13/1996 Introduzione Il
"neostoricismo", come termine e come movimento critico, è
comparso sulle scene accademiche statunitensi circa alla fine
degli anni '70, relativamente in sordina, almeno fino alla crisi
della Decostruzione e della voga teorica imposta dai cosiddetti
"critici di Yale". Di
"metodo storico" si era già ovviamente parlato, non solo come
caratteristica della critica marxista, ma anche all'interno
della scuola della ricezione, sia sul versante europeo (pensiamo a
Hans Robert Jauss, e in particolare al suo saggio Literary
History as a Challenge to Literary Theory[1])
che nella sua versione americana. Ma l'aspetto che sembra
distinguere il neostoricismo è la sua opposizione netta alla
tradizione formalista dei New Critics e ai loro eredi della
Decostruzione americana. La polemica negli ultimi decenni era
talmente diffusa che Edward Pechter ironicamente così iniziava un
suo saggio sul PMLA:
"Uno spettro si aggira per la critica, lo spettro del
neostoricismo".[2] Oggi,
a circa vent'anni dalla formazione della nuova scuola, appare
invece evidente che il neostoricismo, come la Decostruzione, si
inseriscono nel panorama di quella galassia complessa e variegata
che è stata definita, per mancanza di definizioni migliori, "poststrutturalismo".
Alla netta contrapposizione tra neostoricismo e Decostruzione, che
ha contraddistinto in maniera polemica le prime mosse di questo
tanto conclamato "ritorno alla storia", è subentrato un più
attento studio del legame quasi inevitabile tra i due movimenti.
Così Lee Patterson mette in luce come la Decostruzione, nella sua
sfida all'idealismo, all'essenzialismo e al trascendentalismo,
non solo non nega la realtà della storia, ma è "una pratica
critica che si sforza di capire in che modo la 'realtà' si
posiziona attraverso i mezzi discorsivi".[3] Per
rintracciarne le origini e rinvenire le caratteristiche comuni
delle varie ramificazioni del neostoricismo, potremmo partire
dalle stesse parole di quello che è ormai riconosciuto - suo
malgrado - come il "fondatore", Stephen Greenblatt. "Molti
anni fa - scrive Greenblatt in Resonance
and Wonder - volendo segnalare una svolta
dall'analisi formale e decontestualizzata che dominava il New
Criticism, usai il termine neostoricismo per descrivere un
interesse per il tipo di problematiche che cercavo di affrontare
- come il radicamento degli oggetti culturali nella contingenza
della storia - e il termine da allora ha ottenuto credito. Ma,
come molte etichette, è un termine sviante. Il neostoricismo,
come il Sacro Romano Impero, smentisce costantemente il proprio
nome. L'American Heritage
Dictionary fornisce tre significati per il termine 'storicismo': 1-
La credenza che l'uomo possa fare ben poco per alterare i
processi che sono all'opera nella storia. 2-
La teoria che lo storico deve evitare ogni giudizio di valore nel
suo studio delle epoche passate o delle precedenti culture. 3-
La venerazione della tradizione passata. Molti
degli scritti etichettati come neostoricisti, e certamente i miei,
si sono risolutamente posti contro tali posizioni".[4] Sicuramente,
si tratti degli studi sul Rinascimento di Greenblatt e Montrose o
di quelli sul Romanticismo di Jerome McGann e Marilyn Butler,[5]
dell'ala retorica di Berkeley o di quella "politica" di Duke
e di Cambridge (U. K.), il neostoricismo si propone di rivalutare
l'importanza del contesto storico-sociale per lo studio dei
testi letterari, ma in modo "rinnovato" rispetto alle
precedenti forme di storicismo. Pur
nella consapevolezza delle differenze e delle varie ramificazioni,[6]
tenteremo qui di sintetizzare i tratti più salienti
dell'approccio neostoricista: -
La visione complessa del rapporto tra storia "speciale" (arte,
letteratura) e storia "generale", un rapporto di reciprocità
in cui non esiste più una distinzione netta fra cause ed effetti.
