the Question of History, cit., p. 183 e segg.

[21] Jameson, F., Reflections in Conclusion, in E. Bloch et alii, Aesthetics and Politics, London, N.L.B., 1977.

[22] Derrida, J., La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1990, p. 4.

[23] Culler, J., Criticism and Institution, in Post-Structuralism and the Question of History, cit., p. 84.

[24] Bennett, T., Texts in History, in ibid., p. 77.

[25] Cfr. Montrose, L., Professing the Renaissance. The Poetics and the Politics of Culture, in Veeser, cit. (trad. it. in Il neostoricismo, cit.).

[26] Montrose, L., New Historicisms, in Redrawing the Boundaries, ed. by Greenblatt, S., and Gunn, G., New York, The M.L.A. of A., 1992.

[27] Mc Gann, J., Social Values and Poetics Acts, Harvard U.P., 1988.

[28] Althusser, L., Ideology and Ideological State Apparatuses, in Lenin and Philosophy, and Other Essays, London, New Left Books, 1971, p. 162.

 

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