Fra il testo letterario e gli altri discorsi si instaura una rete
di "negoziazioni" e di scambi. Per i neostoricisti esistono
molte altre forme di mediazioni oltre a quella linguistica, come
per esempio i modi di produzione, i costumi sociali, le pratiche
patriarcali, le istituzioni dello stato e gli eventi politici:
tutte queste forme di mediazioni incidono sul discorso simbolico
dei testi. Come dice Edward Said "Le parole e i testi sono tanto
insiti nel mondo che la loro efficacia, in alcuni casi perfino il
loro uso, sono questioni che hanno a che fare con il progetto,
l'autorità, il potere e l'imposizione della forza".[7]
Si tenta cioè di proporre, seguendo la lezione di Foucault,
un'alternativa alla visione marxista della storia che
presupponeva un'assoluta dipendenza della scrittura
dall'organizzazione economica. La nuova interpretazione della
storia sottolinea i rapporti tra l'episteme di ogni cultura e il
suo modo di vedere, comprendere e descrivere il mondo. -
L'interesse per fonti marginali ed extraletterarie quali gli
aneddoti[8]
e i diari di viaggio, i manufatti e le tracce non testuali, i
dettagli apparentemente trascurabili. Così, per esempio, negli
studi del Rinascimento, il mercantilismo viene utilizzato come
mezzo per contestualizzare ed interpretare il testo teatrale. -
L'approccio interdisciplinare, e gli incroci con discipline
quali l'antropologia e i cultural
studies per i quali la letteratura è intesa come uno
dei tanti fenomeni culturali. Per Clifford Geertz, che insieme a
Foucault è uno dei modelli teorici dei neostoricisti, vi è un
proficuo interscambio fra antropologia e scrittura finzionale. Per
Geertz, infatti, sono narrazioni tutti gli scritti antropologici
in cui l'atto immaginativo è costituito dalla sua forma di
"descrizione densa" (thick
description), un atto che non è sostanzialmente
diverso dalla scrittura di un romanzo.[9] -
L'idea che la storia non è una descrizione oggettiva di quanto
è realmente accaduto, ma un racconto, una narrazione, un
"artefatto culturale", analizzabile quindi con gli strumenti
classici della critica letteraria, e soprattutto della retorica
del discorso. È Hayden White che, nel suo ormai famoso Metahistory,[10]
ha messo in crisi la possibilità dell'oggettività
della ricerca storica, contribuendo a una rinnovata autocoscienza
epocale che demistifica l'idea consolatoria di un intreccio
storico onnicomprensivo, per lasciare spazio a quello che Foucault
chiamava: "il gioco della rarità" contrapposto all'idea di
"una continua generosità del senso".[11] -
L'attenzione particolare del critico per la sua condizione di
osservatore all'interno del sistema che sta studiando, nei
confronti cioè della propria storicità con le inevitabili
"deformazioni" introdotte dalla prospettiva temporale. È
questa prospettiva che più delle altre avvicina, a nostro avviso,
il neostoricismo alla decostruzione e al "reader-response
criticism". Sulle
origini più remote, e sulle ragioni della polemica pro e anti
storicismo, le versioni sono molteplici: da una parte, tra i
critici di formazione marxista, Terry Eagleton o Frank Lentricchia
accusano il poststrutturalismo e i seguaci di de Man e della
scuola di Yale di pericoloso "fatalismo" e di colpevole
"oblio" della storia, responsabili di quella mancanza di
impegno che dovrebbe caratterizzare la critica come continuo
attacco al potere costituito.[12] Dall'altra,
per critici come Jonathan Culler o Tony Bennett il problema
contemporaneo della storia si pone seriamente anche nel
poststrutturalismo dove, accanto alle differenze interne, emerge
la tendenza comune al revisionismo,[13]
che modifica non solo la metodologia storica e letteraria, ma
anche lo stesso pensiero politico di derivazione marxista. Il
dibattito si inserisce in una più vasta querelle
fra ideologia ed estetica. In anni recenti abbiamo assistito a una
radicale trasformazione nello studio della letteratura,
evidenziata non solo dall'enfasi molto accentuata sulla teoria a
scapito del close reading,
o dall'eliminazione della distinzione fra testo primario e
commento, ma anche dal dibattito difficile e controverso sul
canone letterario in rapporto all'emergere delle letterature
extraeuropee. In questo senso è da intendersi il libro di Edward
Said Orientalism, del
1978, che ha dato l'avvio alla penetrante critica del discorso
culturale etnocentrico, mettendo sotto accusa non solo il concetto
di "Occidente", ma anche l'indiscussa preminenza del canone
letterario occidentale.[14]
Questo cambiamento coinvolge il concetto stesso di letteratura,
cioè la domanda su che cosa costituisca l'essenza del
"letterario", o detto altrimenti dell'"estetico", in
rapporto all'ideologico. Il problema non è certamente nuovo, ma
assume diverse connotazioni nella cultura postmoderna, dove il
ritorno ossessivo della storia si spiega come una sorta di
compensazione al fenomeno della sua pericolosa obliterazione in
una società altamente tecnologizzata.[15] In
questo binomio la letteratura è stata spesso ridotta o assimilata
all'ideologia tout court,
o è stato affermato che fra il letterario e l'estetico da una
parte, l'ideologico e il politico dall'altra, non c'è né
ci può essere alcun rapporto (s'intende che in queste
semplicistiche riduzioni si considera il termine "ideologia"
nel senso più negativo di mistificazione). Nel
primo caso, come sostiene Myra Jehlen nel suo saggio Literary
Criticism at the Edge of the Millennium; or, from Here to History,[16]
la missione del critico letterario che sposa la tesi della critica
ideologica risulta piuttosto ambigua. Infatti, riducendo le opere
letterarie che studia a menzogne storiche (o a falsi ideologici),
il critico si erige a nemico e accusatore d'ufficio delle opere
che analizza (e che in fondo dovrebbe avere scelto perché le
ama). Nel secondo caso, come rileva Peter Brooks nel saggio Aesthetics
and Ideology: What happened to Poetics?,[17]
oggi i critici letterari soffrirebbero di un complesso di
inferiorità, o di cattiva coscienza. Sentendosi "poeti o
critici retorici e sociali manqués,
sono colpiti dal continuo sospetto di non avere un soggetto
veramente valido da professare". Ma,
aldilà di ogni banale semplificazione, la critica anglosassone
sta vivendo una difficile crisi di identità che l'obbliga a
porsi una serie di problemi contingenti: da una parte, l'enfasi
sulla teoria rispetto all'interpretazione rischia di
allontanarla dai testi letterari, con la conseguente accusa di
astrattezza metafisica. Dall'altra, l'interesse si concentra
non tanto sul significato del testo, quanto piuttosto sulle sue
condizioni materiali, sui processi di mediazione o negoziazione
tra i diversi sistemi che sono impliciti ed esterni al testo
letterario stesso. C'è infine la diffusa resistenza all'idea
di "valore letterario o estetico assoluto", transtorico, e in
particolare all'idea di grandezza letteraria e di "genio",
da cui deriva un'enfasi sulla necessità degli studi
interdisciplinari, "beyond the boundaries". Il rifiuto, che si
colora talvolta di disprezzo, per l'aborrito formalismo del New
Criticism si riallaccia alla ripresa di una funzione
"politica" della letteratura vista come inutile o mistificante
se isolata dal contesto socio-politico, o semplicemente come
facente parte della "cultura" e della "storia". E, mentre
Walter Michaels, un critico vicino al marxismo e al neostoricismo,
afferma che "l'unico rapporto fra la letteratura in quanto
tale e la cultura in quanto tale, è che la prima fa parte della
seconda",[18]
altri critici contestano che la "letteratura" sia una
categoria chiaramente definibile del discorso, adducendo come
prova che, fin dalle origini, non esisteva una distinzione tra la
lingua letteraria e quella non letteraria.[19]
Ma proprio per nostra memoria storica è forse utile ricordare che
questo problema faceva parte del discorso letterario (o della
teoria della letteratura) anche prima del dibattito culturologico
e neostoricista recente, almeno da Sartre in poi, se si pensa alla
distinzione fra uso letterario e non letterario del linguaggio. Anzi,
secondo alcuni, l'affinità e insieme la contrapposizione fra
storia ed estetica viene fatta risalire addirittura al Settecento,
con le riflessioni di Baumgarten sulla poesia; per altri, viene
ripresa dall'opposizione fra sincronia e diacronia nel Corso
di Linguistica generale di Saussure, da cui prima lo
strutturalismo poi il poststrutturalismo avrebbero derivato
l'idea di "mettere fra parentesi la storia".[20]
Un'accusa, questa, lanciata da Lentricchia, che addirittura
scomoda la tassonomia trascendentale di Platone come primo modello
corruttore, ripresa da Edward Said e, più recentemente, da
Eagleton secondo una prassi di difesa d'ufficio della storia
tipica della cosiddetta "left", cioè l'ala di sinistra
degli intellettuali anglo-americani. Ma
forse è più corretto dire che lo strutturalismo, con la sua
nozione di sistema e la sua insistenza sullo specifico letterario
mentre poneva sicuramente domande alla storia, finiva per
occultarne, se non addirittura reprimerne il problema; invece, nel
poststrutturalismo - come sostiene anche Fredric Jameson -
emerge chiaramente "la crisi della stessa storicità".[21]
Jonathan Rée, riprendendo Ricoeur, afferma che nella nostra epoca
postmoderna, mentre elaboriamo il lutto per l'abbandono dello
storicismo hegeliano, dobbiamo cercare di capire "la fallacia
storicistica", che consiste nella presa di coscienza della
contingenza della storia, cioè la sua inevitabile deformazione
non appena cerchiamo di trovarne il senso. È
lo stesso Derrida, tacciato da Eagleton di essere "volgarmente
anti-storico", che rileva il passaggio fra una concezione
dialettica e una teoria della differenza: "L'atteggiamento
strutturalista e il nostro modo di porci di fronte e dentro al
linguaggio, non sono solamente momenti della storia. Stupore,
piuttosto, che ci viene dal linguaggio come origine della storia.
E dalla storicità stessa".[22]
Per Jonathan Culler, addirittura, anche il nemico numero uno dei
neostoricisti, cioè il New Criticism, non ha mai veramente
trascurato la storia.[23] Ma
allora che cosa contraddistingue il neostoricismo dal vecchio
storicismo o dalla decostruzione? Per noi, più la poetica
della storia che la storicizzazione
della letteratura. Infatti, a differenza di un marxismo
vetero-deterministico, anche l'ala più dichiaratamente politica
del neostoricismo, quella del cosiddetto "materialismo
culturale", erede di Raymond Williams, accanto al richiamo al
contesto, non trascura i problemi del linguaggio. Come scrive Tony
Bennett,[24]
"il significato storico dei testi è determinato non tanto
rapportandoli alle condizioni della loro produzione, ma
collocandoli all'interno del meta-testo della Storia che il
marxismo pretende di conoscere, ma i cui giudizi finali - che
possono essere dati qualora il processo della Storia sia
completato - esso può solo anticipare". Il neostoricismo si
sforza di coniugare una comprensione culturale e materialista
della storia con il concetto post-strutturalista di testualità.
Come ben sottolinea Louis Montrose, l'aspetto più saliente di
questo nuovo orientamento nei confronti della storia è proprio il
reciproco interesse per la storicità dei testi e per la testualità
della storia.[25] La
scelta dei saggi che seguono è stata quindi determinata dalla
complessità dei temi in oggetto, e cerca di far emergere le varie
posizioni in campo, non solo sull'identità di quel movimento
che abbiamo definito neostoricismo (anzi, dovremmo dire
"neostoricismi", seguendo la sottile distinzione di Louis
Montrose[26]),
ma sull'ampiezza di un dibattito critico che coinvolge
l'identità stessa di una "coscienza storica" alla fine del
Millennio. Per
questo motivo si sono privilegiati non tanto i cosiddetti padri
fondatori del neostoricismo, che pure sono presenti, quanto
piuttosto quei critici che non identificandosi interamente con
esso discutono, potremmo dire dai margini, alcuni punti teorici
nodali: la differenza terminologica fra storico e storicista, il
rapporto testo/contesto, ideologia/estetica, e soprattutto
l'identità del soggetto critico/interpretante. Una scelta, se
si vuole, eccentrica, ma voluta, perché paradossalmente è
proprio da questi commentatori, critici accesi o simpatizzanti del
neostoricismo, che si evidenziano le peculiarità di questa nuova
tendenza critica angloamericana. Il
saggio di David Bromwich ripropone l'aspetto tipicamente
americano, non solo del neostoricismo, ma anche del difficile
dibattito che quest'ultimo ha innescato nei confronti della
scuola critica marxista, del poststrutturalismo e della
Decostruzione. Infatti Bromwich critica l'eccesso di teoria, che
vede pericolosamente presente nello scenario accademico, perché
da una parte manca di una vera conoscenza storica e sociale e
dall'altra finisce per generare una sorta di gergo, di
"newspeak" di orwelliana memoria che pretende di avere un
rapporto diretto col controllo politico sul presente. "La mia
idea è che una coscienza del passato come tale riveste una
funzione critica per la critica di oggi". Questa frase riassume
la posizione provocatoria di Bromwich, di un critico che ha il
coraggio di prendere le distanze, di non allinearsi, una posizione
che appare però meno chiara e delineata rispetto a quella del suo
"maestro" Harold Bloom. Se Bromwich, come Bloom, ripropone in
maniera pressante un problema anche caro alla Decostruzione (cioè
quello dei requisiti indispensabili del critico, come la
competenza e l'istinto), a differenza di Bloom non si espone
fino in fondo ai rischi di posizioni estreme, proprie di un
critico/lettore "forte". Rosenberg
ridiscute l'aggettivo "new" preposto al termine storicismo,
sottolineando che l'enfasi che si è voluto dare sulla novità
è tipica della fase polemica e di fondazione di ogni corrente
critica. Solo così si spiega, per Rosenberg, l'accentuazione da
parte di certi neostoricisti di Marx, di Foucault, di Bachtin come
privilegiati ascendenti culturali e l'obliterazione di figure
come Carlyle e di romanzieri storici come W. Scott e G. Eliot. Vi
è infatti una disattenzione da parte dei neostoricisti nei
confronti dell'800 e del romanzo storico, di un periodo cioè
che ha messo bene in evidenza la continua commistione fra
scrittura storica e scrittura romanzesca, e la concezione della
storia non più monologica, ma caratterizzata da voci diverse. I
due saggi di Charles Altieri e di Jonathan Rée pongono in primo
piano l'inevitabilità di pensare a noi stessi in termini di
storia, e di vedere la storia secondo gli stili culturali e
generali delle nazioni e dei periodi. E mentre Rée pone come
paradossale, ma inevitabile, l'anacronismo, Charles Altieri,
occupandosi di strategie moderniste, programmaticamente
antistoriciste, si trova di fronte ad una situazione ugualmente
paradossale e apparentemente insolubile: come si scrive la storia
di un movimento che è fortemente critico nei confronti dei modi
narrativi della narrazione storica senza cadere in palese
contraddizione? Appare
ormai chiaro che il neostoricismo è un fenomeno abbastanza
complesso, che non può essere liquidato e spiegato opponendolo
semplicemente alla Decostruzione, perché nasce e si sviluppa
nella comune temperie culturale del poststrutturalismo, dove la
questione della storia viene posta come la questione della
"temporalità", e la narrazione storica, come quella
letteraria, viene sottoposta alla contingenza
dell'interpretazione e alle regole retoriche del discorso. È
anche in questo senso che si può intendere la "poetica
culturale" di Greenblatt, perché è forse proprio "poetics"
il vero tertium da
inserire a questo punto fra ideologia ed estetica. Fin dal titolo,
infatti, questo saggio di Greenblatt con il quale apriamo la
presente raccolta - vera 'professione di fede' del nuovo
movimento - non può non alludere a un progetto, e soprattutto
si colloca in una tradizione della storia dell'estetica che lo
stesso Greenblatt fa risalire ad Aristotele. In queste pagine si
avverte una continua tensione fra l'idea di un progetto e
l'ansia di fissarlo in norme troppo rigide: da una parte,
permane il desiderio di una visione unificante (che l'idea di poetica
come insieme di regole e di cultura
come pratiche sociali presuppone), mentre dall'altra, la paura
di cristallizzarlo evoca i concetti di movimento, esemplificati
dai termini "forza, energia, scambio" che sono tipici del
linguaggio greenblattiano. Questa doppia anima trova un terreno di
studio privilegiato nel teatro rinascimentale, "uno spazio
liminale" pieno di conflitti, nella dialettica fra messa in
scena del potere e la sua sovversione, riappropriato
ermeneuticamente secondo parametri propri della postmodernità. Il
saggio di David Simpson, un critico che in questo ritorno alla
storia ha proposto saggi non sul Rinascimento ma sul Romanticismo,
tenta di trovare una posizione intermedia fra le punte estreme
della Decostruzione e le posizioni dogmatiche, riduttive,
totalizzanti e totalitarie della critica vetero-marxista. David
Simpson esemplifica, a nostro avviso, il rapporto ambivalente che
i neostoricisti hanno con il marxismo. Da un lato, il marxismo
fornisce loro una serie di concetti critici - ideologia, lotta
di classe, mezzi e modi di produzione - e, come dice McGann,
"esso costituisce una tradizione potente e coerentemente
dinamica di investigazione critica";[27]
dall'altro, si offre a un'opera di netta revisione, perché le
sue premesse appaiono troppo perentorie e costrittive. In questo
processo di revisione si colloca in primo piano il concetto
marxista di ideologia come falsa coscienza, che diventa nelle
pagine dei neostoricisti - seguendo l'insegnamento di Geertz
- "un sistema di simboli che interagiscono tra loro", o -
nella versione di Althusser - "una rappresentazione del
rapporto immaginario che gli individui stabiliscono con la
condizione reale della loro esistenza."[28]
Pur essendo consapevole che la rinascita del metodo storico può
sfociare in ricostruzioni insidiosamente "idealistiche",
Simpson afferma, rivelando la sua ascendenza dalla scuola
britannica del materialismo culturale, che solo un metodo "che
parte da basi materialistiche può fornire il fondamento per la
ricostruzione di un insieme possibile. Solo una procedura
materialistica ha un largo potenziale e può gestire vari
dettagli, può produrre delle prove che non devono, in un progetto
di studio serio, essere ignorate". Fra
i critici che qui proponiamo, Lentricchia è il più radicale nei
confronti del neostoricismo, perché, a suo parere, lo storicismo,
vecchio o nuovo che sia, rimane sempre all'interno della logica
idealistica hegeliana e non rappresenta una rottura, come
pretenderebbe di essere, "al solito lavoro degli studi
letterari". Nella sua serrata critica a Greenblatt (che diventa
il suo bersaglio privilegiato come critico esemplare del
neostoricismo), Lentricchia mette in evidenza quelle che lui
definisce le antinomie di questa nuova corrente critica. La prima
è l'improbabile connubio fra Marx e Foucault, perché Marx,
teorico del cambiamento sociale e della rivoluzione, finisce per
diventare "un servo delle assemblee del cinismo, un teorico
della ripetizione". La seconda è rappresentata dallo schema
interpretativo dell'opposizione "contenimento/sovversione",
che attraverso una fantasia paranoica costruisce l'illusione di
un potere totalitario, da cui ci si illude di liberarsi solo
attraverso momenti individuali di estremismo estetico. Per
Lentricchia, quindi, i neostoricisti continuano, se non proprio a
dimenticare o a reprimere la storia come i seguaci del New
Criticism, sicuramente ad abusare della storia, come aveva già
sostenuto anche nel suo libro più noto, After
the New Criticism del 1980. La
polemica fra J. Hillis Miller e D. A. Miller riassume i punti
nodali del dibattito fra neostoricismo e Decostruzione, e ci
riporta all'obiezione che avevamo visto sollevata da Myra Jehlen
a proposito del rapporto fra ideologia ed estetica: per quale
ragione, infatti, dovremmo leggere, per esempio, i romanzi
vittoriani se questi (usiamo le parole di D. A. Miller)
"confermano il lettore nella sua identità di 'soggetto
liberale', la cui libertà è costantemente legata al regime
politico che fonda quel soggetto?" D. A. Miller lo giustifica
dicendo che, in questo modo, il lettore scopre l'ideologia
borghese. Ma in effetti, ribatte Hillis Miller, così si legge la
letteratura "contro se stessa", usando le parole di Gerald
Graff. Hillis
Miller, secondo una sua tecnica offensivo-difensiva, tenta anche
qui di estendere la Decostruzione fino a comprendere il
neostoricismo, suggerendo che "la buona lettura" è storica e
teorica insieme. Anzi, aggiunge, se non riusciremo, con le
classiche strategie decostruttive, a smascherare l'ideologia che
sottintende un determinato testo, non riusciremo neppure a
comprendere la storia. Ma, allo stesso tempo, lo smascheramento fa
parte di quella stessa strategia narrativa, o prosopopea, che ha
bisogno a sua volta di essere smascherata e decostruita (come
dimostra il racconto di Hawthorne). Mentre D. A. Miller mette in
evidenza i vantaggi materiali che derivano dal fatto di
"indossare un velo", e paragona il reverendo Hooper del
racconto di Hawthorne (predicatore di successo proprio perché
indossa quel velo nero), a Hillis Miller, il quale dovrebbe gran
parte del suo successo di critico alla sua abilità di frapporre
"un velo nero" fra il lettore e il testo. Come
dicevamo agli inizi, è un'impresa ardua cercare di fornire un
quadro esaustivo di un fenomeno variegato ed eterogeneo qual è il
neostoricismo, il cui stesso termine vago non dà ragione della
varietà e ricchezza delle teorie e pratiche critiche presenti al
suo interno. Nella mappa del neostoricismo, dai contorni poco
delineati, si possono però individuare, a nostro avviso, alcuni
crocevia su cui i critici inevitabilmente transitano. Il
primo consiste nella continua ricerca di nuovi orizzonti
interpretativi, in un'avventurosa, ma avvincente condizione di
eclettismo metodologico. Il secondo è la continua tensione che si
avverte nei critici neostoricisti tra poetica/retorica e
ideologia, tra il semiotico e lo storico, nel tentativo di trovare
un difficile equilibrio fra testo
e contesto,
di creare cioè un'alleanza fra la "descrizione densa"
sincronica e il desiderio di spiegare il momento storico nel suo
progressivo cambiamento. La critica di Greenblatt è un esempio
emblematico di questa tensione: talvolta sembra prevalere l'idea
di una storia e di una vita politica dominate dai rapporti di
potere, talaltra quella che l'opera d'arte ha sempre la
capacità di generare meraviglia, sorpresa, "wonder", piacere
nel lettore. Da questa tensione scaturisce il nucleo del dibattito
all'interno del neostoricismo: se il critico, infatti,
sottolinea troppo gli aspetti retorici, verrà accusato di
formalismo; se, invece, si sofferma sugli aspetti ideologici sarà
tacciato di essere riduttivo o troppo perentorio. Il terzo punto,
più complesso ma per noi più stimolante, consiste nelle
implicazioni ermeneutiche di questa difficile operazione di
"dialogare con i morti". Un'operazione che mette in primo
piano le capacità individuali di intuizione del critico, nel suo
sforzo di defamiliarizzare il familiare, il consueto. Il recupero
dell'alterità del passato acquista una potente carica
euristica, perché il tentativo di esplorare l'intricato
rapporto fra il mondo, il testo e il critico si riverbera sul
presente, producendo una consapevolezza ermeneutica del nostro
"essere nel mondo" che, se non ha un'incidenza politica
diretta sulla realtà, si traduce in una reale coscienza storica e
critica. Vorremmo
terminare sottolineando il significato delle due metafore che
contraddistinguono la Decostruzione e il neostoricismo: la wilderness,
il deserto che segnalava il disagio del lettore/critico in
un'angosciante situazione di anarchia interpretativa, ha
lasciato il posto ai boundaries,
ai borders, ai
confini, con l'idea che il critico deve essere in grado di
potere transitare da una disciplina ad un'altra. Un'idea di
confine non come frontiera trionfalistica e vittoriosa, ma come
incessante spostamento e decentramento, dove il termine
"posizione", invece di suggerire immagini guerresche o
diplomatiche, riprende l'atteggiamento del dubbio, della ricerca
sistematica come continua questioning,
che non è mai né rassicurante né consolatoria. È in questa
accezione che ci sembra di dover leggere la suggestiva frase di
Stephen Greenblatt: "I began with the desire to speak with the
dead". Vita
Fortunati Giovanna
Franci [1]
Jauss,
H. R., Literary
History as a Challenge to Literary Theory, traduzione
dei capitoli V-XII di Literaturgeschichte
als Provokation,
Frankfurt, Suhrkamp, 1970 (che riprendono il saggio
del 1967 Literaturgeschichte
als Provokation der Literaturwissenschaft). [2]
Pechter,
E., The
New Historicism and its Discontents: Politicizing Renaissance
Drama, PMLA,
May 1987 (trad. it. in Il
neostoricismo, a cura di V. Fortunati e G. Franci,
Modena, Mucchi, 1996) [3]
Patterson,
L., Making
Identities in Fifteenth Century England: Henry V and John
Lydgate, in New
Historical Literary Study,
ed. by J.N. Cox and L.J. Reynolds, Princeton U.P.,
1993. [4]
Greenblatt,
S., Learning
to Curse,
New York and London, Routledge, 1990, pp. 163-4. [5]
McGann,
J., The
Romantic Ideology, Chicago U.P., 1983. Tra
i numerosi studiosi che si possono annoverare nel neostoricismo
romantico ne nominiamo solo alcuni, tra cui - oltre ai già
citati McGann e Butler - John Barrell, Alan Bewell, Julie
Carlson, Paul Hamilton, Alan Liu, Marjorie Levinson e David
Simpson. [6]
Tali ramificazioni sono testimoniate, fra l'altro, dalle
miriadi di nomi a cui questa nuova corrente ha dato origine:
"new history", "critical historicism",
"historical-materialist criticism", "cultural poetics",
"cultural history". Per la discussione su questi termini,
cfr. New
Historical Literary Study,
cit., p. 3. [7]
Said,
E.W., The
World, the Text, and the Critic,
Harvard U. P., 1983, p. 48. [8]
Per una discussione approfondita sul ruolo dell'aneddoto nella
storia e nel neostoricismo, cfr. J. Fineman,
The
History of the Anecdote: Fiction and Fiction, in The
New Historicism,
ed. by A. Veeser,
New York and London, Routledge, 1989, pp. 49-76. [9]
Geertz,
C., The
Interpretation of Cultures,
New York, 1973 (trad. it., Bologna, il Mulino, 1987). [10]
White,
H., Metahistory,
Baltimore,
The Johns Hopkins U.P., 1973 (trad. it. Retorica
e storia, Napoli,
Guida, 1978, 2 voll.). [11]
Foucault,
M., L'ordine
del discorso,
p. 53, cit. in J. Rée. [12]
Cfr. Post-Structuralism
and the Question of History,
ed. by D. Attridge, G. Bennington, R. Young,
Cambridge U.P., 1987. [13]
Il termine "revisionismo" è comparso sulla scena critica
nord-americana con la Decostruzione, in particolare con H. Bloom
e G. Hartman, per indicare un attacco sistematico alle categorie
del discorso letterario. [14]
Said,
E., Orientalism,
New York, Pantheon Books, 1978 (trad. it. Torino,
Boringhieri, 1991). [15]
Cfr. Aesthetics
and Ideology,
ed. by G. Levine, Rutgers U.P., 1994. [16]
Jehlen,
M., Literary
Criticism at the Edge of the Millennium; or, From Here to
History, in Aesthetics
and Ideology,
cit., p. 40. [17]
Brooks,
P., Aesthetics
and Ideology. What Happened to Poetics?, in Aesthetics
and Ideology,
cit., pp. 153 e sgg. [18]
Cfr. Thomas,
B., W.
B. Michaels and the Cultural Poetics, in The
New Historicism and Other Old Fashioned Topics,
Princeton U.P., 1991. [19]
A questo proposito R. Cohen ci ricorda che anche nell'edizione
del Dizionario di Johnson del 1785, il termine "literary"
veniva definito in rapporto all'istruzione a alla capacità di
leggere (R. Cohen,
Generating
Literary Histories, in New
Historical Literary Study,
cit., p. 45). Importante per tutte queste discussioni
sull'evoluzione del significato di termini come critica,
letteratura
e cultura,
oltre che sul loro etimo, è il noto Key
Words di R. Williams, a cui tutti si richiamano. [20]
Cfr. Attridge,
D., Language
as History/History as Language, in Post-Structuralism
and the Question of History,
cit., p. 183 e segg. [21]
Jameson,
F., Reflections
in Conclusion, in E. Bloch et alii, Aesthetics
and Politics,
London, N.L.B., 1977. [22]
Derrida,
J., La
scrittura e la differenza,
Torino, Einaudi, 1990, p. 4. [23]
Culler,
J., Criticism
and Institution, in Post-Structuralism
and the Question of History,
cit., p. 84. [24]
Bennett,
T., Texts
in History, in ibid.,
p. 77. [25]
Cfr. Montrose,
L., Professing
the Renaissance. The Poetics and the Politics of Culture,
in Veeser, cit. (trad.
it. in Il
neostoricismo,
cit.). [26]
Montrose,
L., New
Historicisms, in Redrawing
the Boundaries, ed. by Greenblatt, S., and Gunn, G.,
New York, The M.L.A. of A., 1992. [27]
Mc Gann,
J., Social
Values and Poetics Acts,
Harvard U.P., 1988. [28]
Althusser,
L., Ideology
and Ideological State Apparatuses, in Lenin
and Philosophy, and Other Essays,
London, New Left Books, 1971, p. 162.
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